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“​Una donna” di Annie Ernaux ha vinto il Premio Gregor von Rezzori

È stata scelta come migliore opera di narrativa straniera tradotta in Italia

Una donna è un capolavoro minimalista. Qualche giorno dopo la morte della madre malata di Alzheimer in un ospedale alla periferia di Parigi, Annie Ernaux decide di scrivere di lei nel modo più sobrio e sincero che si possa immaginare. Ritrae sua madre in tutta la sua caparbietà, autodisciplina, violenza e tenerezza. La madre (mai citata per nome) lavora notte e giorno, decisa a dare alla figlia una vita migliore della sua. Questo magnifico libro, insieme agli altri pubblicati da Annie Ernaux, è la dimostrazione che le ambizioni di sua madre si sono realizzate. Ma non si tratta soltanto della storia di una famiglia povera che vive nella campagna della Normandia durante e dopo la seconda guerra mondiale. È anche il ritratto di un’intera generazione. Come nel successivo romanzo Gli anni, Annie Ernaux, forse influenzata dal filosofo Bourdieu, dipinge un quadro più ampio degli effetti culturali della povertà su un’intera popolazione. È un libro che tutti potranno apprezzare, per il suo carattere intimo, la sua franchezza e la toccante evocazione di un genitore defunto.

Questa la motivazione con la quale Annie Ernaux con Una donna (trad. Lorenzo Flabbi,  L’Orma 2018) si è aggiudicata il Premio Gregor von Rezzori – Città di Firenze.

Il premio per la migliore traduzione di un’opera narrativa straniera è andato invece a Enrico Terrinoni per Antologia di Spoon River (Edgar Lee Masters, Feltrinelli 2018), con questa motivazione:

La “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters è in Italia un classico tra i classici, uno di quei testi sacri e – apparentemente – intoccabili che sembrano resistere impavidi all’avvicendarsi delle generazioni e all’inevitabile modificazione degli orizzonti e dei riferimenti.

Presenti nelle antologie scolastiche più coraggiose già dagli anni Sessanta, quei testi non solo non subirono, da parte dei giovani del Sessantotto, il rifiuto decretato a tutto ciò che provenisse da una qualche autorità – in particolare da quella scolastica –, ma al contrario diventarono una sorta di cifrario di un filone più sommesso e meno eclatante del movimento, quello di una smagata ma pugnace malinconia. Non fu estranea a questa bizzarra “fortuna” del testo la figura, tanto antiautoritaria quanto a propria volta autorevole, della traduttrice, Fernanda Pivano, che all’opera garantì la stessa aura “rivoluzionaria” che sarà il punto di forza delle sue versioni dei poeti della beat-generation. L’uscita poi, alla fine del 1971, dell’opera di Fabrizio De André Non al denaro, non all’amore né al cielo, che dell’Antologia costituisce una sorta di ritraduzione nel linguaggio musicale, sancì la definitiva monumentalizzazione dell’opera.

Di tutto questo ha dovuto tenere conto Enrico Terrinoni quando, inseguendo un dèmone che conosce bene, quello della sfida al limite del possibile, ha deciso di gettarsi in quest’impresa. Tradurre dopo Pivano non solo si può, ma ormai si deve: bella e “giusta” per i suoi anni, quella versione non morde più come allora, e mostra qua e là le rughe di una prassi traduttiva tutta volta all’adattamento, all’arrotondamento, alla ripulitura; tradurre dopo Pivano e De André è viceversa, ancora oggi, un azzardo e una scommessa. Quelle versioni sono dentro di noi con la forza irresistibile della musica, che le ha come fermate per sempre, consegnandole alla parte più forte, più intima e conservatrice della nostra memoria. Ci voleva tutto il coraggio, tutta l’intelligente e giovanile baldanza di chi ha ritradotto l’Ulisse per fornire una nuova versione dell’Antologia: questa di Terrinoni è bellissima e necessaria, colta e decisa, accurata e convincente; ora orgogliosamente diversa, ora, vorrei dire, affettuosamente vicina a quei due grandissimi. E sempre e fino in fondo consapevole della grande responsabilità etica del traduttore che ri-traduce un classico: la responsabilità di condurre l’opera attraverso il tempo, il proprio e quello che verrà; di lavorare, come avrebbe detto Gregor von Rezzori, per una “effimera eternità”.

 

Tra i finalisti della XIII edizione c’erano anche

Andrés Barba, Repubblica luminosa (trad. di Pino Cacucci, La nave di Teseo 2018)

La piccola cittadina tropicale di San Cristobal, incastonata tra la foresta e il fiume, è sconvolta dall’improvvisa comparsa di trentadue bambini. Nessuno sa da dove vengano, parlano una lingua incomprensibile, sono affamati e violenti. Gli abitanti della città, che avevano appena trovato una stabilità economica, sono terrorizzati. Dopo che due adulti vengono accoltellati in un supermercato, nessuno a San Cristóbal ha il coraggio di guardare questi bambini negli occhi, per paura di diventare la loro prossima preda. C’è chi cerca spiegazioni, chi vuole salvarli e chi invece si schiera decisamente contro di loro. Ma chi sono questi bambini? Da dove vengono e cosa vogliono? Vent’anni dopo, un testimone di quei terribili fatti racconta la storia dell’anno e mezzo in cui la città invasa dai bambini è stata costretta a ripensare la sua idea di ordine, violenza, civiltà.

Elif Batuman, L’idiota (trad. Martina Testa, Einaudi 2018)

Nel 1995, mentre il mondo impara a usare le email e a comunicare via internet, Selin è una matricola a Harvard. Per lei comunicare, con o senza internet, è sempre stato un problema. Il suo rapporto con il mondo passa soltanto attraverso i romanzi: e cosi tutto della vita universitaria le pare assurdo. Il cavo Ethernet della connessione di dipartimento serve per impiccarsi? Se si compra tequila per la festa, come mai anche il sale? E perché nessuno si rende conto di desiderare solo ciò che non può avere? Quando però incontra Ivan tutto cambia. E per la prima volta capisce quanto è bizzarro e doloroso il desiderio e quanto è difficile ottenere ciò che si vuole davvero.

Elif Batuman fa, con una grazia e un umorismo davvero unici, qualcosa di straordinario: il racconto della giovinezza. Di quel tempo, cioè, in cui ogni esperienza ci viene incontro come se fosse la prima volta, di quell’epoca della vita (l’unica) in cui impariamo tutto, sempre, in ogni momento. Ma anche di quell’età di cui, come diceva Proust, non ripeteremmo nulla, di quei giorni che rivisti oggi, per quanto offuscati dal filtro della nostalgia, ci appaiono come una lunga e disperante sequela di errori, passi falsi, malintesi. Di idiozie. Un tempo pieno di noia e giri a vuoto, ma che allora ci sembrava pieno di senso, decisivo, eccitante (domanda: quindi cos’è che rende significativi certi fatti della vita e altri meno? Non sarà forse il modo in cui li raccontiamo, dice Batuman, il modo in cui ne facciamo letteratura?)

Stefan Merrill Block, Oliver loving (trad. Massimo Ortelio, Neri Pozza 2018)

Bliss, Texas. Alle 9.09 di sera del 15 novembre, durante il ballo della scuola, un ex alunno ventunenne, smilzo e pieno di tatuaggi, Hector Espina Junior, parcheggia il suo pick-up fuori dall’ingresso laterale ed entra nell’edificio con un fucile d’assalto comprato a una fiera di armi a Midland. Non si dirige in palestra dove i ragazzi stanno ballando e potrebbe fare una carneficina, bensì nell’aula sul retro, dov’è radunato il gruppo teatrale in attesa di salire sul palco. Hector non dice una parola prima di mettersi a sparare. L’orrore è amplificato dalla rapidità dell’attacco: il tutto non dura più di un minuto. Mentre esce dall’aula, l’assalitore si imbatte in Oliver Loving, un diciassettenne allampanato, timido e maldestro. Un ragazzo che desidera soltanto passare inosservato, bravo a scuola e impacciato con le ragazze, soprattutto con quella cui muore dietro da un anno, Rebekkah Sterling, uno scricciolo pallido con i capelli color rame. Hector spiana il fucile, trucidando il futuro dell’intera famiglia Loving, prima di togliersi lui stesso la vita.

Dieci anni dopo Oliver è ancora il «martire» di Bliss, ricoverato, in coma vegetativo, nella Crockett State Assisted Care Facility. Attorno al suo letto d’ospedale orbitano le vite dei suoi familiari: la madre, Eve, che trascorre quattro ore al giorno accanto al letto del figlio, convinta che basterebbe una distrazione perché Oliver scivoli via per sempre; il padre, Jed, che ha affogato il suo dolore nel whiskey e confonde il giorno con la notte; Charlie, il fratello minore, che si è trasferito a New York e, a suo dire, sta scrivendo un libro dedicato proprio a Oliver; e, infine, Rebekkah Sterling, l’amore giovanile di Oliver, che si è misteriosamente salvata dalla sparatoria per svanire poi nel nulla, senza rispondere alle domande dei giornalisti. Quando un nuovo test medico sembra promettere una soluzione per liberare la mente intrappolata di Oliver, sulla bocca di tutti affiora la domanda: potrà Oliver tornare a comunicare, e raccontare così ciò che è realmente accaduto in quella fatidica notte?

Olga Tokarczuk, I vagabondi (trad. Barbara Delfino, Bompiani 2018)

La narratrice che ci accoglie all’inizio di questo romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una cosa sola: essere una barca su quel fiume, essere eterno movimento. È questo spirito-guida che ci conduce attraverso le esistenze fluide di uomini e donne fuori dell’ordinario, come la sorella di Chopin, che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, per seppellirlo a casa; come l’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille che usa il proprio corpo come terreno di ricerca; come Soliman, rapito bambino dalla Nigeria e portato alla corte d’Austria come mascotte, infine, alla morte, impagliato e messo in mostra; e un popolo di nomadi slavi, i bieguni, i vagabondi del titolo, che conducono una vita itinerante, contando sulla gentilezza altrui.

Come tanti affluenti, queste esistenze si raccolgono in una corrente, una prosa che procede secondo un andamento talvolta guizzante, come le rapide, talvolta più lento, come se attraversasse le vaste pianure dell’est, per raccontarci chi siamo stati, chi siamo e forse chi saremo: individui capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte di noi, ci rende vivi e ci trasforma, perché “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.

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