Rebecca libri

Abraham Yehoshua, la spiritualità dei gesti quotidiani

di Wlodek Goldkorn

Giunto, quasi, all’età di 80 anni (li compie il 19 dicembre) Abraham B. Yehoshua si concede tre lussi. Il primo: sta scrivendo un nuovo romanzo (che uscirà in italiano come sempre per Einaudi). Il tema: la demenza senile; il protagonista è un anziano che prende molto sul serio il ruolo di nonno; e dove l’autore israeliano, tra i massimi del mondo, torna all’origine della sua scrittura; e cioè al surrealismo. «Alla mia età mi posso permettere di uscire dai vincoli di realismo» dice e ride. «Il surrealismo dà licenza poetica di dire qualunque cosa, specie quando il protagonista ha la mente un po’ svanita.» Letto il primo capitolo, risulta un potenziale capolavoro. Il secondo lusso: ha deciso di non seguire più la sinistra nelle «lamentazioni circa la catastrofe incombente e la fine di ogni speranza.» Dice: «Rispetto a quello che sta succedendo nel resto del mondo, qui viviamo in una situazione di relativa normalità». Certamente, da militante del movimento per la pace non si è rassegnato ad accettare lo status quo di occupazione militare, trova riprovevole la colonizzazione dei territori, è deluso dalla scarsa volontà dei palestinesi «di fare il loro Stato», ma pensa di intravedere un futuro possibile di una vita comune tra ebrei e arabi; ci torneremo. Il terzo lusso: ha lasciato Haifa, città dove ha vissuto dal 1967 e ha preso una grande, bella casa a un piano altissimo di un nuovo edificio a Tel Aviv; per stare accanto ai sette nipotini. La prima cosa che colpisce entrando nell’appartamento che lo scrittore condivide con la moglie (psicanalista, ed è facile intuirlo ascoltando le parole scritte nei libri del marito) è la luce. Un’intera parete di un ampio salone è di vetro. Oltre il vetro, il cielo sopra la Terra Santa, un cielo luminoso, di un azzurro che volge per l’intensità verso il bianco e che facilmente induce a visioni metafisiche e trascendentali, ma che qui è il cielo di una città, Tel Aviv, che della santità e trascendenza non sa che farsene. Luogo laico, dei senza dio, paradiso di ogni minoranza sessuale e di genere e dove sulla stessa spiaggia si vedono ragazze nude fare il bagno accanto a donne in burkini (e si parlano tra di loro), la spiritualità di Tel Aviv è fatta di gesti quotidiani: ma anche da quello che non si fa. Per esempio: non si picchiano né offendono gli arabi dopo un attentato, anche se a morire siano stati ragazzini in una discoteca.
E anche: si votano i partiti che auspicano la fine dell’occupazione. E ancora, mentre a Gerusalemme, all’epoca degli attentati e degli accoltellamenti, sul tram, sull’autobus si guardano le mani del vicino e si cerca negli occhi dei passanti il nervosismo e la tensione, a Tel Aviv si fa finta che tutto questo non esista. Sui mezzi di trasporto ci sono ragazzi in shorts diretti sulla spiaggia accanto ai manager incravattati; e tutti a guardare gli smartphone, come in una metropoli qualsiasi, Bangkok o Buenos Aires. Infine; quando c’è una guerra che si considera ingiusta, a Tel Aviv si scende in piazza; e ogni volta sono centinaia di migliaia di persone. E comunque questo è un luogo che della storia è scevro e dove conta solo il presente; e dove davvero si è liberi da ogni segno identitario, come è libera e fantasiosa la mente del nostro interlocutore, nato a Gerusalemme, città carica invece di miti, identità pesanti e dove la trascendenza facilmente si tramuta in odio e sangue. Anche lo studio di Yehoshua è ampio e luminoso; e vi si vede (come dal salone) l’intera città, con i suoi grattacieli, con l’autostrada che corre nel letto del fiume prosciugato Ayalon, e fino al blu del Mediterraneo. Ma, allo stesso tempo, lo studio ha l’aura di una cella monacale, spoglio di ogni cosa superflua; se non per una enorme e comodissima poltrona, color nero. Lui si lamenta: «È la prima volta in vita mia che lavoro in casa, non è facile. A Haifa avevo un appartamento tutto mio, accanto a quello condiviso con mia moglie». Ma poi è ricompensato dall’amore, e ne parlerà nel corso di questo colloquio. Sentiamolo quindi, a partire da una domanda canonica: perché scrive libri. Lui, sorride (è molto ironico Yehoshua) e dice nel suo ebraico raffinato ma diretto: «Mia moglie, da brava psicanalista, sostiene che scrivo per controllare la realtà”. E così ammette di voler essere una specie di dio, un deus ex machina; creare e distruggere personaggi e mondi. Ma come per uno spirito di contraddizione e amore di paradosso (Yehoshua adora l’ambivalenza che però ha il fondo di onestà intellettuale e artistica) narra una storia che spiega i limiti di ogni pretesa di controllare tutto. Dunque nel romanzo Il ritorno dall’India (1994) il giovane protagonista si innamora di una donna più anziana. Ma lei lo lascia. Dice Yehoshua che quando ha iniziato a lavorare al libro ha pensato a tre eroine ottocentesche: Anna Karenina, Emma Bovary ed Effie Briest, suicide per amore: «Volevo che questa volta a darsi la morte per amore fosse un maschio. Ma il mio protagonista si è rifiutato. Mi ha detto: non mi hai dato motivi sufficienti perché io ponga fine alla vita». E così si arriva a parlare del rapporto tra scrittura e vita. Yehoshua riflette: «Faccio il romanziere perché sono convinto che la letteratura permetta di esprimere idee complesse, non come discorso filosofico, ma dando vita e voce a personaggi veri e narrando situazioni esistenziali». Sorride: «C’è un lato simbolico, kafkiano nella mia scrittura». In La scena perduta (2011), romanzo folle, picaresco e in cui Yehoshua indaga sulle origini della scrittura, e dove dal registro realistico passa con facilità al surrealismo (cambiando pure il finale di Don Chisciotte) come se avesse voluto mettere in gioco ogni arte, in La scena perduta, dunque, è inserito per intero un racconto di Kafka, Nella nostra sinagoga. Vi si narra di un piccolo e arcaico animale, una marmotta che abita in una sinagoga. L’animale è fuori luogo e fuori tempo e tuttavia senza quell’animale fuori luogo e fuori tempo, quel luogo e quel tempo non potrebbe esistere. «Quell’animale nella sinagoga dà il senso all’identità ebraica come nessun saggio filosofico e storico è in grado di fare. C’è uno strato metafisico in quel racconto che nessun altro autore è in grado di trasformare in scrittura».
Ma esiste un’etica della scrittura? «Le devo spiegare una cosa» Yehoshua alza la voce. «La generazione precedente alla mia, scrittori che hanno combattuto nella guerra dell’indipendenza del 1948, aveva un modo di pensare legato all’ideologia e al sistema di valori socialista e sionista. Io invece ho voluto rendermi libero. Non mi interessava la discussione (vera su un romanzo vero, Ndr) se a un membro di un kibbutz fosse permesso innamorarsi di una ragazza tedesca». Cita uno dei suoi primi racconti, Il rapido serale di Yatir: «Invento un incidente ferroviario provocato da abitanti di un paesino che vogliono vivere così un’esperienza forte, senza alcun altro motivo». Insiste: «Parlo di metafisica da scrittore, non da filosofo. È questo il mio surrealismo. Ed è questa la mia libertà». Obiezione: Yehoshua fa troppo il modesto. È pur sempre autore di romanzi in cui si parla di scelte etiche dei protagonisti. In Un divorzio tardivo indaga sulla natura morale dei rapporti coniugali, su come ci si pone di fronte a una moglie che soffre di una malattia mentale. In Il signor Mani… Lo scrittore interrompe la domanda e dice: «Ma in nessuno dei miei romanzi do un giudizio etico definitivo». Ulteriore obiezione: nessun grande scrittore lo fa, altrimenti sarebbe un filosofo moralista e non uno scrittore. Yehoshua sbuffa, poi ride: «E allora prendiamo Il viaggio alla fine del Millennio. Il protagonista è bigamo. È evidente che io non sono favorevole alla bigamia, ma gli fornisco tutte le possibilità e tutti gli argomenti plausibili a favore. Però, certo, alla fine spiego che se un uomo ha diritto a due mogli, allora anche una donna deve avere diritto a due mariti». Riflette: «Nel romanzo l’ideologia dev’essere filtrata da un setaccio molto delicato. I miei modelli sono Shmuel Agnon (Nobel per la letteratura e tra i fondatori del romanzo moderno in ebraico), Kafka, Beckett (l’uomo che decreta la fine della parola), Camus”. Ecco, Camus, un algerino nato e cresciuto nella luce accecante del Nordafrica, maestro assoluto nel raccontare la luce, i suoi riflessi e le forme che dà al mondo. Gli occhi di Yehoshua s’illuminano e segue un’insolita confessione: «Non sono bravo a raccontare gli oggetti, la mia scrittura non è abbastanza sensuale. Quindi è la luce che descrivo a dare la forma alle cose». Un po’ come Bacon, e Caravaggio che Yehoshua adora.
Ma lui preferisce fare una digressione su politica e identità. In uno dei romanzi canonici della generazione precedente a Yehoshua il protagonista “è nato dal mare”: un modo per dire che gli israeliani non hanno passato, perché il sionismo ha prodotto un ebreo nuovo che ha reciso ogni legame con la diaspora. Oggi invece, spiega Yehoshua, «siamo all’ossessione della memoria». Tutto è cominciato decenni fa, con la rivalutazione romantica della vita degli ebrei in Europa dell’est prima della Shoah. Negli ultimi tempi sono invece i figli e i nipoti degli immigrati dai Paesi arabi a rivendicare le radici e l’orgoglio identitario, in chiave populista e contro le élite occidentalizzate, askenazite e di sinistra. Tanto che la ministra della cultura Miri Regev, di origini marocchine, è arrivata a dire che Cechov non fa parte della sua tradizione e che lei, da brava marocchina appunto, da ragazza non andava mai a teatro. «Guardi,» dice Yehoshua «David Ben Gurion (il fondatore dello Stato d’Israele) era venuto qui dalla Polonia nel 1906. E disse: io rinasco in Terra d’Israele e la mia identità è il deserto. Non gliene importava niente della cittadina da cui veniva. Certo, era una visione un po’ troppo radicale, ma in fondo aveva ragione. Io non saprei che farmene della vicenda di un rabbino marocchino o lituano di duecento anni fa». Tace per lunghi due minuti, dà impressione di pensare a qualcosa di inenarrabile, poi guarda l’interlocutore dritto negli occhi: «Chi dice “abbiamo sconfitto Hitler perché abbiamo uno Stato degli ebrei” dice una un’idiozia oscena. Non abbiamo vinto. La Shoah è stata una sconfitta e una catastrofe. Ci hanno ammazzato non per una questione di territorio, di fede, di ideologia, di economia, ma perché ci consideravano dei microbi. Ci hanno ammazzato nella maniera più umiliante immaginabile». Prende tempo: «Ecco perché per me lo Stato, il nostro Stato è un dono, un regalo. Abbiamo rischiato di essere oggi un popolo vagante tra i musei della Shoah». Quindi? «Quindi, con tutta la critica che esprimo nei confronti dello Stato d’Israele, sono fiero di questo Stato, e sono orgoglioso perché i miei figli vivono qui». Nuova pausa, cui seguono parole strozzate: «C’è qualcosa di terribile riguardante Auschwitz. I tedeschi hanno detto agli ebrei: voi dite che siete un popolo senza patria? Allora vi portiamo ad Auschwitz perché questa è una non patria, un luogo che non è luogo». Altra pausa: «Io sono contrario ai viaggi dei giovani israeliani ad Auschwitz, così come oggi vengono fatti». Spiega: «Vanno lì con le bandiere spiegate al vento, manifestano orgoglio. Io voglio invece che chi va ad Auschwitz pianga. È un cimitero». «Ecco perché» spiega «per me l’identità israeliana, il territorio, è la cosa più importante. Per duemila anni gli ebrei hanno vissuto una specie di nevrosi; dicevano “l’anno prossimo a Gerusalemme”, ma non facevano niente per arrivarci, a Gerusalemme. Con il corpo stavano da una parte, con i sogni da un’altra». Sorride: «Il paradosso è che anche qui in Israele non capiamo che il territorio è la patria e che la patria è territorio». All’obiezione che la normalità non esiste e forse era solo un’illusione dei sionisti, il tentativo di “normalizzare gli ebrei” risponde: «La normalità esiste, invece. Normale è una persona responsabile delle proprie azioni. La normalità degli ebrei è quindi essere responsabili per la propria sorte. Chiamasi sovranità».
Si beve il caffè, si mangiano i datteri, si parla dei nipotini; e sembra di essere in un Paese qualunque del Medioriente e non in uno Stato nato per dare una patria ai profughi venuti dall’Europa, con i loro cibi (carpa farcita) e con i loro modi di vivere (lamentazione perché fa troppo caldo). Accoglie con un sorriso l’osservazione sui suoi illustri colleghi per cui Amos Oz è un grande scrittore russo che scrive in ebraico, David Grossman è un ottimo romanziere polacco, mentre lui, Yehoshua, è un autore locale. Poi racconta: «Sono della quinta generazione di gente nata a Gerusalemme. I miei antenati arrivarono da Salonicco a metà dell’Ottocento, molto prima della nascita del sionismo». Sua madre invece era arrivata dal Marocco, figlia di benestanti di Agadir. Nelle foto appare bella, un po’ malinconica e forse non del tutto felice. Non ha mai imparato a leggere in ebraico, le opere di suo figlio le ha lette in traduzione francese, e così forse non ha potuto comprendere a pieno la formidabile padronanza della lingua di Yehoshua, mentre lui non ha mai potuto godere in pieno dell’ammirazione della mamma (Yehoshua queste osservazioni non le vuole commentare). Così si arriva a parlare di famiglia, un tema classico di ogni romanzo, ma Yehoshua vuole sorprendere: «Per me la cosa più importante è il matrimonio, non la famiglia. La mia è una presa di posizione etica ed esistenziale. I rapporti matrimoniali sono molto significativi perché possono essere disfatti da un momento all’altro e quindi sono rapporti mantenuti per libera scelta. Nelle mie ultime opere valorizzo, non romanticamente ma parlando della dura realtà, l’istituzione del matrimonio, proprio nel momento in cui la maggior parte della letteratura contemporanea mostra di disprezzarlo».
Eccoci quindi nel cuore della creazione. Anche nei suoi testi meno interessanti (capita pure agli scrittori più grandi) la prosa è trascinante, forse grazie a una maniacale attenzione ai dettagli, quasi a ricalcare Balzac o Manzoni. La risposta è una secca smentita. «No, non mi riconosco in Balzac o Manzoni. Ai tempi non c’erano film, né documentari sulla natura: ecco perché lo scrittore doveva mostrare tutta la sua abilità nell’uso delle parole. La mia è invece una lingua scarna, e proprio perché il mio linguaggio non è del tutto sensuale (l’ho già detto) ho bisogno di essere preciso e, qualche volta, giocare sul significato simbolico delle parole che uso». Aggiunge: «Mi sono di aiuto la Bibbia e il Talmud. L’ebraico è una lingua che permette di impostare un dialogo tra un ragazzo e una ragazza in un modo che contenga uno strato semantico che risale a oltre un millennio fa. Da noi anche un bambino è in grado di comprendere la Bibbia, un testo di 2.500 anni fa».
Bibbia, Talmud, tradizioni antiche. Ma Dio per Yehoshua esiste? «Non nella sua versione religiosa. Però riconosco il bisogno di un Dio personale. E siccome sono interessato alle vicende umane ed esistenziali, nelle mie opere non posso fare a meno di parlare della necessità di alcuni di noi di crederci e trarne ispirazione per formare giudizi etici e fare scelte esistenziali». C’è chi è convinto non solo che Dio esista, ma che abiti a Gerusalemme… «E allora, facciamo un po’ di chiarezza», dice. «Il sionismo non è nato a Gerusalemme, anzi, il sionismo voleva liberare gli ebrei dalla semantica religiosa e priva di conseguenze pratiche della formula “l’anno prossimo a Gerusalemme”, per cominciare a ragionare in termini di territorio dove costruire un’identità nazionale, linguistica e politica, qui e ora». Lui, Gerusalemme la lasciò nel 1967, proprio nel momento in cui Israele conquistò il Muro del Pianto e i luoghi sacri. Yehoshua ripete (lo ha detto in varie occasioni) che da laico, territorialista, voleva fuggire dall’atmosfera dell’insana fusione tra miti arcaici e identità nazionale. Però spiega di essere legato alla città, anche dal punto di vista spirituale: «Mio padre aveva scritto una dozzina di libri sulla vita a Gerusalemme, tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso. E Gerusalemme è sempre presente nei miei libri. La principale protagonista di Il signor Mani, il mio più importante romanzo, è proprio lei, Gerusalemme». Ha parlato di Il signor Mani? Lì c’è qualcosa che assomiglia a un incesto. Di incesto si parla pure in La sposa liberata. Le piace violare i tabù? Yehoshua ride: «Nell’incesto c’è un’attrazione sessuale enorme, per questo motivo si tratta di un tabù e di un divieto dei più severi possibili per tutte le religioni e per quasi tutte le civiltà. La letteratura non può prescindere da quel desiderio, ecco perché l’incesto fa capolino nei miei libri». Precisa: «Talvolta come realtà, altre volte come sogno». Anche gli arabi sono una specie di tabù, sociale, in Israele. Per Yehoshua sono invece qualcosa di molto concreto. In L’amante un ragazzino arabo s’innamora della coetanea ebrea. In Di fronte ai boschi un palestinese a cui è stata tagliata la lingua incendia una foresta. In La sposa liberata i palestinesi mettono in scena il dramma fondante della letteratura yiddish, Dibbuk. «Mio padre parlava l’arabo alla perfezione e aveva molti amici palestinesi. Gli arabi sono sempre stati presenti nella mia vita. E siccome vivono in mezzo a noi il rapporto con loro è la chiave per costruire il futuro del nostro Stato, uno Stato che sta diventando bi-nazionale nei fatti. E anche nella mia opera, gli arabi sono parte della nazione israeliana. Del resto c’è una teoria per cui i palestinesi sono discendenti degli antichi ebrei. Ecco, potrebbero diventare israeliani senza convertirsi all’ebraismo. Sarebbe una cosa formidabile. Ci costringerebbe a recidere finalmente il nesso tra fede e nazionalità». Il colloquio sta per concludersi con una domanda intima. Cos’è l’amore? «Per me», risponde, «l’amore è amore per mia moglie. Ne sono innamorato da oltre 50 anni. Se mi chiede se è questa l’essenza dell’amore, dico che non saprei. Ma forse sì». Si potrebbe terminare qui, ma Yehoshua vuol parlare della Francia. A Parigi ha vissuto dal 1963 e fino al ’67, e non c’è surrealismo senza la Francia. Dice: «Quando io e mia moglie ci siamo laureati, avevamo la possibilità di andare in America per proseguire i nostri studi. Sapevamo bene la lingua e gli States ci sembravano il mondo nuovo, l’avvenire. Ma abbiamo scelto la Francia. Penso che fosse la decisione più importante della nostra vita. L’America assomiglia a Israele, un Paese nuovo che tuttavia basa la propria identità su miti e non sulla Storia. La Francia, come del resto l’Europa, elabora invece una memoria storica dettagliata. Per questo i quattro anni che abbiamo vissuto a Parigi sono stati così significativi per tutto il resto della nostra vita». Aggiunge: «Il filtro francese mi ha aiutato a conoscere l’Italia, con cui sento un profondo legame anche dal punto di vista letterario. Per me e mia moglie l’Italia è una seconda patria, come la Francia». Non è retorica. Qualche anno fa, Yehoshua e la moglie erano ospiti a Marina di Pietrasanta. Una mattina fecero visita (in incognito) a Sant’Anna di Stazzema, luogo della strage nazista. Erano ambedue commossi. Come se a essere stati assassinati fossero bambini, donne, uomini non stranieri, ma loro fratelli.

 

L’immagine di copertina è un acquarello di Paolo Galetto.

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