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Acini di rabbia

di Paolo Vachino

L’Ovest non è solo uno dei quattro punti cardinali. È soprattutto una condizione dello spirito. Un luogo mitico, a cavallo tra immaginario e utopia. Un anelito. La terra promessa. Il paradigma dell’inquietudine. La sindrome dei viandanti. Il cromosoma dei pionieri. Di quelli che si mettono in marcia a piedi. Con ogni mezzo. Può essere la frontiera mobile di chi cerca un luogo dove stanziare, magari solo per un po’. O la direzione contraria di chi fugge, da chi scappa dal disastro.

L’umanità migra. Si sposta. La transumanza dei disperati che non si rassegnano a soccombere in un luogo solo perché ci sono nati. Di quelli che lottano per riconquistare il ‘qui’ in un ‘altrove’. La letteratura contemporanea comincia con Odisseo che peregrina per anni in cerca della sua Itaca in cui farvi ritorno. Ma — tutto sommato — solo per ripartire, ri-abbandonandola. Dal peregrinaggio al pellegrinaggio. Dall’erranza al viaggiare in terra straniera. Da forestieri. Qualcuno che viene da fuori.

Ogni generazione porta con sé una forma nuova di migrazione. E molti scrittori hanno cercato di raccontare l’epopea dei migranti. Qualcuno è persino stato in grado di rendere epiche le loro gesta estreme. John Steinbeck (1902–1968) ha scritto — senza dubbio — le pagine più belle e intense di tutta la storia della letteratura. The Grapes of Wrath. Tradotto in italiano con Furore. “Acini di rabbia”— la traduzione letterale — era un titolo forse troppo poetico. Forse poco incisivo sul piano comunicativo. “Furore” è sintesi, baleno, squarcio. Inchioda il lettore al muro della storia narrata: le conseguenze antropologiche e sociali della “Grande Depressione”. Ma gli “acini di rabbia” sono il filo rosso che unisce ogni parola della storia raccontata: sono acini di rabbia i protagonisti; acini di rabbia i giorni che si susseguono tra speranza e catastrofe; acini di rabbia sono i luoghi assolati di giorno e umidi di notte; acini di rabbia gli animali che s’incontrano lungo il cammino. Il mosto che esce dalla spremitura di questi acini è una storia che assume una valenza universale — quindi ancestrale e futuribile — , scritta e pubblicata nel 1939, ma contemporanea del mare solcato da Odisseo così come a quello dei migranti che si schiantano sugli scogli di Lampedusa, nel cuore del nostro mare Mediterraneo.

L’Ovest di Furore è la California, il luogo dove “basta allungare una mano e si raccoglie un’arancia”. Ma l’incipit della storia è memorabile: “Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklahoma le ultime piogge furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati”. La pioggia che non irriga più. Le terre riarse dal sole. La polvere. Polvere ovunque. L’apocalisse? No, solamente — e basta e avanza — una laica catastrofe, il collasso di un’economia rurale. “Ora la polvere impalpabile non ricadeva più al suolo, si disperdeva nel cielo sempre più scuro”. Gli uomini assistono impotenti. Persino i bambini “sondano in silenzio gli uomini e le donne per capire se sarebbero crollati”. Subito compaiono i primi “acini di rabbia”: “Dopo un po’, le facce attente degli uomini persero la loro stupefatta perplessità e si fecero dure e rabbiose e ostinate”. Ed ecco il primo mosto di saggezza delle madri e dei bambini: “Le donne capirono che andava tutto bene, e i bambini capirono che andava tutto bene”. Gli uomini sono pronti a lottare, a non soccombere.

Ma qual è la causa di questa tragedia ecologica e antropologica? — “‘I mezzadri stanno sparendo’, disse. ‘Arriva un trattore e ti sbatte fuori dieci famiglie. I trattori stanno dappertutto ora. Arrivano e ti sbattono fuori i mezzadri’”. È la tecnologia — il progresso — che fa irruzione nelle vite. Il terreno non è più lavorato dalle mani ma dalla forza motrice di un mezzo meccanico. Terreno che viene prosciugato. Reso sterile, infruttifero. Così i debiti aumentano. E i proprietari si vedono costretti a cedere i poderi alle banche. “Un uomo può tenersi la terra finché ha di che mangiare e pagare le tasse; questo può farlo. Sì, può farlo finché un giorno non gli va male un raccolto, e a quel punto deve farsi prestare i soldi dalla banca. Ma, vedete, una banca o una società questo non possono farlo, perché non sono creature che respirano aria, che mangiano carne. Respirano profitti; mangiano interessi sul denaro. Se non lo fanno, muoiono esattamente come morireste voi senza aria, senza carne. È triste ma è così. Non ci si può fare niente”. Tecnica e Capitalismo. Spettri in carne che scarnificano l’umanità, che scardinano il rapporto che l’uomo ha sempre intrattenuto con la natura, con gli animali, le cose. I mostri abbandonano le fiabe ed entrano nella realtà. “La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla”. Il dominio della Tecnica e del Capitale.

Vista l’oppressione di questa cappa asfissiante, che tutto trasforma in polvere, ecco che affiora la domanda: “Perché non andate all’Ovest, in California? Lì c’è lavoro, e non fa mai freddo”. In qualche modo è l’eterna ri-attualizzazione del Paese di Cuccagna. Luogo di benessere e di piacere. Benessere dato da lavoro, in questo caso; e il piacere dato da una mitizzazione delle condizioni non solo climatiche — “non fa mai freddo” -, ma dalla mancanza del freddo interiore, del gelo della noia e della disperazione. L’Ovest come luogo di ritrovata serenità contrapposto allo squallore e alla rovina causata dall’irruzione dei mezzi meccanici. Una sorta di futurismo distopico: “Il tuono dei cilindri rimbombava per i campi, faceva tutt’uno con l’aria e la terra, tanto che terra e aria risuonavano di un’identica vibrazione. Il trattorista non poteva controllarlo”. La perdita del controllo della realtà. L’uomo che diventa una pertinenza della sua proprietà, né diventa succube, schiavo, vittima. Per la prima volta nella condizione tragica dell’impossibilità di rintracciare un colpevole: “Il trattorista diceva: ‘Un tizio m’ha detto che la banca piglia ordini dall’Est. E gli ordini erano: ‘O quella proprietà fa profitti o vi chiudiamo’. Ma dove finisce questa catena? A chi possiamo sparare? Non mi va di morire di fame senza ammazzare l’uomo che mi fa morire di fame? — Non lo so. Forse non c’è nessuno da ammazzare. Forse non c’entrano gli uomini. Forse, come hai detto tu, è la proprietà la causa di tutto. Io comunque t’ho detto gli ordini che ho”.

Allora, come oggi, c’è sempre qualcuno che fugge dai morsi della fame, dal teatro della guerra, per avere scelto — non soltanto — di non morire, ma anche — e soprattutto — di non ammazzare nessuno. Si parte. Con qualsiasi mezzo. Nella storia raccontata da Steinbeck i protagonisti — la famiglia Joad — “si vogliono comprare una macchina per andarsene all’Ovest, che lì si campa meglio”. L’Ovest diventa sinonimo di speranza, di garanzia di salvezza. E anche se qualche dubbio sgorga nelle menti più lucide: — “Ho conosciuto uno della California. Non parlava come noi. Lo capivi da come parlava che veniva da qualche posto lontano. Ma quel tizio m’ha detto che ora lì c’è un sacco di gente che cerca lavoro. E dice che quelli che raccolgono la frutta stanno tutti accampati in posti sudici e fanno la fame. Dice che le paghe sono basse, e lavoro ce n’è poco”, — la forza del sogno e dell’utopia prendono sempre il sopravvento. “A tuo padre gli hanno dato un volantino di carta gialla, e lì c’è scritto che cercano un sacco di gente per lavorare. Se non c’era lavoro mica si scomodavano a fare una roba così. Chissà quanti soldi gli costa mandare in giro quei fogli. Ti pare che uno si mette a dire bugie se gli tocca pagare per dirle?”.

Quindi — alla fine — si va: la famiglia Joad si aggrappa al mito dell’Ovest per reagire a questa tragedia collettiva: “Poi la collina tagliò fuori. I campi di cotone fiancheggiavano la strada. E il camion avanzava lento in mezzo alla polvere, verso la nazionale e verso l’Ovest”. Ogni ondata migratoria, proprio come ogni onda, corre e scorre seguendo una linea precisa, una via. L’Ovest narrato in Furore segue la Route 66, che “è la principale strada migratoria. La 66, lungo sentiero d’asfalto che attraversa la nazione, serpeggiando dolcemente su e giù per la carta, dal Mississippi a Bakersfield, attraverso le terre rosse e le terre grigie, inerpicandosi su per le montagne, superando valichi e planando nel deserto terribile e luminoso, e dopo il deserto di nuovo sulle montagne fino alle ricche valli della California. La 66 è il sentiero di un popolo in fuga, di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi delle campagne, dal tuono dei trattori e dal rattrappirsi della proprietà, dalla lenta invasione del deserto verso il Nord, dai turbinosi venti che arrivano ululando dal Texas, dalle inondazioni che non portano ricchezza alla terra e la depredano di ogni ricchezza residua. Da tutto ciò la gente è in fuga, e si riversa sulla 66 dagli affluenti di strade secondarie, piste di carri e miseri sentieri di campagna. La 66 è la strada madre, la strada della fuga”. La strada come un grande fiume che scorre verso il mare dell’Ovest. Solo che le migrazioni si trascinano dietro ogni tipo di problemi. Il più grande di tutti sono le prime avvisaglie che la Terra Promessa — mano a mano che le si avvicina — sembra non essere più in grado di mantenerla — la promessa. “Questo è un paese libero. Uno può andare dove gli pare. — Questo lo credete voi! Mai sentito parlare della polizia di frontiera della California? Sbirri di Los Angeles prendono i bastardi come voi e li rispediscono indietro. Vi dicono: ‘Se non potete comprarvi un pezzo di terra, non vi vogliamo’. Vi dicono: ‘Avete la patente? Fate vedere’. E ve la stracciano. E vi dicono che senza patente non si può entrare. — E’ un paese libero. — Allora provate a fare qualcosa liberamente. Vi diranno che uno ha tanta libertà quanta se ne può comprare”.

Quando uno sciame di umanità che migra incontra l’alveare che lo dovrebbe ospitare produce un cozzo, un impatto cruento: sono gli effetti collaterali di chi varca una frontiera, quella terra di nessuno in cui ci si guarda fronte e fronte, in attesa che qualcuno compia una mossa, faccia un passo, d’avanzata o di ritirata. In questi frangenti si distilla il senso dell’umanità, si produce un pensiero intorno a essa: “L’ultima funzione chiara e distinta dell’uomo: muscoli smaniosi di lavorare, cervelli smaniosi di creare al di là del singolo bisogno — ecco cos’è l’uomo. Costruire un muro, costruire una casa, una diga; e in quel muro, in quella casa, in quella diga mettere qualcosa dell’Uomo, e in cambio prendere per l’Uomo qualcosa di quel muro, di quella casa, di quella diga: prendere i muscoli d’acciaio dal faticare, prendere le linee e le forme nette dal progettare. Perché l’uomo, diversamente da ogni altra cosa organica o inorganica dell’universo, cresce al di là del suo lavoro, sale i gradini delle sue idee, va oltre i limiti dei suoi risultati. […] l’uomo non si ferma, procede brancolando, ferendosi, a volte ingannandosi”.

L’uomo non rinuncia alla trascendenza, al vagheggiamento di mondi migliori, a credere che la bussola della speranza indichi sempre un Ovest da raggiungere, per cancellare gli orrori del collasso di un quotidiano che diventa cappio intorno al collo di chi non ha il coraggio di mettersi in marcia: “terribile il tempo in cui l’Uomo non voglia soffrire e morire per un’idea, perché quest’unica qualità è fondamento dell’Uomo, e quest’unica qualità è l’uomo in sé, peculiare nell’universo”. Così l’idea dell’altrove alberga nei cuori dei viandanti, che a forza di varcare frontiere “si adeguarono a una nuova tecnica di vita: la nazionale divenne la loro casa e il movimento il loro mezzo di espressione”. Steinbeck farcisce la sua narrazione con dialoghi dal sapore platonico, dove non si parla di iperuranio ma di come sbarcare il lunario per sopravvivere. Ma le riflessioni toccano parimenti vette altissime: “Tom, ci sono centinaia di famiglie come noi che vanno all’Ovest. Ho guardato bene. Non ce n’è manco una che va all’Est…Centinaia. L’hai visto? — Si, l’ho visto. — Be’… è come… se scappano via da una guerra. È come se si sposta un paese intero”.

A questo punto, il predicatore Casy fa una considerazione che sembra apparentemente banale ma che in realtà riassume la storia dell’umanità: “Quelli che mettono un piede davanti all’altro, come dici tu, non ci pensano a dove stanno andando, come dici tu…ma i piedi li mettono tutti nella stessa direzione, la stessa precisa. E se drizzi un po’ le orecchie, senti che c’è qualcosa che si muove e che striscia… e che scalpita. […] Io dico che viene fuori qualcosa da tutta questa gente che va all’Ovest…lontana dalle case che gli è toccato lasciare. Viene fuori qualcosa che cambierà tutto il paese”.

Intanto, il tempo della transumanza umana, della carovana dei disperati che si mette in cerca della terra guarente i loro mali, crea una comunità che si rinsalda proprio per il fatto di essere dei diseredati di massa dal mondo: “si raccoglievano insieme; parlavano insieme; mettevano in comune le loro vite, il loro cibo, e le cose che speravano di trovare nella nuova terra”. Sono i primi benefici effetti dello sperare collettivamente, una forza in grado di spazzare via i malesseri e i tormenti e le disperazioni degli stenti affrontati e da affrontare, e addirittura in grado di produrre un simulacro di felicità, un’anticipazione del paradiso terrestre, del premio che sarà riconosciuto a chi con ostinazione lotta per conquistare quanto desiderato: “Qualcuno estraeva una chitarra dall’involto di una coperta e la accordava; e le canzoni che tutti conoscevano si levavano nella notte. Gli uomini cantavano le parole, le donne modulavano piano la melodia. Ogni notte nasceva un mondo”. Fabbricatori di mondi. Via lattea per il cielo di una notte sola: “Ogni notte venivano sancite tutte le relazioni che formano un mondo; e ogni mattina quel mondo veniva smontato come un circo”.

Nasce, insieme alla comunità che migra, una nazione mobile, una patria galleggiante nell’alveo d’asfalto di una strada nazionale. Presso la quale nasce una costituzione materiale vigente, dove le abitudini a poco a poco si trasformano in diritti: “il diritto di riservatezza nella tenda; il diritto di tenere il passato nascosto nel profondo del cuore; il diritto di parlare e di ascoltare; il diritto di rifiutare aiuto o di accettarlo, di offrire aiuto o di ignorarlo; il diritto del figlio di corteggiare e della figlia di essere corteggiata; il diritto dell’affamato di essere nutrito; il diritto delle donne incinte e dei malati di trascendere ogni altro diritto”. Ma con l’avvicinarsi della meta, si assiste al radicarsi delle condotte, al consolidamento dei diritti e dei doveri: “[…] man mano che i mondi si spostavano verso ponente, le regole divennero leggi, senza che nessuno lo imponesse alle famiglie […] e con le leggi le punizioni. Erano solo due: o un immediato e sanguinoso pestaggio o l’ostracismo; e l’ostracismo era la peggiore. Poiché chi violava le leggi portava con sé il proprio nome e il proprio volto, e non trovava posto in nessun mondo, ovunque venisse creato”.

La capacità di adattamento, la forza dello sradicamento della tradizione e delle abitudini, erano date dalla certezza e dalla forza di andare avanti: “E così cambiarono la propria vita sociale; la cambiarono come soltanto l’uomo sa fare in tutto l’universo. Non erano più contadini, erano emigranti. E i progetti, le attese, i lunghi silenzi contemplativi che un tempo avevano dedicato ai campi, adesso li dedicavano alle strade, alle distanze, all’Ovest”.
All’incirca a metà del libro, ci sono lunghi passi dedicati alla California, in cui si racconta la concretezza dell’Ovest, che non combacia con i vagheggiamenti degli sfollati costretti a emigrare. Si narra di come prima la terra appartenesse ai messicani. Poi — col tempo — arrivarono i proprietari, e l’agricoltura — lentamente — diventò un’industria. Cambiarono le coltivazioni, e i proprietari progressivamente si scollarono dalle loro terre, poiché diventate troppo vaste per essere gestite e accudite. Fu a quel punto che “l’Ovest cominciò ad attrarre gli espropriati: famiglie e tribù scacciate dalla polvere, scacciate dai trattori. […] E mentre i californiani volevano molte cose — prosperità, successo sociale, divertimento, lusso, e un’astrusa stabilità bancaria — i nuovi barbari volevano solo due cose: terra e cibo; e per loro queste due cose erano un’unica cosa”. I sogni cominciano a scricchiolare, a sgretolarsi alle prime luci dell’alba della realtà. La Grande Depressione si trasforma così nella Grande Repressione, dove per la Polizia “il fucile è il prolungamento del corpo. […] quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza. E la piccola ma sonora verità che echeggia lungo la Storia: la repressione serve solo a rinforzare e unire gli oppressi”. Ma a questo punto chi fugge dall’oppressione e scopre di andare incontro a un’altra nuova e diversa oppressione non rinuncia ad andare allo scontro finale. Accettando quello che la sorte riserva loro. Come accettare un lavoro — spesso — ancora più precario dal quale fuggivano, che li porta allo sfinimento, allo stremo. Qualcuno persino alla morte. Ma anche in questi frangenti “la fame di svago” è un bisogno insopprimibile dell’uomo. E maestra di vita dell’umanità è l’inesauribile forza che l’uomo ha di raccontarsi, di narrare storie: “[…] lo svago veniva dalle parole, e gli emigrati si risollevavano la vita a suon di storie. E il nome di chi si rivelava buon raccontatore di storie andava diffondendosi nei bivacchi lungo le strade, sugli argini dei fiumi, sotto i sicomori, e la gente si raccoglieva intorno alla luce sommessa dei fuochi per sentirli raccontare […] E tutti ascoltavano, e i loro volti erano sereni nell’ascolto. I raccontatori, rastrellando attenzione per le loro storie, usavano toni eroici, usavano parole eroiche, perché quelli erano racconti eroici, e chi li ascoltava si sentiva eroico grazie a loro”. Cessata la fame di svago, si torna a fare i conti con la fame vera. Nonostante la primavera sia splendida in California, si scopre che tutto il mondo è paese. Che anche lì “i vigneti apparterranno alla banca. Solo i grossi proprietari possono sopravvivere, perché possiedono anche i conservifici”. In nome del profitto i bambini muoiono di pellagra, perché le arance vengono bruciate per mantenerne alti i prezzi. Ed ecco che si giunge al titolo originale del libro: “Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia”. Così dall’anelito della terra edenica si passa all’inferno dei proto-campi profughi. Le famiglie che hanno vissuto l’esodo di massa trovano rifugio all’interno di vagoni ferroviari dismessi. E coloro i quali vi potevano accedere si consideravano già tra i più fortunati.

La storia raccontata da Steinbeck prosegue nei dettagli delle singole vite. Uno dei protagonisti — Tom Joad — si ritrova ancora costretto a uccidere, sempre per legittima difesa, in difesa del suo amico predicatore — Casy. È una storia amara. Di una lotta che non finisce. Come di uno sfruttamento che non finisce. I migranti sono diventati i nuovi schiavi nei campi di cotone. E se il libro si apre con una polvere che ricopre ogni cosa, che spinge una popolazione a migrare all’Ovest, il libro si chiude con un Ovest ricoperto di nuvole grigie giunte dall’Oceano, che si trasformano in pioggia che per due giorni irrora la terra riarsa. Che diventa pozza. Poi lago. Poi la putredine della palude. Fango che s’insinua ovunque. Pioggia che martella senza tregua. Uomini donne e bambini rannicchiati sotto una tettoia. E com’era prevedibile: “Gli sceriffi assoldarono altri vicesceriffi e ordinarono altri fucili; e la gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto, infine odio per la gente affamata”.
Dall’epopea migrante raccontata da Steinbeck, di cui non anticipo la scena finale per lasciare — a chi non si fosse ancora imbattuto in questo gioiello di tutte le letterature — il gusto di assaporarla leggendolo, si stagliano come due colossi le conclusioni cui sono giunti rispettivamente il predicatore Casy e l’altro dei protagonisti della storia — Tom Joad. L’insegnamento del primo viene ricordato proprio da Tom, in un dialogo serrato e intenso con sua madre: “Dice che una volta era andato nel deserto per cercare la sua anima, e aveva scoperto che lui non ce l’aveva un’anima tutta sua. Dice che aveva scoperto che lui aveva solo un pezzetto di un’anima grande e grossa. Dice che il deserto non andava bene, perché il suo pezzetto di anima non serviva a niente se non stava con tutti gli altri pezzetti, e non faceva un’anima intera. È strano che me lo ricordo. Mi pareva che manco lo stavo a sentire. Ma ora so che uno se sta da solo non serve a niente”. L’uomo è un animale sociale che si rafforza anche dei propri sogni. Delle proprie utopie. L’Ovest dell’immaginario, gli Eldorado agognati dagli oppressi, servono a cementare le relazioni, a sentirsi parte di qualcosa di più grande del sé: “Se due cadono, uno aiuta l’altro a alzarsi”. E quando lo stesso Tom constata di essere acquattato tra i rovi, per sfuggire a una probabile sua cattura, quindi nella stessa condizione del deserto predicato da Casy, giunge a pronunciare una memorabile orazione, manifesto degli oppressi contro tutti gli oppressori — e contro tutte le ingiustizie -: “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti… dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi a fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, io sarò negli urli di quelli che si ribellano…e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì”.

Lì è proprio quell’Ovest dove anche noi — purtroppo — non siamo ancora giunti.

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