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Con Castro o contro Castro

di Vittoria Martinetto

Ti alzi al mattino e senti il notiziario. Morto Fidel Castro. Sono anni che gigionescamente fai sapere ai tuoi studenti la tua età interrogandoli sulla data della rivoluzione cubana. Ma adesso ti emoziona, la faccenda è solenne, e non è il tuo compleanno.

Allora cerchi di ricapitolare che cosa ti lega davvero alla notizia, indipendentemente dal fatto di insegnare le letterature ispano-americane, aver tradotto mostri sacri come Alejo Carpentier, aver frequentato l’Isola a varie riprese in contatto con organi di regime come Casa de Las Américas o L’UNEAC (Unión de Escritores y Artistas de Cuba). Sentimenti controversi cominciano ad agitarsi dentro. Ti domandi da che parte stavi tu in tutti questi anni, durante il lentissimo autunno del patriarca, e ti accorgi che, non per qualunquismo, ma per letteratura, stavi da tutte le parti, ovvero che con Castro o contro Castro finiva per essere indifferente, se uno scrittore ti piaceva.

Passi in rassegna quelli che hai letto e ti sforzi comunque di ricordare il loro rapporto con lui, perché tu lo voglia o meno, la cosa costituiva direttamente o indirettamente l’ago della bilancia: subito gli autori perseguitati, uno fra tutti Reynaldo Arenas e il suo autobiografico e drammatico Prima che sia notte, così ben ricreato nel film di Schnabel grazie al volto impressionante di Javier Bardem. Pensi a quelli che sono rimasti in patria anche se ostracizzati, probabilmente infelici ma inseparabili dall’amata Isola, come Virgilio Piñera e come il grande José Lezama Lima. Pensi, forse scioccamente, al fatto che a Castro, più che la controrivoluzione, doveva essere l’omosessualità a non andare giù, perché questi scrittori, inizialmente corteggiati dagli organi culturali del regime, sono poi stati osteggiati rispettivamente per opere come La carne di René e come Paradiso, per nulla engagé politicamente, anche se è noto che la sessualità può essere più dirompente di qualunque discorso politico in un ambito machista… Pensi agli scrittori cubani contemporanei che per un motivo o per l’altro vivono all’estero, con un occhio critico ma appassionato su Cuba, come il drammaturgo e scrittore Abilio Estévez che nel romanzo Tuo è il regno celebra e odia l’Isola al contempo, in una metafora poetica che dilata il capodanno/giudizio universale del ’59 in trecentocinquanta pagine, o la corrosiva Zoé Valdés, ora un po’ dimenticata, che una ventina d’anni fa, dall’esilio parigino, aveva acceso riflettori impietosi sulla vita ai tempi dell’embargo con il suo Il nulla quotidiano…Torni indietro nel tempo e ripensi alle reazioni entusiastiche delle grandi penne di tutto il Continente latinoamericano all’indomani della Rivoluzione, e al raffreddarsi di certi animi (Carlos Fuentes, Vargas Llosa e Julio Cortázar fra i più clamorosi) dopo il celebre caso Padilla, il poeta costretto nel ’71 a una abiura pubblica della propria opera, che costituì un prima e un dopo per l’opinione dell’intellighenzia mondiale nei confronti del castrismo.

E, tuttavia, subito dopo ti viene da ripensare a Carpentier, ideatore del real maravilloso – poi realismo magico – passato quasi indenne (dico quasi perché è indubbio che le sue prime opere come Ecue-yamba-ò e Il regno di questo mondo restano le migliori) dalle carceri di un regime dittatoriale – quello di Machado – ai fasti di un regime rivoluzionario che lo ha insignito di incarichi diplomatici importanti, ed è rimasto indiscussa gloria letteraria nazionale. Insomma, finisci per pensare che, malgrado o grazie al castrismo –  e chissà se anche in virtù di tutte le controversie, le censure e gli embargo – l’Isola è stata ed è, vista da vicino come da lontano, un fermento inarrestabile di idee e di creatività, un pentolone in cui la cultura non ha smesso di ribollire, fino alla blogger Yoani Sánchez, accompagnata in visita a Torino qualche anno fa, con corollari di proteste giù in strada. Vorresti pensare alle altre arti: al buon cinema prodotto e ambientato nella Cuba di Castro, come Lista de espera o Fragole e cioccolato (entrambi sceneggiati da Senel Paz), alle arti plastiche e, inutile dirlo, ti appaiono i tratti lussureggianti de La Jungla di Wilfredo Lam a fare da cornice al quadretto, sulle note di Buena vista social club, in un pot pourri di cubanità quasi turistica, quella che ti faceva dire, tornando dall’Isola, che il Malecón andava visto prima della morte del patriarca e di una sua eventuale ristrutturazione, nella versione sensuale e delabré della Trilogia sporca dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez…

Alla fine di questa raccolta di sensazioni e opere alla rinfusa, però, ti cade l’occhio su un volume che hai letto a intermittenza, quel Mea Cuba di Guillermo Cabrera Infante, polemica autobiografia politica e culturale di un esiliato scomodissimo per Castro, in misura direttamente proporzionale al ruolo di primo piano avuto all’indomani della Rivoluzione come Direttore del Consiglio Nazionale di Cultura, dell’istituto Cinematografico e come vicedirettore del quotidiano “Revolución”, oggi Ganma, nonché del supplemento letterario Lunes de Revolución. L’ormai defunto autore di Tre tristi tigri, che ha avuto il merito, come sostiene oggi Leonardo Padura, di trasformare il linguaggio colloquiale habanero in linguaggio letterario, ma anche, per amore di aneddoto, di aver provocato a Castro la famosa frase “Dentro de la Revolución todo; contra de la Revolución, nada”, dopo la polemica che li contrappose, ti ricorda di colpo la scaramuccia a distanza fra lui e García Márquez, proprio per colpa di Castro. Allora ti soffermi un attimo, ci rifletti. L’uno cubanissimo ma costretto all’esilio, l’altro cubano d’acquisto a partire dalla rivoluzione e fedele hasta siempre… Vai all’indice dei nomi e cerchi García Márquez: hai deciso proprio di vedere che cosa ne pensava Caín (questo era lo pseudonimo con cui Cabrera scriveva le sue recensioni cinematografiche, attività e passione che condivideva con Márquez). Pensavi ci fossero più pagine sull’ex amico e premio Nobel filocastrista, ma la cattiveria compensa l’esiguità, a spiegare perché Castro possa dividere affinità altrimenti elettive. Non ti interessa qui ripercorrere l’idiosincrasia di Cabrera per quella che chiama la “castroenterite”, e del resto tutto il libro è un’invettiva che esplora le vite di coloro che hanno cavalcato la rivoluzione e quelli che ne sono stati travolti. Vai a vedere proprio quella rissa fra galli letterari, e che il lettore giudichi, tu ti chiami fuori.

Il capitolo di Mea Cuba intitolato “Il nostro grand’uomo all’Avana”, del maggio 1983 risponde all’articolo di García Márquez “Le venti ore di Graham Greene all’Avana”, uscito su “El País” il 19 gennaio di quello stesso anno. Vai allo scaffale e trovi il Taccuino di cinque anni di Márquez che lo contiene. Cominci a leggere. L’aneddoto raccontato di Márquez non ha nulla di speciale, diciamolo, se non dipingere un ritratto simpatico dell’incontro con Graham Green insieme a Fidel Castro, durato una manciata d’ore, con qualche affondo antistatunitense, grazie all’aneddoto in cui i due scrittori ricordavano come, dato che era proibita a entrambi l’entrata negli Stati Uniti, il generale Torrijos avesse proposto loro di cammuffarsi per entrarvi per così dire di contrabbando in modo ufficiale; infine l’articolo fa considerazioni sullo stupore di Castro, grande sostenitore della ginnastica come elisir di lunga vita, dinanzi all’ottima forma dell’ottuagenario Greene sostenitore della vita sedentaria. Un articolo tranquillo e banale, che contiene, forse, un’unica frase degna del suo autore: «Quando se ne fu andato – dice dello scrittore inglese –, ci lasciò la strana impressione che neppure lui sapesse perché era venuto, come poteva venire in mente solo a uno di quei personaggi dei suoi romanzi, tormentati dall’incertezza di Dio». Fin qui Márquez. Ora Cabrera, il quale premette di non aver l’abitudine di contrapporre lettere ad articoli già pubblicati ma che sembra non potersi trattenere dal “rispondere” all’articolo dello scrittore colombiano. Avendolo letto ti chiedi che cosa ci sia di così irritante, per cui prosegui e capisci che il rancore riesce a leggere dove un lettore normale non arriva. Cabrera ne approfitta per accusare Márquez di mentire travestendosi da vittima ed esiliato dagli Stati Uniti – di fatto gli venne proibito l’accesso dopo che aveva lavorato come corrispondente di Prensa Latina, l’agenzia di notizie fondata da Castro nel ’61 – mentre ci tornò tranquillamente anni dopo per ricevere una laurea honoris causa alla “capitalista” Columbia University.

Allora tu controlli in rete e vieni a sapere che tale divieto gli venne poi rimosso per i suoi meriti letterari, seguito addirittura da un incontro alla Casa Bianca durante la presidenza di Clinton, suo grande estimatore. Però il pretesto, una volta scatenato, si sviluppa in una collera che gli fa dare dell’imbroglione e mago da salotto (se è per questo in un articolo successivo lo definità amicone di un Fürer attuale, che è come definisce Castro), rivendicando una lista di scrittori in autentico esilio, fra i quali, ovviamente, se stesso: «Quello che invece mi sembra davvero deplorevole e mi riguarda – scrive Cabrera – è il fatto che centinaia di migliaia di cubani non possano rientrare nel loro paese, come invece farà l’esiliato autore di Cent’anni di solitudine, né il prossimo mese, né fino a quando vivrà Castro». Quel giorno è oggi. Ma né Cabrera, né Márquez sono qui per assistervi e avere conferma o meno che sarà così.  Per quanto ti riguarda, tu chiudi quegli articoli, e in modo forse qualunquista o politicamente scorretto pensi che avevi fatto bene a leggere solo i loro romanzi.

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