Rebecca libri

Gesù era un migrante

di Deirdre Cornell

E Gesù disse…
«Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi,
ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
Mt 8, 20

  1. I migranti contano

Migranti e immigrati sono stati per me fonte di benedizione.

Tutto iniziò in modo molto semplice. Da neolaureati io e mio marito andammo per un anno a fare del volontariato in Messico (fu così che ci conoscemmo). Poi, nel corso di visite successive abitammo in villaggi e in quartieri poveri, insieme ad amici che aprirono i loro cuori e le loro case prima a noi e poi anche ai nostri figli. Restammo profondamente commossi dal fatto, per loro ovvio, che gente che aveva così poco desse così tanto. Tornati negli Stati Uniti speravamo di contraccambiare un poco l’ospitalità ricevuta con tanta abbondanza in Messico.

Ci offrimmo volontari nello stato di New York per un progetto religioso a favore dei lavoratori agricoli, molti dei quali si spostano a seconda delle stagioni, e per un certo periodo vivemmo in un quartiere-ghetto. In ambiente rurale o urbano, le famiglie degli immigrati ci mettevano a parte delle loro difficoltà. Facemmo anche l’esperienza di ospitare in casa nostra immigrati appena giunti nel nostro paese. Mio marito iniziò a lavorare nei servizi sociali come mediatore culturale al servizio delle esigenze dei lavoratori agricoli – un lavoro che porta avanti da decenni con impegno e passione.

Per cambiare un po’ stile di vita, andammo poi come missionari laici in Messico (dove sono nati i nostri due figli più piccoli). Là mio marito contribuì ad avviare un programma di promozione sanitaria per un dispensario medico. E dopo tre anni tornammo con i nostri figli negli Stati Uniti.

L’educazione religiosa ricevuta dalla mia famiglia, e la mia preparazione teologica, sono state preziose per il mio ministero. Una forte impressione hanno suscitato in me sacerdoti, religiosi e laici che andavano in cerca di immigrati appena arrivati; e i nuovi arrivati stessi, che partecipavano con entusiasmo alle attività della missione. Ho aiutato a preparare ai sacramenti, insegnato catechismo, collaborato a un programma radiofonico e alla gestione di gruppi giovanili, assistito nell’elaborazione del lutto, svolto attività di patrocinio degli immigrati. L’impegno pastorale mi ha permesso di camminare al loro fianco su un percorso comune: il nostro comune cammino di fede. Riflettendo sulla Parola e sulla liturgia attraverso la lente di queste esperienze, sono giunta a conoscere più profondamente Cristo.

Io e mio marito abbiamo la gioia e il privilegio di essere padrini di molti bambini – un ruolo che mi ha permesso di entrare ancora più in confidenza con gli immigrati. Abbiamo compadres (i genitori dei nostri figliocci) che fanno i braccianti agricoli e, raccogliendo il mais o le mele, sono costretti a spostarsi con i raccolti; ma anche compadres che sono ormai professionisti affermati, competenti e stimati nel loro campo, e possono spostarsi a loro piacimento a livello internazionale. Ho beneficiato immensamente di queste relazioni, e sarò sempre grata a tutti loro per ciò che mi hanno dato e insegnato.

Oltre a quelli relativi alla mia famiglia, i momenti più toccanti vissuti in vita mia sono stati quelli trascorsi con immigrati che ci accoglievano nelle loro vite mentre noi li accoglievamo nel nostro paese. Abbiamo avuto modo di gioire con genitori analfabeti che vedevano i loro figli laurearsi (i primi in famiglia ad accedere a un’istruzione superiore). Abbiamo aiutato i nuovi arrivati a raggiungere prima la residenza e poi la cittadinanza, divenendo con orgoglio dei «nuovi americani»: membri a pieno titolo della nostra società.

Purtroppo abbiamo anche assistito a sofferenze e battute d’arresto. Abbiamo condiviso l’angoscia di famiglie i cui parenti erano stati arrestati. Siamo entrati a far parte di gruppi che tentano di dare risposta a esigenze disperate. E come accade sempre quando si ama, tutto questo mi ha cambiata: ho pianto per tragedie che mi hanno spezzato il cuore – e spezzandomelo me l’hanno spalancato.

Benché la configurazione della mia stessa famiglia sia stata determinata dalla decisione dei miei avi di lasciare l’Europa, crescendo non ho mai riflettuto molto sul fatto che i miei stessi antenati fossero degli immigrati. Ma quando io e mio marito ci sentimmo chiamati a servire gli immigrati, il nostro piccolo angolo di pianeta ne fu come dilatato. La mia visione della mobilità umana iniziò a cambiare. Ma soprattutto la mia comprensione del suo ruolo nella storia della salvezza ne risultò totalmente trasformata. La migrazione è da millenni fonte non solo di controversie, ma di benedizione.

 

La tradizione giudaico-cristiana possiede un ricco tesoro di memorie in cui il cammino del popolo eletto da Dio è strutturato da migrazioni individuali e collettive. L’incarnazione e il mistero pasquale – per i credenti i momenti più radicali e decisivi della storia umana – possono essere compresi più profondamente, se visti nel contesto di questo aspetto della spiritualità biblica.

Gesù apparteneva a un popolo segnato in modo indelebile da storie di Esodo e di esilio. La sua vita e il suo ministero sono incorniciati da quelle storie. I suoi primi seguaci, definendosi seguaci della Via, proseguivano la traiettoria della spiritualità scritturale ebraica. Da duemila anni, avendo i cristiani fatto proprie le grandi storie bibliche sulla mobilità umana, la migrazione ha avuto un ruolo di primo piano nella nostra fede.

Nello scorso, travagliato secolo, le organizzazioni delle varie chiese hanno iniziato a varare progetti per il reinsediamento dei rifugiati, e a patrocinare la causa di migranti e immigrati, e oggi, spinte da ideali di fede, continuano a svolgere questi ruoli. La bella tradizione del «riparare il mondo» (in ebraico tiqqun ‘olam) prende così nuova vita. Una chiesa evangelica ha definito questo impegno – come del resto qualunque altro ministero – un’opera di Dio eseguita dalle nostre mani (questa bella espressione appartiene alla Chiesa Evangelica Luterana in America). Le autorità di molte denominazioni cristiane si trovano ad affrontare la contemporanea sfida dell’immigrazione; si differenziano per le loro posizioni nei confronti di specifiche politiche, ma dalla maggior parte delle loro dichiarazioni (insieme a quelle delle controparti interreligiose) emerge un consenso fondato sulla compassione.

In vari paesi e comunità l’immigrazione è divenuta questione difficile, spinosa e fonte di divisione. Più che mai prima nella storia dell’umanità, intere famiglie abbandonano i loro luoghi d’origine in cerca di una vita migliore. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (fondata nel 1951 per contribuire a reinsediare i profughi della seconda guerra mondiale), migranti e immigrati sono oggi più di duecento milioni – l’equivalente della popolazione del Brasile, quinto paese più grande del mondo. La situazione in alcune parti del pianeta ha raggiunto livelli di crisi, creando problemi di coscienza ai credenti di tutte le denominazioni religiose. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese – che comprende centinaia di denominazioni in 110 paesi – elenca il fenomeno migrazioni come una priorità assoluta nei suoi programmi.

Uomini e donne di fede scandagliano le loro tradizioni in cerca di orientamenti su «come procedere» nelle nostre società globalizzate. I cattolici possono contare su una ricca eredità spirituale di dottrina sociale della chiesa, elaborata in lettere episcopali ed encicliche pontificie, inaugurata in epoca moderna dalla Rerum novarum del 1891, e che prosegue, sempre più feconda, ai giorni nostri. Questi documenti ampliano il nostro ristretto ambito parrocchiale, incastonandolo nel più vasto panorama globale. Con i documenti del concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha ribadito un’espressione della propria auto-comprensione: quella di popolo di Dio in pellegrinaggio. Questa formulazione usa il termine pellegrinaggio – un viaggio intenzionale – per descrivere il fulcro stesso di ciò che significa essere credenti. Il mistero della rivelazione al mondo del Cristo da parte del Padre per mezzo dello Spirito Santo inaugura un movimento continuo, dinamico, che percorre l’intera storia umana. Papa Benedetto XVI ha ulteriormente incrementato questa immagine della chiesa come comunione di credenti in cammino insieme verso un’unica destinazione condivisa. Poco prima di diventare papa, scrisse che quelle parole «esprimono la natura storica della chiesa pellegrina, che non sarà totalmente se stessa finché i sentieri del tempo non saranno stati percorsi e non saranno fioriti nelle mani di Dio» (Cardinal Joseph Ratzinger, «L’Osservatore Romano», 23 gennaio 2002).

Per tutti i cristiani – non solo per i cattolici – la mobilità umana presta il suo lessico all’articolazione della nostra identità. Una volta che noi iniziamo a percepire la nostra vita di fede come un cammino, guardiamo agli eventi umani di migrazione con una nuova apertura a ciò che quelle esperienze potrebbero rivelarci. Anche solo un breve ripasso dei tanti insegnamenti della tradizione giudaico-cristiana sulla migrazione ci illumina in modo sorprendente: proprio a quanti non hanno un posto è riservato un posto privilegiato!

Teologi e autorità religiose preferiscono il termine mobilità umana nel riferirsi alla migrazione nel mondo d’oggi. Questo termine ci ricorda che stiamo parlando non solo di un fenomeno globale, ma anche di esseri umani. Concettualmente, è un termine inclusivo dei tanti diversi tipi di esperienze migratorie. La mobilità umana include la fuga disperata dei profughi in cerca di un porto sicuro, così come i viaggi degli immigrati per motivi economici in cerca di nuove opportunità.

La migrazione può avvenire all’interno di un paese. Negli Stati Uniti a scuola si insegna la storia delle migrazioni dei pionieri verso Ovest, verso il «selvaggio West». Ma per citare un esempio meno noto, oltre cinque milioni di afroamericani migrarono a Nord dagli stati rurali del Sud dopo la seconda guerra mondiale, durante la cosiddetta Grande Migrazione.

La migrazione forzata è un termine che descrive la condizione di essere costretti a lasciare i propri luoghi d’origine, solitamente a causa di povertà, guerre e/o oppressione. La deportazione dei nativi americani sul Sentiero delle Lacrime ne è un vergognoso esempio. Più di recente, famiglie irachene sradicate hanno cercato rifugio altrove dopo la guerra del Golfo.

L’emigrazione si ha quando si lascia il proprio paese d’origine. Precede l’immigrazione, che è l’ingresso in una nuova nazione con la speranza di viverci e lavorarci. Ovunque nel mondo emigranti da paesi poveri cercano di entrare in paesi ricchi.

Come strategia di sopravvivenza, l’emigrazione beneficia singoli lavoratori ma getta anche un’ancora di salvezza alle loro comunità di partenza. I dati del rapporto della Banca Mondiale documentano che gli emigranti inviano a casa centinaia di miliardi di dollari all’anno: le rimesse rivaleggiano con i canali ufficiali degli aiuti allo sviluppo.

I campi profughi, popolati da civili colpiti da siccità, carestie o conflitti, accolgono i membri più vulnerabili della famiglia umana. Numerose fonti sulla mobilità umana concordano sul fatto che donne, bambini e anziani costituiscono la stragrande maggioranza dei profughi sfollati dalle loro case.

Questa triste realtà è più diffusa di quanto si pensi, e colpisce persone che incontriamo nel corso della nostra vita quotidiana. Un lunedì mattina molto presto mi si è seduta accanto sull’autobus una giovane donna con una valigia; ci siamo messe a parlare e mi ha raccontato che dodici anni fa lei e i suoi famigliari erano stati costretti a lasciare la loro patria, la Liberia, per sfuggire alla guerra civile. Inizialmente avevano trovato rifugio in Sierra Leone, ma anche da là erano poi stati costretti a fuggire. Dal Ghana – dove erano vissuti per sei anni in un campo profughi – erano infine stati accettati da un programma statunitense per rifugiati con sede nella California del Sud. Quella giovane donna, piena di gratitudine (ma esausta), ogni domenica sera faceva le valigie e il lunedì all’alba si sobbarcava un viaggio di due ore per andare a lavorare in una residenza per disabili adulti. Nella valigia aveva dei libri: nelle ore libere seguiva un corso per caregiver in un centro di formazione.

Il fenomeno della dislocazione geografica è spesso legato a crisi sociopolitiche ed economiche. La migrazione è un indicatore di fattori negativi presenti nel nostro mondo sempre più globalizzato. La mobilità umana ci porta a interrogarci sul perché determinate popolazioni debbano subire uno sradicamento per riuscire a sopravvivere. C’è chi è costretto a emigrare a causa di violenze di matrice politica; ci sono lavoratori attratti dalla prospettiva di guadagnarsi decentemente la vita. I modelli di migrazione fungono da indicatori: indicano le radici dei problemi che spingono le persone all’esilio.

Mio fratello, membro permanente del Movimento dei lavoratori cattolici (fondato nel 1933 da Dorothy Day e Peter Maurin, il movimento crede nella povertà volontaria, nel pacifismo e nel servizio
al prossimo attraverso le opere di misericordia), ha gestito per anni una mensa per i poveri. Una volta, riflettendo sul ruolo profetico di coloro che la frequentavano – famiglie disagiate incapaci di sfuggire ai corsi e ricorsi di benessere e crisi economiche; veterani feriti nel corpo, nella mente e nello spirito; malati mentali usciti dai manicomi solo per finire tra i senzatetto – mi disse: «Loro sono i nostri profeti. Ci mostrano dove la nostra società non funziona».

Il beato Giovanni Paolo II sottolineava che l’«antidoto» all’immigrazione clandestina è uno sviluppo globale sostenibile (egli ribadiva in particolare la Populorum progressio di Paolo VI, 1967; cf. anche la Sollicitudo rei socialis, 1987), scritta in occasione del suo ventesimo anniversario, e l’esortazione apostolica Ecclesia in America, 1999). Nella storia dell’umanità i nostri tempi sono caratterizzati da livelli di qualità della vita selvaggiamente sperequati. Metà del pianeta vive con meno di due dollari al giorno, mentre una piccola percentuale della popolazione del pianeta gode di un accesso alla ricchezza senza precedenti. I sociologi documentano sia i «fattori di espulsione» che inducono le persone ad abbandonare i loro paesi natali, che i «fattori di attrazione» che li attirano verso luoghi specifici. I lavoratori (anche quelli altamente qualificati) provenienti da paesi in via di sviluppo si trasferiscono in cerca di lavori meglio retribuiti nei paesi sviluppati. Una suora nativa delle Filippine mi ha raccontato di un suo fratello, specializzatosi in medicina nel loro paese, che guadagna di più come tassista a Chicago che come medico sottoccupato nel suo paese. Le Filippine hanno uno dei più alti tassi di emigrazione e uno dei più bassi tassi di immigrazione.

Le interconnessioni sempre più intense tra paesi sono un altro segno dei tempi. Beninteso, gli scambi a livello globale non sono una novità: chi potrebbe immaginare l’Italia senza pasta e salsa di pomodoro, l’Irlanda senza le patate, l’Inghilterra senza il tè? Eppure, per quanto possa sembrare incredibile, queste innovazioni alimentari vennero introdotte nei secoli passati grazie al commercio internazionale. Patate e pomodori sono originari delle Americhe, mentre pasta e tè sono nati in Asia.

Come seguendo la stessa traiettoria ma a velocità molto maggiore, nel nostro tempo l’interazione a livello globale è estremamente accelerata. Ogni giorno già solo a colazione consumo prodotti che devono la loro presenza sulla mia tavola a diversi continenti. La mia tazza di caffè mattutina proviene da chicchi raccolti in Africa, tostati in Europa e cresciuti con semi e fertilizzanti provenienti dagli Stati Uniti. Concessioni politiche e accordi economico-commerciali hanno formato una lunga e complessa catena di procedure per portare quella tazza di caffè sulla mia tavola. E se indagassi sul resto della mia prima colazione, probabilmente scoprirei che gli altri generi alimentari presenti sulla mia tavola hanno seguito lo stesso iter. Gran parte degli alimenti che consumiamo vengono coltivati, lavorati, confezionati, commercializzati e venduti in paesi diversi. Il commercio internazionale e la migrazione non sono fenomeni nuovi. Quel che c’è di nuovo è l’intensità e la portata degli effetti della globalizzazione sulle culture e le economie locali.

 

Gesù era un migrante | Cornell, Deirdre | EMP | 2017 | Pagine 208 | Euro 16,90

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