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Giobbe

di Joseph Roth
Fonte: Rebeccalibri

Mendel Singer — il Giobbe moderno che Joseph Roth mette a protagonista di questo romanzo — è un semplice padre di famiglia, un maestro che insegna la Bibbia ai bambini di una cittadina della Volinia russa e che si affida con sicurezza alle tradizioni del suo popolo. La sua esistenza viene sconvolta dalla nascita del quarto figlio, Menuchim, affetto da una misteriosa malattia. Presto anche gli altri figli e la moglie dovranno affrontare difficili prove, e Mendel si troverà ad abbandonare la sua terra per emigrare a New York e misurarsi con un mondo che gli è del tutto estraneo. Costretto a vedersela con la guerra, la morte, la pazzia, la solitudine e la povertà, Mendel scoprirà proprio nel legame con il figlio menomato la forza per ricostruire intorno a sé, in forma nuova, quanto sembrava perso per sempre.

*   *   *

Prima parte / 1

Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo di nome Mendel Singer. Era pio, timorato di Dio e comune, un
ebreo del tutto ordinario. Esercitava la modesta professione di maestro. Nella sua casa, che consisteva soltanto di una spaziosa cucina, trasmetteva ai bambini la conoscenza della Bibbia. Insegnava con sincero entusiasmo e senza un successo tale da suscitare scalpore. Centinaia di migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato allo stesso modo.

Insignificante come la sua persona era il suo volto pallido. Una barba folta di un nero comune lo incorniciava tutto. La barba copriva la bocca. Gli occhi erano grandi, neri, indolenti e coperti a metà da pesanti palpebre. Sulla testa stava posato un berretto nero di reps di seta, un tessuto di cui talvolta vengono fatte cravatte fuori moda ed economiche. Il corpo era infilato nel tradizionale caffettano ebraico di media lunghezza, le cui falde svolazzavano quando Mendel Singer andava di fretta per il vicolo e battevano con un colpo d’ali violento e regolare sui gambali degli alti stivali di pelle.
Singer sembrava avere poco tempo e soltanto destinazioni urgenti. Di certo la sua vita era sempre dura e talvolta persino un tormento. Doveva vestire e sostentare una moglie e tre figli. (Di un quarto lei era incinta). Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi, impassibilità al suo cuore e povertà alle sue mani. Non avevano oro da pesare né banconote da contare. Tuttavia la sua vita scorreva costante, come un piccolo e povero ruscello tra magre sponde. Ogni mattina Mendel ringraziava Dio per il sonno, per il risveglio e il giorno nascente. Quando il sole tramontava, pregava ancora una volta. Quando le prime stelle spuntavano, pregava una terza volta. E prima di mettersi a dormire, bisbigliava un’affrettata preghiera con labbra stanche, ma fervide. Il suo sonno era privo di sogni. La sua coscienza era pura. La sua anima era casta. Non doveva pentirsi di nulla, e nulla vi era che avrebbe desiderato. Amava sua moglie e provava diletto nella sua carne. Con sano appetito consumava velocemente i suoi pasti. Quando disobbedivano picchiava i suoi due figli piccoli, Jonas e Schemarjah. Spesso invece accarezzava la minore, sua figlia Mirjam, che aveva i suoi capelli neri e i suoi occhi neri, indolenti e dolci. Le sue membra erano delicate, le sue articolazioni fragili. Una giovane gazzella.

A dodici scolari di sei anni insegnava a leggere e a imparare a memoria la Bibbia. Ciascuno dei dodici gli portava ogni venerdì venti copechi. Erano le uniche entrate di Mendel Singer. Aveva soltanto trent’anni, ma le sue prospettive di un maggiore guadagno erano scarse, forse persino inesistenti. Quando i suoi scolari crescevano, andavano da altri maestri più sapienti. La vita rincarava di anno in anno. I raccolti diventavano sempre più miseri. Le carote si rimpicciolivano, le uova erano vuote, le patate gelate, le minestre annacquate, le carpe sottili e i lucci corti, le anatre magre, le oche dure e i polli un niente.
Suonavano così le lamentele di Deborah, la moglie di Mendel Singer. Era una donna, e talvolta aveva il diavolo
in corpo. Sbirciava le proprietà dei benestanti e invidiava il guadagno ai commercianti. Troppo scarso era Mendel Singer ai suoi occhi. Gli rimproverava i bambini, la gravidanza, il carovita, i bassi onorari e spesso persino il brutto tempo. Il venerdì strofinava il pavimento finché non diventava giallo come zafferano. Le sue spalle larghe sussultavano su e giù a ritmo regolare, le sue mani forti sfregavano ogni singola asse in lungo e in largo, e le sue unghie passavano nei travetti e negli interstizi tra le assi, grattando via il nero sudiciume che le ondate del mastello annientavano completamente. Come una grande montagna, potente e mobile andava carponi lungo la stanza spoglia, intonacata di blu. Fuori, davanti alla porta, prendevano aria i mobili, il letto di legno marrone, i pagliericci, un tavolo piallato a lucido, due panche lunghe e strette, assi orizzontali inchiodate ciascuna su due verticali. Non appena il primo imbrunire alitava alla finestra, Deborah accendeva le candele in candelieri di alpacca, si copriva il viso con le mani e pregava. Suo marito rincasava nel suo abito nero di seta, il pavimento gli splendeva incontro, giallo come sole fuso, il suo viso riluceva più bianco del solito, più nera che nei giorni feriali si scuriva anche la sua barba. Si sedeva, intonava una canzonetta, poi genitori e bambini sorseggiavano rumorosamente la minestra calda, sorridevano ai piatti e non dicevano una parola. Il calore si alzava nella stanza. Si propagava dalle pentole, dalle scodelle, dai corpi. Le candele a buon mercato nei candelieri di alpacca non resistevano, iniziavano a piegarsi. Sulla tovaglia rosso mattone a quadri azzurri gocciolava la stearina, raggrumandosi in un attimo. Veniva aperta la finestra, le candele ritrovavano coraggio e bruciavano calme verso la loro fine. I bambini si stendevano sui pagliericci vicino alla stufa, i genitori restavano ancora seduti e guardavano, con preoccupata solennità, le ultime fiammelle azzurre che frastagliate guizzavano dalle cavità dei candelieri e dolcemente ricadevano ondulate, un gioco d’acqua fatto con il fuoco. La stearina bruciava lentamente, sottili fili azzurri di fumo salivano verso il soffitto dai residui carbonizzati degli stoppini. “Ah!”, sospirava la donna. “Non sospirare!”, la ammoniva Mendel Singer. Tacevano. “Dormiamo, Deborah!”, ordinava. E iniziavano a mormorare una preghiera serale.
Alla fine di ogni settimana così iniziava lo Shabbat, con silenzio, candele e canto. Ventiquattr’ore più tardi sprofondava nella notte che conduceva il grigio corteo dei giorni feriali, una ridda di affanni. In un caldo giorno di piena estate, verso la quarta ora del pomeriggio, Deborah partorì. Le sue prime grida irruppero nella cantilena dei dodici piccoli discenti. Andarono tutti a casa. Iniziavano sette giorni di vacanza. Mendel ebbe un altro figlio, un quarto, un maschio. Otto giorni dopo venne circonciso e chiamato Menuchim.
Menuchin non aveva una culla. Era sospeso in un cesto di vimini intrecciati nel mezzo della stanza, fissato con quattro corde a un gancio al soffitto, come un lampadario. Mendel Singer di quando in quando dava un colpetto con un dito leggero, non senza amore, al cesto sospeso che subito iniziava a dondolare. Questo movimento a volte calmava il neonato. Talvolta però non serviva a nulla contro la sua voglia di piagnucolare e strillare. La sua voce gracchiava sulle voci dei dodici piccoli discenti, suoni profani e ripugnanti sui sacri versetti della Bibbia. Deborah saliva su uno sgabello e tirava giù il neonato. Bianchi, gonfi e colossali prorompevano i suoi seni dalla camicetta aperta, attirando irresistibili lo sguardo dei bambini. Deborah sembrava allattare tutti i presenti. I suoi stessi tre figli maggiori le stavano attorno, gelosi e avidi. Calava il silenzio. Si sentiva lo schioccare delle labbra del neonato.
I giorni si prolungavano in settimane, le settimane si trasformavano in mesi, dodici mesi facevano un anno. Menuchim beveva ancora il latte di sua madre, un latte scarso, trasparente. Non riusciva a svezzarlo. Al tredicesimo mese di vita cominciò a fare smorfie e a gemere come un animale, a respirare con furia precipitosa e ad ansimare in un modo senza precedenti. La sua grossa testa pendeva, pesante come una zucca, sul collo sottile. La sua fronte ampia si raggrinzava e si corrugava in lungo e in largo come una pergamena sgualcita. Le sue gambe erano curve e senza vita come due archi di legno. I suoi magri braccini si dimenavano e si contraevano. Suoni ridicoli balbettava la sua bocca. Quando aveva un attacco, lo prendevano dalla culla e lo scuotevano a dovere, finché il suo viso diventava bluastro e quasi gli mancava il respiro. Poi si riprendeva lentamente. Gli posavano foglie di tè sbollentate (in numerosi sacchettini) sul suo petto magro e gli avvolgevano del farfaro intorno al collo sottile. “Non è nulla”, diceva suo padre, “dipende dalla crescita!”. “I figli maschi assomigliano ai fratelli della madre. Mio fratello l’ha avuto per cinque anni!”, diceva la madre. “Sparirà con la crescita!”, dicevano gli altri. Finché un giorno in città scoppiò il vaiolo, le autorità prescrissero le vaccinazioni e i medici si introdussero nelle case degli ebrei. Alcuni si nascosero. Mendel Singer invece, il giusto, non fuggiva di fronte ad alcuna punizione divina. Attendeva fiducioso anche la vaccinazione.
Fu in un caldo mattino assolato che la commissione passò per il vicolo di Mendel. La casa di Mendel era l’ultima nella fila delle case degli ebrei. Insieme a un poliziotto, che portava in braccio un grosso libro, avanzava a passi larghi il dottor Soltysiuk con i baffi biondi al vento sul viso bruno, un pince-nez bordato d’oro sul naso arrossato, scricchiolanti ghette di cuoio gialle e la giacca, per la calura, appesa negligentemente sulla rubaschka azzurra, in modo che le maniche avevano l’aspetto di un paio di braccia aggiuntive che sembravano ugualmente pronte a eseguire vaccinazioni: il dottor Soltysiuk giunse dunque nel vicolo degli ebrei. Incontro a lui risuonarono i gemiti delle donne e gli strilli dei bambini che non erano riusciti a nascondersi. Il poliziotto andava a prendere donne e bambini da profonde cantine e alte soffitte, da piccoli stanzini e grandi ceste di paglia. Il sole bruciava, il dottore sudava. Doveva vaccinare non meno di centosettantasei ebrei. Per ognuno che fosse irreperibile e irraggiungibile
ringraziava in segreto Dio. Quando fu arrivato alla quarta delle piccole casette tinte di azzurro fece cenno al poliziotto di non cercare più con troppa solerzia. Sempre più forti crescevano le grida quanto più il dottore avanzava. Si alzavano precedendo i suoi passi. Il pianto di quelli che erano ancora impauriti si univa alle imprecazioni dei già vaccinati. Stanco e completamente frastornato, si sedette sulla panca nella stanza di Mendel con un pesante gemito e chiese un bicchiere d’acqua. Il suo sguardo cadde sul piccolo Menuchin, sollevò lo storpio e disse: “Diventerà epilettico”. Riversò la paura nel cuore del padre. “Tutti i bambini hanno le convulsioni”, obiettò la madre. “Non è questo”, precisò il dottore. “Ma forse potrei guarirlo. C’è vita nei suoi occhi”.
Voleva portare subito il piccolo in ospedale. Deborah era già pronta. “Lo guariranno gratis”, disse. Ma Mendel replicò: “Sta’ zitta, Deborah! Nessun dottore può guarirlo, se Dio non vuole. Deve forse crescere tra bambini russi? Non sentire alcuna parola santa? Mangiare latte e carne e polli fritti nel burro come li servono in ospedale? Siamo poveri, ma non vendo l’anima di Menuchim soltanto perché la sua guarigione può essere gratuita. Non si guarisce in ospedali stranieri”. Come un eroe Mendel tese il suo braccio bianco e magro per la vaccinazione. Ma non diede via Menuchin. Decise di implorare l’aiuto di Dio per il figlio più piccolo e di digiunare due volte a settimana, lunedì e giovedì. Deborah si propose di andare in pellegrinaggio al cimitero e di invocare le ossa degli antenati per la loro intercessione presso l’Onnipotente. Così Menuchim sarebbe guarito e non sarebbe diventato un epilettico.
Tuttavia, dal momento della vaccinazione, la paura aleggiava sulla casa di Mendel Singer come un mostro, e la preoccupazione si infiltrava nei cuori come un vento costante, caldo e penetrante. Deborah poteva sospirare, e suo marito non la redarguiva. Più a lungo del solito teneva il viso nascosto tra le mani quando pregava, come se si creasse notti sue proprie per seppellirvi la paura, e tenebre sue proprie per trovarvi al contempo la grazia. Poiché credeva, come stava scritto, che la luce di Dio brillasse nelle oscurità e la sua bontà illuminasse il buio. Gli attacchi di Menuchim però non smettevano. I figli maggiori crescevano e crescevano, la loro salute sbraitava con cattiveria alle orecchie della madre come un nemico di Menuchim, il malato. Era come se i figli sani acquistassero forza dall’infermo, e Deborah odiava le loro grida, le loro guance rosse, le loro membra diritte. Andava in pellegrinaggio al cimitero con la pioggia e con il sole. Batteva la testa contro le pietre arenarie ricoperte di muschio che affioravano dalle ossa dei suoi padri e delle sue madri. Scongiurava i morti, le cui mute, consolanti risposte credeva di sentire. Ritornando a casa trepidava nella speranza di ritrovare suo figlio guarito. Trascurava il lavoro al focolare, la minestra traboccava, le pentole di terracotta si rompevano, le casseruole si arrugginivano, i bicchieri dal riflesso verdastro si spaccavano con un colpo violento, il cilindro della lampada a petrolio si anneriva per la fuliggine, lo stoppino si carbonizzava miseramente in un piccolo zaffo, lo sporco di molte suole e di molte settimane si accumulava sulle assi del pavimento, lo strutto nella pentola si scioglieva, i bottoni cadevano secchi dalle camicie dei bambini come il fogliame prima dell’inverno.

 

Fonte: Rebeccalibri
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