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Giuseppe Berto, una singolare vena narrativa

di Marco Ciriello

Apparteneva a quella cattiva gioventù da cancellare, Giuseppe Berto: volontario in Africa, dimenticato prigioniero militare a Hereford in Texas con Albero Burri, Dante Troisi, Gaetano Tumiati, poi scrittore da bestseller e sceneggiatore. L’Italia usciva dalla guerra e voleva dimenticare, omettere i conti con il passato, perdonare emarginando, senza discutere, non fare passi verso la sua sbagliata coscienza, agì d’istinto, rimosse, disprezzò; la gente come Giuseppe Berto ne fece le spese, e perdemmo tutti. Berto è sempre stato poco ideologico e annoiato da parate e propaganda del regime (basta leggere la “Colonna Feletti” per capire),  non era un repubblichino di Salò, ma uno degli illusi, nel campo di prigionia americano si rese conto delle effimere promesse incarnate dal fascismo, anche se non fu tra quelli che collaborarono con l’esercito alleato, né si trasformò in un democristiano, apparteneva a una Italia negata, che aveva sbagliato, pagò fino in fondo la sua scelta anche per gli altri: quelli che seppero saltare. Aveva torto marcio, ma non gli fu neanche data una possibilità.

Una vita controversa, da guastatore. Eccentrico, solitario, in continua rivolta, non ebbe mai pace ma in compenso molti amori, brevi, istantanei, e almeno tre grandi storie. Era un uomo di fascino, qualcosa tra Humphrey Bogart e Albert Camus, tenebroso, corteggiatore incallito, uno scrittore d’azione, fisico prestante, atletico, che divise fra bici e nuoto, un fratellino di D’Annunzio meno irrequieto e mondano. Era più orso, schivo, ma non per questo meno ambizioso, anzi.  Il suo esordio nel 1947 “Il cielo rosso”, fu accolto come uno dei primi romanzi neorealisti (neoromantici, disse lui)  del dopoguerra, ma senza enfasi. Collezionò diversi premi, vendeva tantissimo, ma non riuscì mai a essere amato dalla critica e ne soffrì molto. Eppure poteva annoverare fra i suoi estimatori Ernest Hemingway e Carlo Emilio Gadda. Gli riuscì anche una storica accoppiata: Campiello e Viareggio, con lo stesso romanzo: “Il male oscuro” (poi divenne anche un film di Monicelli). Nonostante questo, i suoi libri erano sistematicamente ignorati o stroncati, i film ebbero cattiva fortuna. Odiava aspettare, non sopportava la mediazione che sta dietro ai libri, detestava il continuo gioco di carambola e rimando fra scrittore ed editore, ma anche quello fra sceneggiatore e produttore, logorandosi. A spregio del suo aspetto, l’animo dello scrittore si mosse sempre in bilico, fragile, buio, incline a cadute depressive, alternava periodi gioiosi ad altri lugubri che divennero sempre più estesi.

Uno strano tipo di fascista che divenne anarchico, libero battitore, cane sciolto, Berto, era versatile, leggeva Marcuse, conosceva Gramsci, don Milani, citava Mao e non sopportava Moravia. Lo scrittore romano finì per incarnare il genere d’intellettuale da salotto, il radicale che aveva la sua schiera di amici, la terrazza che lui non raggiunse mai, forse anche per questo gli si scagliò contro con vigore, dopo un periodo di frequentazione, a farne le spese fu Dacia Maraini arrivata a Moravia nel momento sbagliato, il suo primo libro ebbe una introduzione dello scrittore e molta fortuna, Berto la usò come pretesto per colpire Moravia, in mezzo c’era l’assegnazione del premio Formenton. Per il giornalista Dario Biagi autore di una tagliente brillante biografia: Vita scandalosa di Giuseppe Berto, «è stato il più grande contestatore e, probabilmente, la più grande vittima dell’establishment letterario in questo dopoguerra». Giancarlo Vigorelli si dedicò a un singolare documento, una raccolta di due pagine sulle storie della letteratura italiana che omettevano il suo nome o ne liquidavano l’opera in tre righe. Ma meglio di tutti ha delineato la questione il suo compagno di prigionia, lo scrittore Gaetano Tumiati cogliendo nel segno: «la sottovalutazione della sua opera e l’ostilità nei suoi confronti hanno radici culturali ben precise: nascono da una certa tradizione aristocratica, intellettualistica, iniziatica del mondo letterario italiano. Quella tradizione che indusse Vittorini a rifiutare Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa».

Ebbe una vita da romanzo, davvero invidiabile, anticonformista, zingara, fra cinema e realtà, che per molti versi confluì nella sua prova migliore, più sentita, sofferta, quel “male oscuro” che covava dentro, il conflitto padre-figlio, raggiungendo una struggente liricità, emozioni intense, concedendosi anche sprazzi comici, una lunga montagna di parole conservate, accumulate, meditate per anni: il pozzo nero della depressione, i suoi dubbi, le sue paure, manie, ossessioni si unirono nel libro, che divenne un volume di quattrocento e fischia pagine, tutte scorrevoli, tenute insieme da leggerezza e pensieri associativi, risicata punteggiatura e fogli pieni, lunghe descrizioni, giri di parole, sentiti commenti, un libro che mise a dura prova la psiche dello scrittore, sempre esitante, ma che lo portò anche a una testimonianza di grande scrittura: scendere nel proprio animo, raccontarlo e risalire non è da tutti, ne venne fuori un romanzo che sta tra il flusso di coscienza di James Joyce (che nessuno aveva ancora sperimentato in Italia) e Il giovane Holden di J. D. Salinger.

Tutto era cominciato nel Fascists’ Criminal Camp di Hereford, nella noia della prigionia erano nati giornali, libri, quadri, nell’attesa si dava fondo alle proprie passioni, e lui – che era laureato in lettere con alle spalle anche alcuni anni d’insegnamento – aveva preso a scrivere qualche racconto sulle esperienze africane, i suoi compagni avevano apprezzato e incentivato. Ne venne fuori una singolare vena narrativa. Non smise più, anche se bisogna tenere conto di molte crisi dovute alla malattia, del tempo perso con le sceneggiature che gli davano da vivere, anche se diverse non diventarono mai film. Al ritorno dalla prigionia in Texas lasciò il suo piccolo paese vagando per l’Italia per approdare in Calabria: Capo Vaticano (luogo d’incanto almeno negli anni sessanta, dove si costruì una casa), divenuta sua patria elettiva, rifugio: «la terra alla quale, appena la vidi, capii di appartenere», anche con la Calabria il rapporto fu di odio e amore, lui si spese in difesa del paesaggio che già negli anni settanta cominciava ad essere aggredito, ma anche in dure critiche di costume e modi di vivere. L’altra sua città adottiva divenne  Roma, ma ci fu anche un anno mondano a Cortina, fra feste e gente d’alto bordo, avventure e poche pagine scritte.

Dal “male oscuro” divenuto poi un abusato modo di dire, ne uscì a intermittenza dando altre ottime prove di scritture come “La cosa buffa” e per molti versi anche in “Anonimo veneziano”, fu un primo attore trascurato, un vincente senza gloria, colpito dall’indifferenza, sapeva di valere e di non aver il giusto spazio, ingigantì questa mancanza fino a farla divenire voragine. Quelli come lui si smarrirono in un mondo costruito in loro assenza.

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