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Il Figliol prodigo. Tante letture, un solo racconto e le domande irrisolte

di Roberto Righetto

Anni fa sulle pagine di Agorà ospitammo un curioso dibattito sulla parabola del figliol prodigo. Se più o meno tutti accettavano la lettura teologica tradizionale che ne fa il segno dell’amore misericordioso del Padre, disposto sempre a perdonarci nonostante gli errori e le cadute, il finale del racconto si prestava a varie ipotesi.

Il critico Cesare Cavalleri ad esempio, prima in un denso articolo sulla rivista ‘Studi cattolici’ e poi su ‘Avvenire’, provava a cercare attenuanti per il figlio non prodigo, di solito da tutti messo sul banco degli imputati e accusato di far prevalere il risentimento. Nelle sue parole di sconcerto rivolte al padre per la tavola subito imbandita in onore del fratello (forse anche perché non era stato avvisato del ritorno e coinvolto nella decisione di far festa), Cavalleri vede un’amarezza più antica, indizio del non sentirsi amato dal genitore. E ricorda la difesa che del figlio maggiore aveva fatto lo scrittore Giorgio Calcagno nel libro Il Vangelo secondo gli altri, uscito nel 1969.

Ma poi viene da chiedersi: come avrà reagito? Si arrese alla richiesta del padre? Domande che si pose in un intervento su questo giornale anche Enzo Bianchi: «È entrato il fratello a fare festa? E il padre, è entrato lasciando il figlio maggiore fuori, oppure è ancora là che prega affinché la festa sia completa?». Per il monaco e biblista la parabola pone domande forti a ognuno di noi: «Tu che chiami Dio padre, che immagine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributiva? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù ci interpella! A ciascuno di noi la risposta nel nostro cuore».

Ora un volume dello storico Fulvio De Giorgi, Il figliol prodigo. Parabola dell’educazione (Scholè, pagine 238, euro 17,50) tira le fila delle varie discussioni teologiche che si sono succedute nei secoli e nei decenni scorsi sul significato della parabola, su cui si sono cimentati Padri della Chiesa come Ireneo, Ambrogio, Agostino, poi figure come Bonaventura, Erasmo da Rotterdam, Lutero e Kierkegaard; e, per arrivare più vicini a noi, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, padre David Maria Turoldo, il cardinal Martini.

Lo schema classico considera il padre della parabola come simbolo del Padre celeste, che ci lascia sempre liberi di scegliere tra il bene e il male: di fronte alla richiesta personaggio negativo che riesce a riscattarsi. È il figlio maggiore, invece, a porsi secondo questa lettura come del tutto riprovevole: egli rifiuta di abbracciare il fratello che si è convertito e rimane chiuso nel suo egoismo. Si comprende come i due culmini della parabola siano l’abbraccio tra il padre e il figlio minore da una parte e il dialogo tra il padre e il figlio maggiore dall’altra, che chiude la pagina evangelica. Ma secondo De Giorgi a questa lettura teologico-spirituale occorre affiancarne un’altra, di tipo psicologico e pedagogico, che permette di cogliere con maggior profondità il senso della storia raccontata da Gesù.

Avvalendosi a più riprese dei commenti di Dolto, Nussbaum e Recalcati, solo per ricordare alcuni degli studiosi richiamati (sia detto en passant, sono davvero troppe le citazioni riportate in questo libro!), l’autore segnala come la parabola ricomprenda tutt’e tre le forme pedagogiche contemporanee: l’educazione autoritaria, quella permissiva e quella liberatrice. Arrivando a parlare di «catastrofe educativa dirompente», rimarcata dall’assenza della figura materna del figlio minore di cedergli la sua parte di eredità per potersene andare a zonzo per il mondo, egli non si oppone. Resta come in attesa di vedere come andrà a finire, nella speranza che prima o poi faccia ritorno. Almeno, è quanto ci viene da pensare data la sua reazione di stupore e felicità allorché il figliolo, dopo aver sperperato tutto ed essersi pentito, si ripresenta alla sua casa.

Il figlio minore poi raffigura chi commette peccati e si pente, ritrovando la via giusta; dunque, un nel racconto morale fatto da Cristo, che a suo dire si potrebbe anche chiamare «la parabola della madre assente». Per De Giorgi non si tratta affatto di un’assenza casuale, ma è il segno della carenza di un dialogo esistenziale profondo fra il padre e i due figli, di affetto e di tenerezza: «Manca la donna, manca la madre: manca l’afflato femminile materno. C’è l’ordine, ci sono le norme. Ma non ci sono la protezione e i permessi, il nutrimento del cuore». Conclude De Giorgi: «Siamo di fronte a un fallimento educativo completo, con un figlio che esce da casa e uno che non vuole entrare». Lo sottolineava anche Cavalleri nella sua riflessione: in questa famiglia non c’è vera comunicazione: «Tutti hanno una sorta di pudore dei propri sentimenti, e così nasce l’incomprensione. La ragione c’è, ed è profonda: manca la madre».

Così, i fratelli sembrano quasi estranei fra loro. Non solo, il figlio maggiore sembra una copia della figura paterna, fatta di severità e austerità. La pensava un po’ diversamente padre Turoldo, per il quale l’assenza della madre era necessaria alla parabola, il cui vero insegnamento consiste nella tolleranza reciproca: «O Dio – scrive il servita nel libro Anche Dio è infelice – quando impareremo a sopportarci, a comprenderci: appunto a tollerarci come tu ci tolleri? Vera tolleranza è di sentire tutti uguali. È ammettere che anche il fratello ha una sua verità».

Ma la pagina più efficace del volume a nostro avviso si trova in una nota, a pagina 163, ove si immaginano due esiti possibili della vicenda. De Giorgi ipotizza una brutta fine per entrambi i fratelli: il minore torna alla vita dissoluta, il maggiore diventa sempre più cinico e si dà al brigantaggio. Tutt’e due commettono molti crimini. Alla fine saranno i due ladroni crocifissi assieme a Gesù: il minore è il ‘buon ladrone’, mentre l’altro ha il cuore indurito per sempre. Altra ipotesi della fantasia, ma non meno suggestiva e stavolta con lieto fine, vede ambedue i fratelli farsi discepoli di Cristo. Sono loro che lo incontrano a Emmaus dopo la resurrezione. Come suggeriva Enzo Bianchi nell’articolo citato sopra, il finale della storia può dunque essere letto, interpretato e vissuto da ciascuno di noi.

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