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Il tappeto afghano

di Gholam Najafi

Dopo “Il mio Afghanistan”, Gholam Najafi torna nella sua terra d’origine attraverso 16 racconti: storie di donne, di infanzie, di amicizie, di difficoltà e di piccole gioie che, come fili intessuti, tracciano la trama dell’Afghanistan, “terra aspra e un non sempre morbido tappeto”, come scrive Giampiero Bellingeri nell’introduzione. Storie che sono testimonianza di un legame ancora forte dell’autore con la sua terra e con il distendersi dei suoi ricordi.

Quella penna che è stata il regalo più bello della mia
infanzia, ora è il testimone dei miei dolori.
Ritorno nuovamente ad essa
e a quel quaderno dal quale ho iniziato.
Noi siamo coloro a cui è stato rubato il tempo
per scrivere la nostra storia…
Noi siamo quelli che possono cantare le poesie
per gli amanti e che possono soffrire per tutte
quelle donne che hanno voluto solamente accendere
un lume affinché tutti possano trovare il loro destino,
anche se nel loro cammino molti di questi si sono spenti,
lasciando la strada in preda all’oscurità.
Quelle donne che capivano le sofferenze
e sentivano anche quelle vicine.
Per continuare sventoliamo
la polvere del nostro tappeto
Noi, noi chi?
Gholam Najafi

 

Presentazione (di Eloisa Abrate)

Gholam, da quando lo conosco, vuole raccontare. Ha nella testa mille storie, mille colori della sua origine lontana.

All’inizio, però, raccontare era difficile e gli faceva male, preferiva ricorrere allo stereotipo di sicuro successo del bambino pastore mentre tante immagini, tanti ricordi venivano accantonati per non scoprirsi troppo fragile. Rileggere i suoi scritti lo commuoveva oltremisura quasi non fossero opera sua.

Oggi Gholam non domina ancora completamente la lingua italiana, ha incertezze nella scelta del pronome personale o della concordanza appropriata, spesso dimentica di controllare con quale tempo verbale ha iniziato la frase, più spesso l’ansia di raccontare gli fa ancora ignorare passaggi logici importanti. Ma Gholam è poeta.

Non conosco i dialetti afghani, ma mi sono chiesta spesso se questo modo inusitato di accostare parole o immagini non sia tipico della sua lingua, se quello che io chiamo poesia non sia invece il normale linguaggio figurato dei pastori azara. Ogni volta, però, nella confusione della prima lettura, vedo emergere come pietre preziose metafore, specialmente metafore, e similitudini vivissime. La descrizione si concentra in poche essenziali immagini.

Il racconto allora si anima di sentimenti tangibili, i rapporti interpersonali diventano ovvi e purissimi, i personaggi si stagliano con caratteristiche specifiche pur nel ripetersi di alcune situazioni: il ragazzo che non vuole studiare, i bambini che vengono sposati per la shar’ia, le donne alla incessante ricerca di un figlio maschio, le figlie legatissime alla madre…

Questo modo insolito di costruire le frasi, di scegliere le parole, di usare nomi appresi in un’altra lingua per descrivere scene viste da piccolo (ali per pale del mulino a vento), avvicinano a me un mondo lontano ed esotico che non riesco a ignorare.

Non sono più l’insegnante di Gholam da diversi anni, nulla mi obbliga a riguardare i suoi scritti, i suoi sforzi, i suoi progressi, ma se non lo faccio ho paura che queste “pietre preziose” vadano perse.

Latifa, la ragazza-ragazzo. In gabbia

Latifa era la primogenita nella famiglia di A. Khaliq. Il padre, comandante dell’esercito, stava poco a casa e trascorreva poco tempo con la moglie e la bambina, aveva i suoi uomini da gestire oltre alla famiglia. Solo il primo anno, quando era nata la piccola, era riuscito in qualche modo a stare un po’ di più con loro.

Dopo tre anni dalla nascita della figlia, Khaliq aveva deciso di lasciare la casa dei suoi genitori dove ancora vivevano, voleva costruirsi una nuova vita, autonoma; ma una nuova vita si presentava difficile senza un figlio maschio: la recente legge dei talebani era ancora più rigorosa e restrittiva nel controllo della vita delle donne, esse non potevano uscire da sole di casa, non potevano andare al mercato, non potevano fare visite se non accompagnate da un maschio della famiglia. Men che meno avere un lavoro fuori delle mura domestiche.

La moglie di Khaliq aveva qualcuno che portava le loro bestie al pascolo, qualche bambino del vicinato faceva da messaggero (qasid) durante le feste o per invitare i parenti quando un famigliare tornava da un luogo lontano o il marito dalla guerra. Vederlo salvo era una grande gioia per lei e ogni volta che tornava a casa si festeggiava per alcuni giorni. Ogni volta la donna chiedeva aiuto ai figli dei suoi vicini in attesa che crescesse la loro unica bambina.

Un altro figlio non arrivava, nonostante le continue preghiere a Dio di benedire il suo ventre.

La donna era disperata dentro di sé, ovviamente non esprimeva al marito le sue angosce, non si lamentava mai, altrimenti a lui sarebbe venuto in mente di sposare un’altra e lei correva il rischio di essere ripudiata.

Giorno dopo giorno, però, la difficoltà economica della famiglia cresceva e diveniva evidente, ogni volta si doveva pagare un garzone per tenere le bestie e per gli altri lavori agricoli, si affidavano tutte le incombenze fuori casa ad estranei, e si pagava tutto con denaro o grano o bestiame, a seconda di ciò che si era concordato.

E il marito era quasi sempre lontano.

La moglie decise allora di trasformare la figlia in un maschio, tagliandole i capelli e facendole indossare camicie corte.

Talvolta nella regione accadeva che una bambina, in una casa dove c’erano solo femmine, venisse travestita da maschio fino alla pubertà. La donna lo aveva sentito raccontare. Era l’unico modo per sopravvivere. Con questa trasformazione la ragazza-ragazzo poteva fare tante cose, molte più di quante ne poteva fare se fosse rimasta ragazza.

Ai lavori domestici ci avrebbe pensato lei, era forte, era capace, era abituata.

Latifa avrebbe portato al pascolo le bestie, avrebbe raccolto cibo per gli animali, avrebbe procurato il grano e la legna e tutto ciò che serviva per un duro inverno.

Ma il problema non si risolveva così facilmente se voleva che la figlia avesse un futuro come gli altri. “Quali altri? Come lei nella sua famiglia? Venduta a 13 anni? Meglio schiava dentro casa o schiavo fuori? O la piccola doveva accettare per solidarietà ciò che le veniva imposto da una madre in pericolo di essere ripudiata?”.

Il marito non poteva neanche immaginare, era un maschio, solo dopo il ripudio, in teoria, si sarebbe potuto scoprire come stavano le cose.

Se lei avesse fatto figli maschi o anche femmine con un altro marito, sarebbe stato chiaro che era l’uomo ad avere problemi, ma bisognava che qualcuno la sposasse, solo così si poteva sapere se la colpa dell’infertilità era sua, altrimenti no, perché le donne vedove, o in questo caso le ripudiate per mancanza di figli, non potevano tornare a lungo nella casa dei genitori. Nel caso molto probabile di nessuna richiesta, la donna veniva venduta lontano da quel villaggio dove il primo marito non avrebbe più potuto conoscere l’evolversi delle situazioni.

Quindi Khaliq avrebbe pagato un alto prezzo per una seconda moglie al solo scopo di avere figli maschi, invece di andare dal dottore a farsi visitare spendendo sicuramente meno; ma a quell’epoca i medici erano solo nelle grandi città e l’uomo faceva prima a sposarsi con un’altra donna.

A volte si poteva trovarne una a costo più basso, in questo caso non si stava a guardare troppo la bellezza o l’età della femmina, ma solo la buona possibilità di riproduzione.

E così Latifa divenne Latif.

La madre, però, per non suscitare chiacchiere malevole escogitò un’ulteriore soluzione: prese un ragazzino come servo e mandò sua figlia a servizio lontano da casa, in segreto, così nessuno poteva conoscere la vera situazione della piccola.

La bambina non avrebbe più potuto continuare a studiare, poiché il maestro che insegnava, il mullah, faceva lezione a turno ogni sera in una famiglia diversa, quindi conosceva molto bene tutti i nuclei del villaggio, anche perché era lui solo a curare le cento case che aveva in affidamento.

La giovane non avrebbe potuto nemmeno studiare lontano dalla casa dove adesso viveva, perché lì veniva pagata e quindi doveva assolutamente obbedire agli ordini delle persone a cui era affidata. Latif, dunque, avrebbe solo lavorato in silenzio senza rivelare nulla di sé.

Il tempo passava e Latif si avvicinava alla pubertà. Sapeva che la sua vita da maschio sarebbe presto finita, che la madre l’avrebbe richiamata a sé per venderla al miglior offerente come una bestia, la stessa donna che aveva paura di essere ripudiata perché non faceva più figli e perché non aveva avuto un figlio maschio l’avrebbe data a uno sconosciuto, magari vecchio come suo padre.

Di certo una figlia non poteva ribellarsi alla sua famiglia anche perché per ribellarsi bisognava sapere dove andare, conoscere qualcuno che la proteggesse. Un uomo. Solo un uomo poteva darle protezione, ma in caso di ripudio i suoi non l’avrebbero più ripresa a casa perché ne era uscita di sua volontà.

In più, un servo doveva essere bambino, altrimenti si poteva sospettare un rapporto sessuale tra lui e la padrona di casa, poiché un marito non badava troppo ai ragazzini piccoli che giravano tra i piedi, ma a un giovane sì.

Latif, a nove anni, era abbastanza grande, la famiglia dove viveva non la faceva dormire assieme alle donne ma la faceva dormire nella parte maschile della casa. Oltre alla difficoltà della vita con i maschi lei era esclusa dai lavori domestici perché in quegli anni – ma non solo in quegli anni, ancora oggi – esisteva la credenza che le donne fossero impure soprattutto nei periodi del ciclo.

Se avesse continuato a lavorare, non poteva sposarsi, ma, se rimaneva travestita da maschio, non poteva restare servo o pastore in quella famiglia a lungo perché la situazione non poteva avere futuro.

Dopo mesi e mesi di lavoro lontano da casa la ragazza si sentiva sempre più disorientata, sola, senza una guida, con il suo bel nome femminile distorto. Lei non stava nascondendo a tutti solo la sua natura e il suo nome, ma tante altre cose, piccole e grandi, che nessuno di quel villaggio sapeva o sospettava.

In questo periodo di tristezza e di dubbi la giovane decise di fuggire e tornare a casa. Sapeva dove abitava, non era così lontano, ma in quegli anni non c’erano macchine o corriere, doveva farsela tutta a piedi, sarebbe arrivata dopo uno o due giorni.

Prima di lasciare tutto, pur essendo ancora piccola per alcuni lavori, fece bene quello di pastore, affidò le bestie ai suoi amici e scappò. Camminò e camminò senza mangiare ma solo bevendo acqua e masticando poche erbe che raccoglieva dai bordi della strada. Arrivò vicino a casa e solo allora ebbe paura di entrare perché era sicura che sarebbe stata bastonata. Si pentì di essere tornata, nemmeno poteva farsi vedere lì intorno dai vicini con quei vestiti maschili.

Si nascose e quando diventò buio si rese conto che non poteva dormire in mezzo agli alberi o sotto le pietre o in una grotta, sarebbe stata sbranata da qualche animale notturno, come lo sciacallo o il lupo.

Per un attimo pensò di dormire nel cimitero dove nessuno si avvicinava di notte.

No, perché per gli animali era indifferente un luogo o l’altro, a differenza degli uomini, anche se loro stessi avevano paura uno dell’altro, ma lei si doveva nascondere da tutto e da tutti. Per quella notte trovò rifugio nella moschea dicendo tra sé: “Dio, solo tu mi puoi proteggere in questo momento. Se non mi lasci vivere come sono nata, almeno non lasciare che mi mangino gli animali”.

Dopo che si fu sdraiata in un angolo, arrivò un altro pensiero molesto a tormentarla: se non riusciva a svegliarsi di buon’ora, con la gente che la mattina presto sarebbe andata a pregare, avrebbe corso il rischio di essere vista e sarebbe stato ancora peggio. Decise allora di rimanere sveglia, ma il tempo passava lentamente, perché quando si aspetta che passi in fretta, il tempo diventa lunghissimo e non passa mai. Decise che la soluzione migliore era di rimanere dov’era un altro po’. Non appena il cielo cominciò a schiarirsi nella nuova alba, lei si allontanò con circospezione dal suo vecchio villaggio e cominciò a camminare per ritornare dai suoi padroni.

Intanto la famiglia, che aveva ricevuto il bestiame consegnato da altri ragazzi del villaggio, discuteva infastidita sullo strano comportamento di Latif.

Il capofamiglia, Salman, chiese alla moglie:

“Zahra, come è andata? Sei riuscita a raccogliere il latte?”

“No, oggi non c’era Latif. Lui porta sempre le bestie nei posti più verdi e fioriti, ma oggi non si è visto. Chissà, deve aver dormito tutto il giorno nascosto da qualche parte. Paghi e vedi il frutto!”

“Hai detto qualcosa a Latif?”

“No, mica è nostro figlio, mica possiamo dire ciò che vogliamo con lui.”

Salman osservò triste: “È difficile sapere come comportarci con i ragazzini, ancora più difficile con figli di altri. Ora sono costretto a pagare doppio e domani devo chiedere agli altri pastori di aiutarmi. Oggi però, o io o una di voi, deve portare le bestie al pascolo. Se quello non torna io devo andare a prenderlo e perdere anch’io una giornata. Se avessimo un figlio non avremmo da affrontare tutte queste fatiche.”

Jawhar, la prima moglie, si intromise piccata: “Non è mica colpa mia, perché brontoli con me, hai visto il risultato con la tua seconda moglie? Figli non arrivano, né da me né da lei. Con me non puoi prendertela, ma devi guardare a te stesso!”.

Salman uscì da casa, quella sera saltò la cena. Ritornò tardi, ma il letto non gli sembrava il solito letto! Ognuno dormiva in un posto diverso quella notte e lui rifletteva: “Figlia non ho, e nemmeno figlio; lavoro tutto il giorno, litigo con le mie mogli, Latif mi odia. Io lo pago ma lui si annoia con una famiglia senza figli, ha bisogno di qualcuno della sua età”.

Guardò le sue donne, ma quella notte non gli veniva di dormire con nessuna, aveva fatto stare male due mogli e se stesso, infine uscì dalla stanza e dormì in un angolo della cucina. Il giorno dopo doveva andare a prendere Latif, e doveva tagliare il grano che era pronto per essere tagliato e doveva nascondere le spighe prima che gli uccelli mangiassero tutto. In quella notte passò da un incubo all’altro senza mai veramente dormire, la mattina presto uscì di casa per mettersi in viaggio.

Le mogli si alzarono sperando che lui fosse tornato, si guardavano l’un l’altra senza parlare. La prima moglie non poteva comandare la seconda perché forse era colpa sua che non aveva dato figli. E la seconda nemmeno, perché non aveva ancora generato discendenza al marito.

Non si chiesero nulla di Salman, la convivenza tra loro era una grigia routine: Jawhar aveva perso da tempo il suo prestigio di prima moglie, era trascurata perché il marito era sempre più attaccato alla seconda sposa, tutto teso ad avere un figlio maschio; una figlia femmina non interessava, era considerata come una cosa provvisoria, una che sarebbe uscita dalla famiglia dopo una certa età; le eventuali proprietà sarebbero rimaste agli zii, poiché il marito di una figlia non era un parente consanguineo. Ma la speranza di una gravidanza era inesistente per tutti e tre.

La prima moglie portò a pascolare gli animali in montagna.

La seconda, si mise a fare i lavori di casa. Salman era partito per riportare a casa Latif, ma a mezza strada era già pentito perché era uscito senza dire nulla alle sue donne. Era tardi per tornare indietro, allora proseguì e andò ancora avanti anche se aveva la gola secca e amara di rabbia, soprattutto verso se stesso.

Pregò: “Dio, aiutami”. Girò la testa verso la Mecca (qibla) e ancora ripeté: “Dio aiutami”. Nessuno lo capiva!

Con fatica si rialzò e tornò a camminare, ma svenne. Rimase lì nella polvere e passarono ore prima che uno dei suoi vicini che tornava al villaggio lo prendesse su e lo caricasse sopra l’asino come una salma o un ferito in guerra. Il vicino arrivò davanti alla casa di Salman e bussò alla porta che era chiusa a chiave. Aspettò, l’unica cosa che poteva fare era di procurarsi un po’ di acqua fredda e buttargliela in faccia, non sapendo che cosa fosse successo.

Finalmente arrivò la seconda moglie, che vedendo Salman rigido come un cadavere davanti all’entrata, cadde giù pure lei, gridando: “Marito, amore mio! Cosa posso fare senza di te?”.

Nel frattempo Latifa, che era partita la mattina presto dalla moschea, si rese conto che era dal pomeriggio del giorno prima che non mangiava; di solito, quando portava le pecore o lavorava fuori, portava con sé un fagottino, con un pezzo di pane e yogurt (shir), un po’ di latte (saf), ma adesso tutto era finito, aveva solo la sacca vuota, senza pani. Il sole era sorto da molto e lei aveva fame.

Stava passando vicino a una piccola collina dove seppellivano i morti (kotal-e khagah o payi khak), i martiri avevano la tomba ornata con una bandiera. Vide che arrivavano famiglie con bambini, c’erano donne vecchie o donne vedove che avevano perso i loro uomini. Era venerdì e portavano da mangiare. Avrebbero potuto darle qualcosa. La strada passava proprio in mezzo al cimitero. Lei si avvicinò con cautela a una donna che aveva lasciato il cibo da parte e piangeva sulla tomba ripetendo: “Te ne sei andato, mi hai lasciato sola. Beato te che sei andato, a me solo dolore hai lasciato”.

Si avvicinò sempre di più dicendo timidamente: “Signora, ho fame!”. La voce era bassa in modo che non si riconoscesse la tonalità femminile mentre era vestita da maschio.

Rispose la donna: “Prego, mangia, è per voi, anime sole!  Mangia, che diventa freddo, ho corso per portarlo ben caldo ai miei; prega per i miei morti, caro”.

“Quando ho finito di mangiare chiederò a Dio di benedire i vostri morti”, guardò e stava per chiedere chi fossero questi morti. Pensò a lungo, alla fine decise che era meglio non dire nulla e non aprire ancora di più la ferita della poveretta.

Rifocillata, si avviò verso la casa dove era tenuta come serva, camminò e camminò rimuginando come rientrare senza peggiorare la sua posizione: “Non sono riuscita a vedere mia madre, sono scappata senza dire nulla e ora, con che faccia rientro?”.

La sera, avvicinandosi alla casa sempre con più timore, vide gente in strada, davanti alla porta.

“Forse stanno per partire a cercarmi, devo correre per avvisare che sto bene e che sono tornata da sola.”

Vide che Salman era steso a letto dentro casa e la sua seconda moglie era ancora svenuta nel cortile. Andò in cucina e nelle stanze per cercare l’altra moglie; uno dei presenti suggerì che forse Jawhar era andata fuori a pascolare o a bagnare le terre coltivate.

Il sole era sceso sotto l’orizzonte, diventava buio, ma Latif conosceva la strada, infatti, poco dopo scorse la donna che veniva da là in fondo con le pecore, le raccontò d’un fiato ciò che era successo al marito e la guardò di sottecchi pensando che lei fosse preoccupata, ma no, era tranquilla, come se la cosa non la riguardasse. A casa se ne erano andati via tutti. Sbrigarono le faccende e mangiarono la cena, sole.

Quella notte Latif dormì nella stanza della prima moglie. Le domandò: “Da quanto vi siete sposata?” fino a quel momento non sapeva molto di lei.

La donna rispose: “Da circa dieci anni” e continuò “quando possono permetterselo, gli uomini sposano fino a quattro mogli contemporaneamente. A me, per ora, è andata bene, ho avuto, fino ad oggi, solo un’altra sposa per casa, ma non so cosa il futuro mi riserva. Spero di non incontrare grossi problemi, i miei non mi potrebbero sostenere, ho tanti fratelli, sono undici, e io sono la sola figlia femmina.

Dovrò resistere e se la seconda moglie avrà dei figli, io ti sostituisco e divento la sua schiava mentre lei, cioè la seconda moglie, diventerà una regina qui dentro. Può succedere di tutto. Io sto qui solo per essere mantenuta, con mio marito abbiamo pochissimi rapporti e, se non c’è rapporto, io divento ancora più schiava… non proviamo più amore, non c’è interesse, stiamo assieme a letto una volta ogni tanto, ma fuori sono come un’estranea per lui”.

Qualche giorno dopo la madre fece tornare Latif a casa, era tempo di preparare Latifa per le nozze. Le fece crescere i capelli e la fece vestire da donna, abiti eleganti, ovviamente, per attrarre pretendenti. Ma ai vicini non era passato inosservato come era vissuta la ragazza. Bastava guardare come si muoveva impacciata nei suoi bei vestiti, come stava seduta, come non sapeva fare nulla in casa.

Gli anni passavano, ma la povera ragazza continuava a pesare sulla famiglia. La madre non poteva farle fare i lavori pesanti altrimenti non avrebbe potuto avere figli dopo il matrimonio, non poteva mandarla in giro come messaggero perché mandarla da sola voleva dire farla deridere dalla gente se non addirittura farla accusare di scarsa serietà. Insomma, la poveretta doveva rimanere chiusa in casa come un uccello in gabbia.

Latifa arrivò a compiere vent’anni, cioè erano passati undici anni dalla normale data prevista per essere venduta come sposa, e una donna di quell’età non interessava più a nessuno, più nessuno andava a fare richiesta di matrimonio perché era considerata vecchia. L’unica soluzione possibile era che qualche uomo anziano, come suo padre, rimasto senza produrre altri figli con le sue mogli, la prendesse senza spendere troppo.

Infatti qualche anno dopo un vecchio sarebbe venuto a chiederla ai suoi genitori come seconda o terza moglie.

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