Rebecca libri

La penultima bontà

di Josef M. Esquirol

Penultima bontà: perché quell’aggettivo? Perché ‘penultima’? Domanda legittima, persino sconta­ta, di fronte al titolo di questo libro del filosofo catalano Esquirol, la cui risposta si snoda lungo pagine di parole semplici e dense insieme, calde e profondamente vere, scritte con finezza di tessi­tura letteraria e originalità di pensiero.

Abbiamo davvero bisogno di uscire da quell’oriz­zonte di senso che ingabbia la vita umana tra un inizio perfetto e perduto e una fine ineluttabile e definitiva, perché quello che avvertiamo, con la certezza di un’esperienza che ci percorre conti­nuamente dalla pelle al cuore mentre viviamo qui e ora, è che il mistero della vita non risiede in un paradiso impossibile da cui siamo stati cacciati né nell’ultimità della morte, ma nella penultimità, appunto, della vita che vive e si sente vivere.

Questa, ci dice qui Esquirol dialogando con il li­bro della Genesi, con Platone, con san Francesco e Zarathustra/Nietzsche, con Heidegger, Simone Weil e tante altre voci del pensiero filosofico, è la caratteristica propria dell’umano: sentirsi vi­vere, essere coscienti di un’esperienza vitale che non si fa rinchiudere, ma vibra e pensa e ama scoprendosi imperfetta, spesso ferita, mai com­piuta e sempre penultima, eppure proprio per questo capace di riconoscere la stessa condizio­ne negli altri e di creare comunità. Una comu­nità fraterna che vive ai ‘margini’, per usare la bella espressione con cui Esquirol indica il quo­tidiano, fatto di crepe, di deserto, di fatica, ma anche di prossimità, di resistenza, e soprattutto di cura e di gratitudine.

*   *   *

Di seguito l’incipit del primo capitolo, Qui, ai margini del paradiso impossibile.

Non ci hanno cacciato da nessun paradiso. Ne siamo sempre stati fuori. In realtà, e per fortuna, qui il paradiso è impossibile. La nostra condizione è quella di chi vive ai margini. Margini ben strani: non definiti da nessun centro. Qui, ai margini: la genesi e la degenerazione, la vita e la morte, l’umano e l’inumano – poiché solo l’umano può essere inumano –, la prossimità e l’indifferenza.
Qui, ai margini, vivere è sentirsi vivere.
Qui, ai margini, non c’è pienezza né perfezione. Sì invece affezione infinita (mistero) e desiderio.
Qui, ai margini, il male è profondo, ma la bontà lo è di più.
Qui, ai margini, ciò che più conta non sono le origini remote, bensì il suolo, la base.
Qui, ai margini, nulla ha più senso del riparo e della generosità.
Qui, ai margini, è possibile, ma costa moltissimo, muoversi di mezza spanna nella giusta direzione. È la mezza spanna verso la comunità fraterna che vive.
Qui, ai margini, non solo viviamo, ma siamo capaci di vita. La condizione umana è quella ai margini del paradiso impossibile.
Nel paradiso impossibile c’erano animali di tutti i tipi, tranne le vacche.

Non il paradiso, ma la genesi

Il paradiso terrestre è l’immagine plastica che corrisponde ai concetti di ‘pienezza’ e ‘perfezione’. Eppure voler comprendere l’umano in termini di pienezza conduce a un vicolo cieco. La situazione umana, la condizione umana, non si definisce a partire da una perdita né da un allontanamento da una pienezza paradisiaca, aurea o naturale.

Allo stesso modo, ai margini, ai nostri margini, non è vero che «c’è quel che c’è, punto e basta». Questa frase lapidaria non descrive in maniera adeguata la nostra contrada, perché una delle espressioni decisive dell’umano è la generazione e, in particolare, la gratuità della generazione, che viene chiamata generosità bontà. Una generosità, quella dei margini, che non procede mai dall’alto verso il basso – perché nessuno vale più degli altri – bensì, sempre, fianco a fianco. Che esistere sia in parte resistere lo si capisce prendendo in considerazione la generazione; resistiamo perché la vulnerabilità messa al riparo è capace di maturare, di donare e di creare. La resistenza intima è, al tempo stesso, riparo e speranza nella generazione. Un tempo gli orticoltori proteggevano con rametti di bosso il vivaio in cui avevano appena trapiantato le piante perché potessero resistere alle inclemenze atmosferiche. Anche noi ci ripariamo, per resistere. La resistenza ha come obiettivo la creazione e la generosità. Anche se, tutto sommato, offrire riparo agli altri è già un primissimo gesto di generosità.

E precisamente perché la generazione è quanto di più proprio vi sia per noi, le mille forme della degenerazione ci inquietano moltissimo. La degenerazione principale risponde al nome di violenza, e si presenta in una grande varietà di forme: va dagli omicidi più spaventosi e dalle vessazioni più brutali alle innumerevoli modalità, manifeste o dissimulate, dell’ingiustizia e dell’indifferenza.

Pensare l’umano non presuppone affatto chiarirne le origini paradisiache, ma piuttosto dirigersi verso la sua base, rivolgersi a quanto c’è di più fondamentale. Perché la genesi non si trova per forza all’inizio di una serie: è sia al principio sia alla fine; ovunque e sempre. La genesi è soprattutto lì dove la vita personale pulsa e circola con intensità; lì dove la vita si sente; lì dove la vita si illumina. La genesi è qui. Eppure, paradossalmente, non è facile avvicinarsi a essa. Per farlo è necessario disporre di un metodo filosofico che potremmo chiamare, letteralmente, cammino dell’ingenuità. Perché il significato primario della parola ingenuità è proprio questo: in-genuità, ‘vicino alla genesi’, ‘verso il centro della genesi’. Ecco il motivo per cui si dice dei bambini che sono ‘ingenui’, perché sono vicini alla genesi in quanto nascita. Badate bene: non si tratta di rivendicare un presunto sguardo infantile, vergine, incontaminato, bensì di sforzarsi di osservare bene la base, il suolo, le fondamenta. Questo tipo di ingenuità non coincide né con la banalità, né con la purezza angelica. Sguardo filosofico, sguardo attento e sguardo ingenuo divengono sinonimi.

Per approssimarsi alla genesi si può lasciarsi guidare pazientemente da ciò che viviamo e vediamo – che vediamo perché viviamo – e, anche, utilizzare i grandi simboli – ‘grandi’ proprio perché plasmati vicino alla base. Simboli evidentissimi sono, per esempio, quelli che troviamo nelle tragedie di Sofocle o nei primi capitoli della Genesi biblica. Commentarli è un esercizio di ingenuità. Come diceva Paul Ricoeur, il simbolo fa pensare, si dà al pensiero come una vitamina. C’è continuità tra il simbolo e la descrizione del paesaggio umano; continuità tra l’interpretazione del simbolo e l’osservazione della vita. La letteratura e la poesia sono le maggiori beneficiarie di tale continuità. In questo libro, il passaggio all’ambito simbolico avviene soprattutto per parlare del paradiso impossibile, dove, per esempio, può essere enormemente suggestivo riferirsi allo sguardo perso di Adamo e all’aria annoiata di Eva che, dopo aver fatto l’amore e aver mangiato il frutto d’un rosso così intenso, provano angoscia nel presentire che l’indomani sarà uguale a ieri.

Non solo non ci sono mai stati, né mai ci saranno, paradisi terrestri, ma l’immaginazione che si affanna in questa direzione finisce per schiantarsi e dare adito al contrario di quanto cercava. Si era proposta di descrivere la pienezza, eppure descrive un luogo inabitabile. Né la perfezione né la pienezza sono di questo mondo. Ecco perché non ci sono iniziali età dell’oro né utopie che si realizzeranno alla fine della storia; niente paradisi perduti né viali di città felici. Nel migliore dei casi, non si tratta che di stratagemmi e mediazioni teoriche. L’attenzione deve invece concentrarsi sui margini, sui nostri margini, e sull’affezione infinita che è lì presente, e impiegare tutta l’energia disponibile per compiere lo spostamento di appena mezza spanna verso la comunità fraterna che vive.

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