Rebecca libri

La ragione conoscitiva di Vittorini

di Vincenzo Barone
Fonte: Domenica-Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2017

Nell’aprile del 1967, con l’uscita del decimo e ultimo numero, si concludeva l’avventura di una delle più importanti riviste culturali del secondo Novecento, «Il Menabò», fondato nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino. Nei suoi sette anni di esistenza la rivista aveva inciso profondamente sulla cultura letteraria (e non solo) del nostro paese, proponendo testi e riflessioni su temi nuovi e di grande rilevanza (la funzione del dialetto, il rapporto fra industria e letteratura, la neoavanguardia, lo strutturalismo – per citarne solo alcuni).

Il numero 10 di «Il Menabò» apparve all’indomani della morte di Vittorini, avvenuta nel 1966, e fu un omaggio postumo all’autore di Conversazione in Sicilia. Calvino lo immaginò come il quinto capitolo di quel Diario in pubblico che Vittorini aveva pubblicato nel 1957 raccogliendo, con un’operazione di collage, una serie di frammenti critici, organizzati cronologicamente sotto quattro sezioni, tutte intitolate alla ragione: «La ragione letteraria», «La ragione antifascista», «La ragione culturale», «La ragione civile». Calvino vi aggiunse «La ragione conoscitiva», con scritti comparsi sullo stesso «Il Menabò» e interventi vari degli anni 1961-1965 (l’ultima edizione Bompiani del Diario, a cura di Fabio Vittucci, incorpora questa parte in appendice). Da poco era stato pubblicato Le due culture, il celebre pamphlet di C.P. Snow che, nonostante un certo schematismo, aveva avuto il merito di innescare il dibattito sul rapporto tra cultura scientifica e cultura umanistica. Una delle testimonianze più importanti di Vittorini raccolte in «Il Menabò» 10 – un’intervista del 1965 – è dedicata proprio a questo tema e contiene una serie di riflessioni che vale la pena di riportare alla luce. La separazione tra le due culture, secondo Vittorini, non è il risultato della crescente specializzazione scientifica, ma emerge nel momento stesso in cui la scienza moderna prende forma, rifiutando la visione del mondo classica e cristianizzata della cultura umanistica.

Questa reagisce con una «professione di fedeltà» a tale visione, cosicché «l’Umanesimo, che era tutta la cultura, diventa la parte più retriva di essa non appena si manifesta nel suo interno l’esigenza di uscire dall’illusione (dai pregiudizi, dalle menzogne, dalle presunzioni, dalle proposizioni sacre) dell’antico modello culturale». E se talvolta (soprattutto nel Settecento) viene posta l’esigenza di una nuova unità, di un diverso umanesimo, ciò avviene a opera di filosofi e scrittori che sono professionalmente, prima di tutto, uomini di scienza. Ma anche agli scienziati Vittorini attribuisce una colpa: quella di essere rinunciatari, di abdicare, rimettendosi agli umanisti «appena entra in campo un problema di valutazione morale»

È necessaria invece «un’assunzione di responsabilità umanistiche da parte della cultura scientifica», che muova da «una demistificazione dei valori tradizionali, col sottoporli a una radicale verifica (linguistica, psicologica, scientifica)». La scienza contemporanea, osserva lo scrittore siracusano, è una rivoluzione nei fatti ma non ancora nelle coscienze, ed è questa la dimensione che deve essere acquisita per poter costruire un «umanesimo scientifico». Quanto al divario tra le due culture, un’opera di alfabetizzazione spicciola, come quella suggerita da Snow, appare insufficiente a colmarlo, perché il punto non è possedere qualche nozione di scienza, ma avere una visione scientifica moderna, non rimanere prigionieri di schemi antiquati: «Noi siamo pieni» afferma Vittorini «di una vecchia pseudoscienza che si è cristallizzata in noi al livello degli istinti, al livello della cosiddetta natura: e abbiamo urgente bisogno di rimuoverla e sostituirla». Ignorando la scienza, «noi ci troviamo a mancare di qualcosa da cui dipende la pertinenza storica della nostra operatività stessa, anche in senso letterario. Noi ci troviamo a mancare di uno sviluppo nella nostra struttura mentale». Nella lunga postfazione ai testi dell’amico, Calvino sottolineava l’idea vittoriniana della letteratura come progetto e come processo conoscitivo basato su due condizioni: «La prima: di contestare le nozioni abitudinarie siano esse percettive o linguistiche o concettuali […] stabilendo il modo d’una nuova percezione, nominazione e significazione; la seconda: di non lasciarsi mai prendere fino in fondo dal meccanismo dell’astrazione mentale, tanto da eleggere stabile dimora in un mondo puramente concettuale, cioè di tornare sempre col guizzo d’un ago magnetico a puntare sul dato non ancora concettualizzato dell’esperienza». L’indicazione universale di metodo che se ne trae è chiara: coniugare la forza e la libertà della visione con una «responsabilità verso le cose». Sinteticamente: «Poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazione». In un paese come il nostro, che alla realtà tende a preferire il Verbo, e al progetto la chiacchiera, la lezione di Vittorini risuona ancora potente.

Fonte: Domenica-Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2017
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