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Remo Bodei: ricordare e dimenticare

di Remo Bodei

A volte la RAI è davvero servizio pubblico. Dagli archivi dell’azienda, infatti, è possibile estrarre documenti di grande interesse, ora disponibili a tutti sul web. Per esempio, abbiamo rintracciato una pregevole serie di trasmissioni, interviste e incontri sul sito di Rai educational, dedicati proprio al tema della Memoria. Tra i vari documenti presenti, riportiamo un’intervista del 26 maggio 1998 a Remo Bodei, nel corso della trasmissione Il Grillo, che aiuta a focalizzare alcuni dei temi che vogliamo approfondire in questo periodo. Per la lettura degli altri documenti disponibili, rimandiamo al sito RAI già citato.

INTRODUZIONE: Dinanzi a mutamenti improvvisi di regime politico, milioni di uomini sembrano, non solo dimenticare un parte consistente della loro storia, ma trasformarla. Perché accade tutto ciò? Per semplice opportunismo oppure perché la memoria è intrinsecamente fragile e i ricordi sono esposti alla mutilazione e alla cancellazione? Se gettiamo uno sguardo sul passato, vedremo, non senza un sentimento di malinconia, come l’oblio sembri dovunque vittorioso. Il passato è pieno di rovine, non solo di edifici e di città, ma anche di ideologie e di religioni ripudiate, di lingue morte, di esistenze, che di sé non hanno lasciato alcuna traccia, o soltanto segni sbiaditi e indecifrabili. L’oblio del proprio passato modifica l’identità di un individuo o di un popolo, in quanto essa è plasmata non solo dal patrimonio di memorie ereditato, ma anche da quanto si dimentica o si è obbligati a dimenticare. Per comprendere il problema iniziale, bisognerebbe capovolgere la domanda, ossia non domandarsi tanto perché, a livello collettivo, si dimentica, ma perché si ricorda. Si vedrà allora che la memoria pubblica di una nazione è incessantemente promossa da forme di ricordare in comune, da commemorazioni appunto: festività civili e religiose, stesura di libri di testo di storia, diffusione della lingua. Quando un regime cade o per qualsiasi ragione anche fisica, come nel caso di un terremoto o di una invasione straniera, i vecchi criteri con cui si selezionavano le cose da ricordare e da dimenticare, non valgono più. Si scopre allora che la memoria è un campo di battaglia, in cui si lotta per la conquista del passato. Con una specie di oblio verticale, i cristiani costruiscono così le loro chiese, proprio sopra i templi pagani, o coloro, che sono stati considerati traditori, vengono in seguito riabilitati. Il fatto è che memoria e oblio sono inscindibili nel loro avvinghiarsi e che noi abbiamo, in diversa misura, bisogno di entrambi per vivere, in quanto siamo degli emigranti nel tempo, che si servono del ricordo del passato, per andare verso il futuro ignoto, così come gli emigranti, per rendere meno duro l’impatto in terra sconosciuta, chiamavano le nuove città con il nome di quelle vecchie. Sapevano che non erano le stesse, ma in tal modo il transito verso il nuovo era più semplice.

STUDENTE: Quali sono, a Suo giudizio, i meccanismi che contribuiscono all’oblio collettivo di certi fatti, fatti a volte anche dolorosi, appartenenti alla storia di un popolo?

Bodei: In generale si dimentica ciò che non si ha desiderio di ricordare, nel senso che gli eventi traumatici, che hanno modificato la storia di un popolo o di un gruppo vengono rimossi. Ciò può accadere sia per motivi di opportunismo, nel senso che molti cambiano casacca, per così dire. Ma fenomeni collettivi di tali dimensioni non si possono spiegare in termini moralistici. I cambiamenti avvengono perché la memoria collettiva, come abbiamo visto nel filmato, non è qualche cosa che funziona automaticamente. Cioè la memoria collettiva è come questo trenino che vedete qua, è come una locomotiva, che ha bisogno di essere alimentata continuamente, con il carbone, delle forme ufficiali di ricordare. Cioè noi, per avere una idenatità collettiva, la memoria di una nazione, abbiamo bisogno di determinate festività. Ad esempio, il 25 aprile, per l’Italia repubblicana, o il 28 ottobre, quando c’era il fascismo, che era la Marcia su Roma. Abbiamo bisogno di costruirci una storia che è fatta di tanti fili. E’ la storia che noi leggiamo nei libri di testo. Quando queste commemorazioni, quando questo ricordo in comune non c’è più, la memoria collettiva svanisce. Si può dire che l’oblio sia una sottoalimentazione della memoria ufficiale o una perdita di alimentazione. E poi cambiano anche i criteri di selezione della memoria. Noi non possiamo ricordare tutto e non possiamo dimenticare tutto. L’identità collettiva di un popolo si forma anche attraverso il dimenticare, cioè è anche ciò che dimentichiamo che plasma l’identità collettiva. E quindi noi abbiamo bisogno di riformulare i criteri di selezione della memoria. Cioè, quando io ero alla vostra età, la storia si studiava come se il Risorgimento italiano fosse stato l’evento più importante della storia del mondo. Oggi si studia l’Europa come centro della nostra esperienza. Domani probabilmente si avrà una storia planetaria, in cui gli eventi della Cina o dell’Africa o di quelle civiltà avranno un’importanza pari a quella della storia d’Italia o della storia d’Europa. Quindi si dimentica, sulla base del cambiamento dei criteri di selezione e sulla base della rimozione di ciò che non ci piace.

STUDENTE: Con un’affermazione un po’ paradossale possiamo dire che il passato è per certi versi il prodotto del presente, nel senso che la storia non si scrive una sola volta, ma più volte, viene ampiamente interpretata più volte, sulla base delle acquisizioni metodologiche, di concetto, ideologiche, dei – in senso lato – “vincitori”. Ecco, sulla base di questo, mi chiedo: quali atteggiamenti, quali comportamenti si possono e si debbono mettere in atto, onde evitare un certo capriccio interpretativo?

Bodei: Grazie. E’ un problema che rigurda la dimensione etica della memoria, cioè noi non dobbiamo pensare che la memoria sia semplicemente la registrazione di ciò che è avvenuto. Fra l’altro, la storia non la scrivono sempre i vincitori. E’ vero che normalmente accade così e che, quando cambiano i regimi politici o dopo il passare del tempo, chi è stato sconfitto molte volte viene elogiato e chi, invece, ha vinto, viene dimenticato. Pensate alle code di chilometri che si facevano una volta sulla Piazza Rossa, per vedere la mummia di Lenin. Oggi non c’è nessuno e, a quanto pare, vogliono smantellare il Mausoleo. Ci sono dei casi in cui sono i vinti che fanno la storia. Per esempio il popolo ebraico, nella sua lunghissima vicenda di deportazioni e di persecuzioni, apolide fino a cinquant’anni fa, fin quando non è stato creato lo Stato d’Israele, ha avuto come unica patria, diciamo mobile, trasportabile, la memoria. Però è vero che, in linea generale, la memoria è soggetta a manipolazioni e sono manipolazioni che non possiamo evitare del tutto, perché la memoria, si è detto anche questo, nella scheda di presentazione, è un campo di battaglia e succede che c’è un’eredità contesa. E’ però anche vero che noi dobbiamo fare una riflessione di tipo più strettamente filosofico, che non è molto difficile, anche se i termini possono sembrare paradossali. Noi pensiamo che il passato sia come una cosa che sta lì, che il ricordo semplicemente recupera. Dimentichiamo il fatto che qualsiasi evento del passato, a caldo, quando è successo, è già un’interpretazione. E soprattutto dimentichiamo il fatto che gli eventi importanti, traumatici o gioiosi, quelli non banali, quelli che eccedono la semplice memoria, vengono reinterpretati più volte, proprio perché ci ossessionano, nel senso latino obsideo vuol dire assedio. Noi siamo assediati dai ricordi importati e quindi noi li ripercorriamo continuamente. Dunque non esiste il ritorno al passato come ricostruzione di ciò che effettivamente è avvenuto. Esiste tutta un serie di interpretazioni, di strati interpretativi, un palinsesto – sapete, quella pergamena che, siccome costava troppo, veniva raschiata e ci si trovava scritto più volte con diversi testi -, ecco noi dobbiamo prendere tutto l’insieme delle interpretazioni, per capire la storia. Ecco perché gli storici non finiscono mai, come gli esami, perché gli stessi eventi vanno interpretati più volte e ogni volta vanno interpretati in maniera diversa. Questo spiega anche perché noi siamo costretti a, per evitare che ci sia un grande fratello della memoria, che sconvolga il passato, siamo costretti a reinterpretare più volte, in senso etico, cioè non dimenticando quello che inequivocabilmente è accaduto.

STUDENTESSA: Quanto la memoria storica può servire per migliorarsi nel presente, nel futuro, e quanto può essere strumentalizzata. Perché, per esempio, Lei ha citato adesso il popolo ebraico. Però al momento dell’Olocausto, che è stata una tragedia storica, riconosciuta, oggettiva, loro chiedevano ospitalità, chiedevano fratellanza, in un certo senso. Adesso invece, in Israele, non vogliono concederla ai Palestinesi. A questo punto mi chiedo quanta ne hanno conservato di questa esperienza tragica e quanto può essere invece strumentalizzata. Cioè mi rendo conto che sia un argomento scottante, però quanto hanno ricordato? Perché a questo punto non vogliono concedere a qualcuno quello che chiedevano loro e che hanno subito atrocemente?

La sua domanda è pertinente e non c’è nessun argomento scottante. Sono tutti scottanti sul piano della memoria. Voglio dire che la memoria è sempre divisa, per questo è un campo di battaglia. Quindi è vero che il popolo ebraico, in quanto si è costituito in Stato nel territorio della Palestina, ha avuto come, come premessa ideologica il fatto che l’Olocausto non si deve più riprodurre, che non saranno più gli ebrei delle pecore da portare al macello. Però è anche vero quello che lei ricorda, che, in questo stato di guerra, che dura ormai da oltre cinquant’anni, non c’è un riconoscimento reciproco delle varie identità e memorie storiche. Quindi il punto su cui riflettere è che: con quale diritto un popolo abita la terra? Cioè, se noi dovessimo ripercorrere la nostra memoria storica, noi dovremmo chiedere i danni ai Vandali o ai Visigoti che hanno fatto il sacco di Roma, oppure dovremmo chiedere agli Andalusi, che sono – Vandalusia – discendenti dai Barbari. Probabilmente è necessario, ogni tanto, che ci sia una tregua della memoria, nel senso che c’è anche un accanimento della memoria, un accanimento identitario. Cioè il tipo di memoria che probabilmente è più auspicabile è quello di una memoria ospitale, capace di ascoltare le ragioni degli altri. Senza entrare nella dimensione politica, che non mi è propria, a me preme ricordare che bisogna uscire dalla contrapposizione dello stesso evento, visto con occhi di parte. Faccio un esempio: per gli Americani il 7 dicembre del 1941, bombardamento e attacco contro Pearl Harbour, è chiamato il Giorno della Vergogna, ma gli Americani non chiamano nello stesso modo il 6 agosto e il 9 agosto del 1945, quando venne bombardata Hiroshima e Nagasaki. E quindi il problema di porsi, da un punto di vista storico, come dire, il più possibile oggettivo, che non vuol dire che esista una posizione sopra le parti, ma che tenga conto dei diversi punti di vista e di certe realtà che non si possono negare.

STUDENTESSA:
 Noi parliamo di memoria oggettiva o memoria soggettiva. Però è implicito il fatto che, dal momento in cui la memoria soggettiva è quella anche individuale, che va a creare la memoria storica di un popolo, quindi la memoria oggettiva o cosiddetta oggettiva, a questo punto noi abbiamo una memoria oggettiva come popolo italiano, o, come tutti gli altri popoli, o come intera umanità, oppure abbiamo una memoria soggettiva parziale e non universale?

Noi abbiamo una memoria soggettiva, perché ciascuno di noi ha una memoria. Quindi la memoria oggettiva, cioè quella consegnata all’identità di un popolo, alle istituzioni, agli archivi, alle biblioteche, alla lingua, esiste, ma esiste soltanto in quanto ciascuno di noi la fa vivere, cioè esiste il linguaggio in quanto io lo parlo, esistono le biblioteche in quanto io son capace di leggere quella lingua. Quindi io credo che la contrapposizione memoria oggettiva, memoria soggettiva vada chiarita, nel senso che non c’è memoria soggettiva senza i quadri della memoria, come son stati chiamati, cioè questi elementi istituzionali, come il linguaggio, l’orientamento spaziale, le istituzioni, senza le quali io non potrei ricordarmi niente. Io ricordo qualcosa perché ho un linguaggio, perché mi è stato insegnato che c’è la destra e la sinistra, avanti e dietro, perché vivo all’interno di istituzioni come la famiglia, che sono il risultato di un grande processo storico. Allora la memoria collettiva in questo senso, non è altro che un insieme di memorie individuali, che scorrono lungo un determinato albero. E, per così dire, c’è un passato che non passa nella nostra esperienza, nel senso che non tutto scorre in maniera che ce lo dimentichiamo. Esistono delle istituzioni, delle forme linguistiche, che hanno un ritmo molto più lento della nostra vita. Cioè l’italiano di Dante o di Boccaccio è un po’ più difficile per noi da capire, ma lo capiamo meglio del cinese o del coreano. Quindi noi siamo inseriti in un alveo di scorrimento di una memoria collettiva e la nostra vita prende senso soltanto perché abbiamo questa memoria collettiva. Varrebbe la pena a questo punto vedere l’intervista del professor Paolo Rossi, proprio sul rapporto tra memoria collettiva e identità.

ROSSI: C’è un film molto bello, che si chiama Blade Runner, dove ci sono dei replicanti, che sono assolutamente identici agli esseri umani e che vivono in mezzo agli esseri umani e che non sanno di essere dei replicanti. Il loro problema è questo. E poi c’è, quando si affaccia alla mente di uno di questi replicanti, che, nel caso specifico, è una donna, il dubbio di essere un replicante, cioè di non essere un vero essere umano, ma di essere un automa, quindi di essere qualcuno che ha una memoria che gli è stata inserita nel cervello, come in una macchina, e che non è la memoria vera, ecco, allora c’è la crisi di questa persona che, guardando delle vecchie fotografie ingiallite su un pianoforte, si domanda se sono ricordi veri o sono falsi. Il dubbio che quei ricordi siano falsi, la getta in un’angoscia terribile, perché è una persona che non può avere nostalgia del passato. Ecco, l’assenza della nostalgia, l’assenza della memoria è, come si dice comunemente, e mi sembra una cosa tuttora valida, è una perdita dell’identità. Se non avessimo la nostra memoria non sapremmo chi siamo. C’è uno dei casi clinici, esaminati da quel grande psichiatra e anche grande scrittore, che si chiama Oliver Sachs: La storia di un marinaio perduto. Il marinaio perduto è uno che non si ricorda niente, non si ricorda chi è, si ricorda che forse è stato un marinaio. Quest’uomo non ha più identità. Quindi la memoria è la costruzione della nostra identità. Questo lo sapeva già Hume, lo sapevano già i classici della filosofia. Questo riguarda solo noi individui o riguarda anche le collettività? Questo, direi che noi siamo sicuri; riguarda anche le collettività. Cioè siamo o toscani o lombardi o italiani o non so di quale altro, qualunque gruppo, perché in qualche modo questo gruppo si è costruito una sua memoria storica. Tutte le volte che ci richiamiamo a dei valori della nazione o del gruppo al quale apparteniamo o della classe, perché i gruppi possono essere i più vari, indubbiamente lo facciamo in nome della memoria di un passato. Ecco, questa memoria è solo, è un dato solo positivo? Certo è un dato positivo, però può diventare facilmente anche un dato negativo. Cioè, nel momento in cui, per esempio, il senso di appartenenza a una comunità nazionale si trasforma in nazionalismo, abbiamo una specie di effetto, diciamo, pericoloso, come lo volete chiamare, della memoria, oppure il tribalismo, oppure il localismo, cioè la esaltazione della memoria collettiva può arrivare a un punto tale, da far considerare contemporanee delle battaglie, avvenute nel 1200, come purtroppo è avvenuto fino a tempi recenti, adesso speriamo che sia finito in Irlanda, c’è come un peso eccessivo della memoria su un gruppo, che quindi si muove eccessivamente su queste basi. Non ho toccato ancora il tema della dimenticanza. Ma questo certamente è un tema che è legato, a quanto dicevo.

Bodei: Questa intervista ha due punti interessanti, cioé l’idea di un peso eccessivo della memoria, che schiaccia i vivi attraverso il ricordo dei morti o dei torti passati, subiti, e quindi una memoria che non esce mai dal sentimento di vendetta o di rivalsa. E’ un altro punto, quello del nazionalismo, cioè quello, molte volte, di memorie inventate. Succede spesso che tante nazioni nascano su dei miti: il mito di supremazia di un certo popolo, e il mito per quanto riguarda, per esempio, la Russia di essere la terza Roma, dopo Roma e Costantinopoli. Il mito della Germania nazista degli ariani, e così via. La memoria è appunto un campo di battaglia perché spesso serve a creare delle identità fittizie, ma, a forza di insistere, queste identità fittizie diventano vere. Appare come al neogreco. Voi sapete che nel 1827 si ricostruisce il Regno di Grecia sotto una dinastia tedesca dei Wittelsbach e il greco non esisteva, era un miscuglio di turco, di vari dialetti. Il greco venne costruito a tavolino. Eppure, ora, milioni di persone da questa lingua, scritta a tavolino, hanno fatto una lingua vivente.

STUDENTE: Io volevo chiedere: oggi ha portato alcuni oggetti, tra cui anche un rocchetto. Volevo sapere come mai l’ha portato.

Il rocchetto allude a un piccolo racconto di Kafka che si chiama Odradeck, e che riguarda questi oggetti dimenticati, appunto un rocchetto. Uno apre un cassetto e trova parte delle sue memorie, che sono, per così dire, consolidate in oggetti. Per Kafka, probabilmente, il rocchetto è il simbolo della figura paterna, del padre. Voi sapete c’è una bellissima lettera di Kafka a suo padre. Cioè succede a tutti, probabilmente, che dopo un po’ i genitori si dimenticano, sono stati importanti per la nostra formazione, poi, per affermare noi stessi, abbiamo bisogno o di contrapporci ad essi oppure semplicemente di elaborare la nostra personalità. Poi, giunti a una certa età, ci viene un po’ nostalgia di questa nostra infanzia, di questa formazione, in cui abbiamo messo da parte soprattutto le persone anziane. Quindi la memoria ha questa caratteristica, per quanto riguarda l’individuo: che la nostra mente è piena di oggetti desueti, non so, qualcosa, come nei romanzi di Proust, che ci ricorda un passato che avevamo dimenticato. Si cita sempre di Proust una famigerata “petite madeleine” un dolcetto che, inzuppato nel thé, mi fa ricordare un passato che avevo dimenticato. Ma ci sono altri passi bellissimi in Proust. Ad esempio una passeggiata in carrozza, in cui si vedono tre alberi e questi tre alberi sembrano che vogliano dirci qualche cosa: “I loro rami si protendono – dice Proust – come se volessero afferrarci e dirci: “Se non ci terrai con te, se non ci ricorderai, se non risolverai il nostro enigma, una parte di te stesso ci sfuggirà.””. Ecco il senso del rocchetto è che la memoria non è soltanto un fatto interiore. La memoria sta negli oggetti – un profumo, un viso -, e quindi attraverso questi oggetti noi ricostruiamo parte del nostro passato. Anzi si può dire che negli oggetti, nei profumi, soprattutto, in ciò che non è visibile o udibile, cioè nei sensi acuti, nostri, si conserva un passato intatto. E’ come se la teca dell’oblio avesse conservato questi oggetti e avesse conservato noi stessi come eravamo. Poi la vita, per così dire, è come una macchina schiaccia sassi, che stritola tutto e rende tutto il passato simile al presente. Però questi oggetti del passato ci danno questa emozione, che deriva dal fatto che ci riportano a un nostro io che non è stato modificato dal passare del tempo. Come diceva Proust stesso: “E’ come se gli oggetti ci trasmettessero una sorta di aroma di eternità, cioè qualcosa che sfugge alle grinfie del tempo”.

STUDENTESSA: Il tempo per noi ha una direzione e una freccia. E quindi tutti gli eventi si collocano in un punto determinato di questa freccia e sono unici e irripetibili. Alcuni però, per esempio Lei prima parlava di Proust, hanno affermato che pezzi del passato si riaffacciano nel presente, e danno origine a rinascite o riemergenze. E quindi, nell’idea di riemergenza, è implicita la non liceità e la non ripetibilità degli eventi. Allora la metafora del tempo come freccia non si sovrappone, sia pure in modi imprevisti e complicati, a quella del tempo come ciclo, in cui sembra invece essere opposta?

Noi abbiamo del tempo una concezione riduttiva, cioè appunto il tempo è come una linea retta, sulla quale scorre un punto, il presente, che separa in maniera irreversibile il passato dal futuro. Ma ad esempio, nel tempo psichico, cioè nel tempo della nostra vita, succede che c’è, come dicevo prima, un passato che non passa, qualcosa che resta in noi e che continuiamo a elaborare. Per esempio i nostri ricordi d’infanzia, che peraltro son pochissimi, si contano sulle dita di mano, molte volte son falsi, cioè sono ricostruiti. Quindi noi, parlando in termini filosofici, se pensiamo a Leibniz , che quelli di seconda devono studiare -, in Leibniz tempo e spazio sono degli ordini. Il tempo è l’ordine della successione, lo spazio è l’ordine della compresenza. Cioè io guardo simultaneamente queste cinque dita, che sono presenti insieme. E invece le parole che dico vengono una dopo l’altra e non le posso sentire insieme. Il tempo psichico è un po’ un incrocio – non vi spaventate, non è difficile -, è un incrocio di una compresenza, cioè di un passato e di un tempo che rimane accanto alla successione. Cioè il tempo, per certi aspetti, come quello di Leibniz, scorre, per altri assomiglia allo spazio, cioè resta contemporaneamente presente. Ecco perché io posso recuperare il passato. Cioè il passato non è scomparso, non è dissolto, resta come traccia in noi e per questo lo possiamo rievocare.

STUDENTE: Ecco sì, io volevo chiederLe, riguardo all’infanzia di cui si è parlato precedentemente, anche riguardo a Proust: ecco, la nostra infanzia, quelli che hanno la mia età, diciamo,18-20 anni, è segnata da ricordi, che non rigurdano solo le madeleines di memorie proustiane, ecco, ma anche immagini, per esempio, televisive, mediate, sintetiche. Ecco, quindi Le chiedo come questa memoria plastica – e glielo chiedo anche perché questo sta già influendo, per esempio nei giovani artisti italiani -, possa, appunto, influire nelle scelte estetiche della mia generazione e nelle generazioni successive.

Beh, intanto è giusto quello che dice: c’è una generazione che è abituata non soltanto ai mezzi di comunicazione di massa di vecchio tipo, come la radio o il disco, ma è abituata alla televisione o, come vedremo, fra poco, a Internet. Il che presuppone non soltanto un tipo di memoria diversa. Cioè già le banche dati, che sono raggiungibili attraverso Internet, o il flusso di informazioni in realtà eccessivo, – si guarda, a quanto pare, i ragazzi, fino a cinque ore di televisione al giorno, in certi paesi, – ecco, questo flusso muta la nostra percezione. Secondo gli psicologi i ragazzi della vostra età, della vostra generazione, rispetto a noi, hanno capacità di visione molto rapida. Cioè noi non potremmo competere con nessuno di voi, giocando in un videogame. E questo muta anche la percezione estetica. Infatti ci sono delle arti, legate appunto al mezzo televisivo, che sono delle forme di poesie visive, ad esempio, o di mescolanza di colori. Si possono avere, per esempio, circa trentaduemila tonalità di colore, normalmente, o, sessantaquattromila, attraverso al televisione, e si possono comporre, delle opere attraverso il video. E’ la cosiddetta video-arte. Questo cambia perché, rispetto a una tradizione, in cui non c’era uno schermo – è il caso di dirlo – tra noi e gli oggetti, voi avete un’esperienza, un’esperienza molto più mediata, e quindi avete anche una sensibilità che è diversa, probabilmente non legata a luoghi e a forme precise, più eclettica, se vogliamo, ora, ma forse, in prospettiva, più creativa.

STUDENTE:
 Io ho cercato su Internet un po’ di cose riguardo alla memoria collettiva e ho trovato un sito che si propone di cercare di ricordare alcuni avvenimenti riguardo Auschwitz e le Fosse Ardeatine. Su Auschwitz, parte parlando del testo di Primo levi Se questo è un uomo, scrive: “Sorgono allora delle domande: perché dobbiamo ricordare e che cosa dobbiamo ricordare? Bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene, anche quando si presenta in forme apparentemente innocue. Quando si pensa che uno straniero o uno diverso da noi è un nemico, si pogono le premesse di un catena, al cui termine – scrive Levi – c’è il lager, il campo di sterminio”. Poi, dopo, questo sito espone vari percorsi, partendo da delle immagini, ad esempio questa: vi è l’introduzione del testo, del testo di Primo Levi. Andando indietro, ad esempio, qua parla se è giusto che, prima di morire, questa gente abbia cercato di combattere fino in fondo, abbia dato tutto addirittura. Prima di morire queste madri hanno dato da mangiare ai loro bambini, anche se ovviamente questo era inutile, in quanto dopo sarebbero stati uccisi. E io mi chiedevo se questi, questi mezzi di comunicazione possono servire veramente a far riscoprire e a far ricordare delle grandi tragedie come quella di Auschwitz oppure se bisogna ancora utilizzare i vecchi metodi come i libri e la storia, se questi modi moderni coi computer possono essere utili o no.

Io credo che tutte le strade sono buone. Il computer ha questo vantaggio, che ci fa accedere a intere biblioteche e non pesa niente. Non c’è il problema dei vostri zaini pesanti. Il punto che lei ricorda, cioè quello di Auschwitz, oggi è discusso, nel senso che si cerca un contrappeso. C’è stato l’orrore nazista dei campi e ci sono stati i gulag sovietici, oppure in Italia ci sono state le Fosse Ardeatine. Ora questo modo di fare barca pari a me non piace, non perché questi eventi non siano successi, ma perché la somma degli orrori non è che ci concilia, dicendo che tutto è male. Noi dobbiamo ricordare con pari dignità tutti gli orrori e tutte le vittime di questo secolo, però nello stesso tempo dobbiamo tenere divise le nostre memorie. Non c’è niente di male nelle memorie divise: cioè, l’abbracciarsi di un popolo, perché questo popolo ha sofferto come il popolo italiano, e ha sofferto da diverse parti storiche, può essere una specie di consolazione. Ma non si capisce la storia se si equiparano fenomeni completamente diversi. Ripeto: resta l’orrore e deve restare presente al nostro animo quello che Primo Levi ha detto, a proposito dei campi di concentramento, che c’è una zona grigia, cioè che c’è una parte del nostro animo o degli atteggiamenti collettivi che cerca di sfuggire alle responsabilità, di tenere basso il profilo. Così durante le guerre civili o durante i momenti in cui è necessario prendere posizione, c’è gente che, come dire, fa al pari degli struzzi, mette la testa per terra e dimentica. Bisognerebbe tirar fuori la testa dalla sabbia e guardare bene cosa succede.

STUDENTESSA:
 Secondo Lei non c’è il rischio che la memoria storica finisca per costruire dei miti che in realtà non esistono?

La memoria storica contiene in sé la possibilità dei miti, ma contiene in sé anche l’antidoto, cioè, in fondo la storia è nata proprio contro le deformazioni della memoria. E’ il concetto stesso di verità in greco, visto che siete in un liceo classico, alteseia – Lete è il fiume delle dimenticanza -, la memoria è il non dimenticare. La verità in Grecia coincideva inizialmente col non dimenticare quello che è successo. Erodoto scrive appunto la sua Storia per dire che vuol ricordare le gesta tanto dei Greci quanto dei Barbari. Soltanto che la storia, come potete vedere da quella stampa che rappresenta il Foro Romano, la nostra storia è piena di rovine. Sono più le lingue morte, le fedi ripudiate, le religioni e le forme politiche dimenticate di quanto non siano le lingue vive e le forme politiche e religiose esistenti. Quindi il mito è la possibilità, di tipo strumentale, che un certo gruppo si attribuisce per legittimarsi. Cioè io, ad esempio, se mi dichiaro discendente di un certo popolo, che è stato glorioso ai suoi tempi, posso crearmi un’identità. Ecco un esempio, fra i tanti, di miti: la processione che si fa, in occasione dell’ incoronazione della regina, a Westminster, che uno pensa sia del Medioevo, in realtà è soltanto dell’Ottocento. Lo storico ha appunto il compito di distinguere quella che è la verità, nei limiti in cui è accertabile, da quelli che sono i miti, che possono essere miti molto pericolosi, come il mito, ad esempio, della razza ariana, che nobilitava tutti i tedeschi, faceva dimenticare i conflitti all’interno della nazione tedesca e poneva le basi per uno sterminio.

STUDENTESSA: Analizzando questo dialogo che sta avvenendo fra noi, ho visto che, quando dovevamo, ad esempio, parlare di un tragedia – poteva essere l’Olocausto, i campi i concentramento anche in Siberia – però, per esempio, secondo me, dimentichiamo, tendiamo a dimenticare grandi tragedie, come possono essere anche gli esperimenti atomici, che gli Americani hanno fatto sugli Americani. Ci sono state persone, che hanno subito le radiazoni e sono state mutilate, nel tempo, di quasi tutti gli arti, fino morire. Cioè, a questo punto, siamo pronti per accettare l’Olocausto – cioè l’Olocausto, sì, è stato un qualcosa che è storicamente avvenuto, lo studiamo a scuola, i deportati in Siberia, sì, cioè ci sono stati, adesso li studiamo anche quelli -, però altre cose invece devono rimanere nell’omertà più assoluta. Un popolo che ha sperimentato armi di morte sul suo stesso popolo e non se ne parla.

Non se ne parla abbastanza, direi. E’ giusto quello che lei dice, bisognerebbe parlarne. Si sa che, per esempio, nelle zone desertiche del Nevada, dell’Arizona, dove sono stati fatti questi esperimenti, si è costituito un gruppo di persone, anche a livello legale, che sta cercando non solo di ricordare gli eventi, ma anche di avere dei risarcimenti. Ma ci sono tragedie di cui si parla poco, per esempio lo sterminio degli Armeni, che nel 1915, da parte della Turchia, ci son stati milioni e milioni di morti, così come forse non si parla abbastanza del problema curdo. Quindi la storia purtroppo è fatta di queste macroingiustizie e ogni popolo porta la sua croce. Il problema probabilmente non è soltanto però quello di ricordare il male che è stato fatto, ma di prendere le responsabilità ciascuno di noi per il passato. Cioè noi dobbiamo cercare di riscattare queste sofferenze nei limiti del possibile. Quindi la memoria dell’orrore deve trasformarsi non soltanto in un battersi il petto quando cioè succede, ma anche in una volontà di cambiare. E poi, voglio dire, ci son dei casi in cui il segreto, come gli esperimenti negli Stati Uniti, ha più facce. Ad esempio, il vero potere è quello che finge di non esistere. Quello, ad esempio, di fabbriche come ci son state a Est Chicago o a Geri negli Stati Uniti dove la U steel Corporation, che produce l’acciaio, ha inquinato il territorio per decenni, provocando dei tumori ai polmoni, pagando i medici e foraggiando i Consigli Comunali, in modo che per tanto tempo non si è saputo più niente, finché non è venuta fuori una campagna giornalistica, che ha denunciato la cosa e son stati presi gli opportuni provvedimenti. Però appunto un potere è tanto più forte quanto più è nascosto.

STUDENTESSA:
 Sì, però, secondo me, non c’è questo desiderio di cambiare. Anzi io vedo che la storia si ripete, ciclicamente, poprio come quel trenino, e le violenze che ci sono state durante la Seconda Guerra Mondiale si ripetono proprio nella storia. Cioè i nostri stessi soldati che in Somalia violentavano delle donne. Cioè queste, per me, sono cose atroci. Però ugualmente lasciamo fare, cioè, lo scandalo. Pensiamo che sia un qualcosa di terribile, però per due giorni, poi ce ne dimentichiamo e come bambini, andiamo a riscoprire nuovamente queste tragedie. Ma non cambiano, sono sempre quelle. Che sia stato l’olio di ricino dei fascisti, quando ne facevano bere bottiglioni alle donne, o che sia adesso un’arma, un elettrodo, usato per tortura, è solo un cambiamento di mezzi, ma la mentalità non è cambiata.

Forse la mentalità che è intrisa di violenza non cambia, cambiano le forme della violenza. In questo purtroppo la storia non è maestra di vita. Noi pensiamo che un insegnamento sia importante, ma la storia ci racconta queste vicende umane nella loro varietà. Quindi, quello che noi possiamo imparare dalla storia, soprattutto in un periodo in cui gli eventi si muovono velocemente, è di tener conto degli insegnamenti del passato, ma vedendo sempre come le cose si trasformano. Estirpare la violenza sembra difficile, così come estirpare la guerra, eppure, in gran parte, una grande vittoria è stata ottenuta, quando si è cancellata la schiavitù. La schiavitù sembrava una carattersitica eterna degli esseri umani, eppure tranne pochissime zone del mondo, oggi la schiavitù, non nel senso economico, ma nel senso personale, è scomparsa. Non ci sono medicine contro la violenza e, tutto sommato, i ragionamenti che si fanno, l’appello alla memoria, è semplicemente, ahimé, un cordone sanitario, però almeno quello non va abbandonato, cioè è un freno minimo, ma insomma è come cercare di frenare un jambo con un freno di bicicletta, però almeno quello cerchiamo di usarlo o ciascuno di noi di denunciare queste violenze e queste ingiustizie e di ricordarle.

STUDENTESSA: Professore, scusi, ritornando in ambito greco, dato che Lei aveva citato Erodoto, volevo chiederLe che cosa ne pensa dell’affermazione tucididea della storia come possesso perenne.

E’ bella questa affermazione. E’ bella nel senso che si strappa, al tempo e all’oblio, il ricordo di eventi che altrimenti, se non ci fossero pervenuti in questa forma scritta, per noi sarebbero perduti. Se voi pensate che la nostra storia e la storia del mondo, soprattutto dei popoli che non hanno scrittura, è dimenticata e la mettete davanti a questa potente narrazione di Tucidide, voi avete l’idea di come l’insegnamento della storia, anche se la storia non è maestra di vita, possa rimanere in noi. Se prendete, ad esempio, il Dialogo dei Meli, che è contenuto del V libro di Tucidide, voi potete vedere che queste ragioni della forza contro, diciamo, l’autonomia o la libertà degli uomini, della violenza contro l’innocenza, non sono state poi molto diverse da quelle che noi abbiamo vissuto nei scecoli successivi. Hobbes, ad esempio, che voi studiate a scuola, ha ripreso praticamente questo Dialogo dei Meli e ha trattato della natura della violenza che non trova ostacoli. “I popoli, gli individui sono come degli innocenti fiorellini – diceva Hegel -, che la storia calpesta”. Questo appunto è l’insegnamento terribile della storia, ma questo insegnamento va tenuto presente perché non è necessariamente un destino.

STUDENTESSA: Volevo chiederLe se, secondo Lei, è giusto che la storia, intesa come storia sociale, si proponga come interpetazione ufficiale della memoria di un popolo.

Ma io darei alla storia un significato un po’ più ampio. Cioè c’è la storia professionale degli storici – e deve esserci -, perché, per capire il passato e gli eventi ci vogliono determinate abilità, cioè per decifrare dei manoscritti, ad esempio, per non confondere un evento con un altro. Però esiste, per esempio, una branca attuale della storia, che è la storia orale, in cui ciascuno di noi viene intervistato da storici o lascia la sua testimonianza e ricostruisce il proprio passato. Cioè, in fondo noi pensiamo che la Storia sia qualcosa con la ‘S’ maiuscola, che non ci riguarda. Mentre invece la Storia è fatta di tante storie con la ‘s’ minuscola, se vogliamo, che è la storia di ciascuno di noi, senza la quale non ci sarebbe la Storia collettiva. Quindi la Storia collettiva è un’astrazione, un’astrazione non falsa. Vuol dire che è il risultato di tante azioni individuali, i cui risultati però non corrispondono alle nostre intenzioni. E’ un grande tema questo qua. Noi facciamo e i risultati del nostro agire sono il contrario di quello che vogliamo. Ad esempio in Cina, per millenni, si è fatta un tipo di coltivazione che portava via l’humus della superficie, così, quando pioveva, le piogge hanno eroso tutto quello che restava e molte regioni son diventate aride. Lo stesso succede attualmente in Brasile. I cercatori d’oro vanno là perché son dei disgraziati, dei poveracci, per trovar fortuna. Per lavorare quel poco oro che trovano si servono del mercurio, il mercurio va nei corsi d’acqua, Rio delle Amazzoni, e distrugge l’ambiente, oppure, per poter arrivare nelle zone più sperdute, danno fuoco alla foresta. Voi sapete che attualmente sta finendo di bruciare un superficie pari, grande come il Belgio, della foresta amazzonica. Quindi uno vuole una cosa e poi, non la Provvidenza forse, ma il concorso degli eventi, produce degli effetti inaspettati.

STUDENTESSA: Professore, nonostante per noi ricordare sia soprattutto ricordare delle tragedie, secondo Lei la nostra cultura, al giorno d’oggi, invidia qualcosa al passato?

La nostra cultura invidia, come tutte le culture, qualcosa al passato, perché il presente senza il passato e senza la prospettiva del futuro sarebbe una ben misera cosa, diciamo uno strato molto sottile. Noi non dobbiamo confondere l’idea del presente con l’attimo fuggente. Il presente in fondo è una dimensione da cui non ci spostiamo mai. Mentre io parlo sono sempre nel presente come lo ero prima e mi ricordo di ciò che ho detto, probabilmente, e lo sarò anche dopo come anticipazione. Quindi in realtà il nostro presente è tridimensionale: cioè è il presente del presente, il presente del passato, in quanto ricordo, e il presente del futuro, in quanto attesa. Quindi ogni civiltà, diciamo, non considerando il presente come attimo fuggente, ma come il nostro orizzonte, vive dentro un passato, ma vive anche dentro le aspettazioni del futuro. Cioè noi non possiamo ridurre il presente alla piattezza bidimensionale, cioè il presente che ha bisogno di un passato. C’è, per così dire, un passato irredento, che è come una molla compressa. Il futuro che, appunto, è paradossalmente contenuto nel passato, nel senso che il passato ci spinge per realizzare qualche cosa. E’ proprio come una molla compressa. Il futuro sta nel passato come la molla, quando ci teniamo le mani sopra, e, se noi la lascialmo andare, questi desideri del passato si proiettano verso il futuro. Detto in termini più semplici, noi non dobbiamo mai appiattire il tempo a una sola dimensione. La pienezza della nostra vita, la gioia anche, non soltanto la tragedia del passato, consiste nel rendere il passato fruttuoso per il nostro presente e nel considerarlo come “il sogno di una cosa”, avrebbe detto Marx, come l’aspettativa racchiusa nel passato, che ci apre le porte verso il futuro. Noi dobbiamo, cioè, vivere il passato non come semplicemente un magazzino in cui i nostri ricordi stanno nel tempo. Noi passiamo continuamente dalla dimensione di ciò che è stato a quella di ciò che sarà. Abbiamo bisogno nello stesso tempo di memoria e di oblio, perché dobbiamo ricordare il passato, se no non avremo identità, e dimenticarlo, se no non avremo apertura al nuovo.

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