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Il Vangelo secondo De André (Paolo Ghezzi, Ancora, 2006)

Dio

Siate figli del Padre vostro celeste,
che fa sorgere il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni.
(Matteo 5, 45)

 

Il Grande Spirito e gli idoli

Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo.

Qualcosa che dove siamo in eternità è un susseguirsi infinito di meraviglie e che in questa breve parentesi di penombra vive l’avventura di un figlio che si sacrifica per gli altri senza una ragione precisa.

Basterebbero queste due citazioni dell’autore per giustificare che qui si parli di «teologia» deandreiana. (Diversamente, De Gregori, che pure nomina spesso Dio e Gesù nelle sue canzoni, ha dichiarato in un’intervista del dicembre 2002: «Ho un rapporto di totale agnosi, non mi riesce di interrogarmi su Dio: così non ne teorizzo né l’esistenza né l’inesistenza. Non mi dico neppure ateo: sarebbe già esprimere una certezza».)

Per verificare se Dio (con la maiuscola e con la minuscola) sia o no un frequentatore assiduo dei testi di De André, ho fatto un computo statistico: vergognandomi un poco, di setacciare così le sue parole, non l’ho fatto col computer, ma sono andato a rileggermi, ancora una volta, tutti i testi in ordine cronologico, da Nuvole barocche fino a Smisurata preghiera. I miei segni a matita, e le somme poi fatte a mano, danno dunque questi risultati, suscettibili di dimenticanze e di errori, ma ciononostante eloquenti, perché FDA le misurava, le soppesava, le sceglieva le parole, prima di intrecciarle a una nota di spartito, e dunque la ricorrenza non può essere casuale.

Ebbene, se la parola più usata è amore nelle sue varie accezioni con 165 apparizioni in 128 canzoni – e questo può superficialmente suonare in linea con la tradizione della canzone italiana se non avessimo visto quanta passione e quanto non convenzionale coinvolgimento ci sia, dentro l’amore cantato da De André – la seconda e la terza voce di massima ricorrenza rivelano l’originalità dell’itinerario deandreiano e la sua distanza dal repertorio cantautorale standard. Troviamo infatti la morte o i verbi del morire (96 volte) e Dio (88 volte), in un testa a testa che denuncia la ricerca esistenziale dell’autore. Amore e morte, binomio romantico, ha la sua cittadinanza nell’opus deandreiano, ma il morire e l’appello a quel qualcosa (sarebbe troppo, per De André, dire apertis verbis «qualcuno») che chiamiamo Dio, dicono di un lungo interrogarsi sul senso della vita.

Nonostante la sua matrice anarchica, FDA non ha dedicato grandi sforzi alla contestazione esplicita dell’idea di Dio. C’è il Laudate hominem della Buona Novella, che ribalta la lode a Dio celebrando la libertà dell’uomo, e dichiara al tempo stesso che l’idea di Dio è una costruzione simbolica umana nel cui nome troppi innocenti sono stati uccisi. Ci sono i falsi dèi di Coda di lupo. Ma l’unica volta che si affronta programmaticamente il tema di Dio e dell’ateismo è nel Blasfemo dall’album di Spoon River.
Canta Bloyd:

E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio ma qualcuno che per noi l’ha inventato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.

«Lapidario, definitivo: si può dire che con questo verso Fabrizio concluda, una volta per tutte, il suo confronto con il Dio della religione cattolica», ha sentenziato Giuffrida, ma le cose, come abbiamo visto e come vedremo, non sono così nette e così semplici. In realtà De André, sicuramente estraneo a un orizzonte cattolico, prosegue la ricerca, la sua curiosità di Dio, il confronto non si è chiuso una volta per tutte. Rimane aperto.
Toni ben più drammatici ha invece – nel confronto col problema di Dio – la voce di Pier Paolo Pasolini, che nel 1958, mentre FDA esordiva su disco cantando «E fu la notte la notte per noi…», scriveva ne L’usignolo della Chiesa cattolica:

O immoto Dio che odio […]
Ti cancello da me,
e seguo il mio arbitrio.

Andate, Angeli, e dite al Signore
che al fulmine della sua redenzione
nascondo, ahimè, il bersaglio del mio cuore.

Pasolini è più violento di De André proprio perché è dentro la tradizione cattolica, come si osserva anche dall’uso di termini teologici (vedi la «redenzione») e il suo grido è quello dell’eretico che si sente tradito, dell’uomo che si estirpa a forza la fede, che sottrae il cuore al fulmine di Dio ma si fa sfuggire un «ahimè» che indica rimpianto e contraddizione, groviglio di emozioni.
Dio, peraltro, è nome e concetto all’insegna dell’ambiguità. L’elencazione dei «Dio» fasulli, falsi idoli si potrebbe dire con linguaggio biblico, che punteggia la canzone Coda di lupo come un ritornello, è una sorta di litania rovesciata, un invito a non professare la fede per divinità che non vogliono il bene dell’uomo. Il testo è del 1978, e in realtà è una canzone polemica e politica, incentrata sul conflitto fra l’estrema sinistra e il Partito comunista: il dio degli inglesi sono i valori della borghesia; il dio perdente è lo spauracchio agitato contro la ribellione giovanile; il dio goloso è quello che fagocita l’utopia dei partigiani; il dio della Scala è quello dei vip che si meritano le uova marce scagliate contro le pellicce della sera della Prima; il dio a lieto fine è quello che mette il bavaglio alle lotte sociali; il dio fatti il culo è quello del sindacalismo «moderato» (il riferimento preciso è a Lama contestato dal «movimento» all’università di Roma nel 1977) che predica i sacrifici alla classe operaia e agli studenti. Sintesi di tutti i falsi dèi, rimane un povero dio senza fiato.
Anche questo è un discorso «evangelico», in quanto Gesù è arrivato a correggere e in qualche caso a frustare il culto trasformato in idolatria, e a ribaltare l’immagine di Dio rispecchiata in molte pagine dell’Antico Testamento: un Dio vendicativo, collerico, spietato. Viceversa, il Dio del Nuovo Testamento è il Dio-amore, che rivoluziona l’approccio a Dio degli ebrei ma anche quello dei musulmani. Anche per il Corano, infatti, Dio invia il male e la sofferenza nel mondo per punire il peccato e nulla accade che Lui non voglia, perché Lui è il Signore della storia.
Come ha argomentato nel suo intensissimo libro Il dolore innocente il teologo Vito Mancuso,

il Dio cristiano non è la controparte cui chiedere spiegazioni o rendiconti; Dio, quando c’è di mezzo un uomo che soffre, è dalla sua parte, perché quella sofferenza manifesta la stessa sofferenza del Padre che donò, e continuamente dona, il Figlio al mondo degli uomini.

E dopo aver sostenuto che «l’Agnello [simbolo biblico di Cristo] è sgozzato dalla fondazione del mondo», Mancuso aggiunge, dando ragione per certi versi all’eresia deandreiana:

In realtà Cristo non agì mai, nella sua vita terrena, come Dio, ma sempre e solo come Dio incarnato, come Dio diventato uomo. […] I miracoli sono l’attestazione della dimensione divina presente nell’uomo, non dell’azione di Dio nel mondo fisico. Dio, Dio Padre, è assente. È l’assente. A Cristo, del resto, non fu concesso alcun miracolo quando venne inchiodato alla croce.

Per poter accettare il «dolore innocente» come quello di milioni di bambini handicappati, e contemporaneamente affermare la realtà di Dio-amore, Mancuso trova una strada sola:

Occorre affermare il distacco di Dio dalla sfera naturale. Dio non agisce nella natura ma solo nella dimensione dello spirito.

La «soluzione» teologica di Mancuso è dunque il cristianesimo follia per il mondo, la fede svuotata dai suoi orpelli e ritrovata nello svuotamento dell’amore divino, l’accettare che credere sia un mistero notturno e indicibile, il cimentarsi con la via negativa, con il martirio, per ritrovare solo in Cristo la porta d’uscita:

Gli uomini non hanno una vita che abbia in sé un senso compiuto […] però possono dare alla vita che hanno avuto in sorte un significato. Possono cioè renderla segno, rimando a qualcos’altro.

Per il teologo cristiano e «notturno», questo qualcosa è l’Agnello immolato dalla fondazione del mondo; per il cantautore anarchico e «notturno», è «l’avventura di un figlio che si sacrifica per gli altri nella penombra», e insieme è la libertà, l’utopia della fraternità, uno Spirito superiore che «provi» a superare le insormontabili contraddizioni del vivere, a rimettere a posto i frammenti delle esistenze umane e del loro significato.
Entrambi non sanno che farsene del «Dio tappabuchi» criticato dal grande pastore evangelico Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza al nazismo, e sostenitore della «debolezza» di Dio che si fa compagno della sofferenza dell’uomo.
La debolezza di Dio è l’essere di Dio nel mondo. Ciò significa che Dio entra nella storia rovesciando le categorie dominanti. «Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo» (Alberto Conci, Dietrich Bonhoeffer. La responsabilità della pace).
Non nominare il nome di Dio invano: il comandamento biblico resta sullo sfondo di queste riflessioni. Troppe volte nella storia quel nome è stato utilizzato per legittimare violenze e soprusi, o nascondere nefandezze, e qui la critica di FDA è radicale, indignata, anche collerica. Una collera che peraltro nell’Antico Testamento è indicata come caratteristica del Dio vero degli ebrei e che ritroviamo in Mosè contro il vitello d’oro adorato come divinità:

Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò via le tavole spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello d’oro che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti (Esodo 32, 19-20);

e nello stesso Gesù contro i mercanti nel tempio di Gerusalemme:

Gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato» (Giovanni 2, 15-16).

E in Creuza de Mä:

Umbre de muri muri de mainé
dunde ne vegnì duve l’è ch’ané
da ’n scitu duve a l’ûn-a a se mustra nûa
e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua
e a muntä l’àse gh’é restou Diu
u Diàu l’é in çë e u s’è gh’è faetu u nìu.

[Ombre di facce facce di marinai
da dove venite dov’è che andate
da un posto dove la luna si mostra nuda
e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
e a montare l’asino c’è rimasto Dio
il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido]

Un moralista e i preti

Il problema dell’esistenza di Dio non è secondario neppure nell’unico romanzo scritto da De André (insieme ad Alessandro Gennari): Un destino ridicolo. Una vicenda complicata e beffarda, a scatole cinesi, un finale a sorpresa che getta nuova luce sull’inizio del libro, un gioco di specchi e di rimandi. Qui non c’è lo spazio, né è il caso, di riassumerne la trama. Va sottolineato però che il romanzo si apre e si chiude in uno scompartimento ferroviario in Sardegna con la figura di un sacerdote, prima vero e poi finto, in un travestimento di carnevale, e che questa presenza consente agli autori di impostare il tema del rapporto tra Dio e l’uomo, e del ruolo di Dio nella storia.
C’è un medico che espone il punto di vista razionalistico, presumibilmente condiviso in buona parte dallo stesso FDA:

Non mi fraintenda, padre – disse il medico –, io ho un profondo rispetto per il Vangelo e per tutte le cose buone che insegna. Ma se devo dirle quel che penso, le parti più realistiche mi sembrano tristi, pessimiste e anche rinunciatarie. E gli episodi più felici, come la risurrezione, il paradiso e i miracoli, sono altamente improbabili alla luce del senso comune e della ragione. […] Insomma, io di gente morire nella sofferenza ne ho vista tanta e continuo a vederne, quasi ogni giorno. Ma risurrezioni, moltiplicazioni di oggetti o altri eventi miracolosi, non ne ho veduti mai. […] E badi che provo per le persone che hanno fede un sentimento di ammirazione e di invidia, perché se credessi in un’altra vita farei meno fatica a sopportare questa.

Ammirazione e invidia anche dell’uomo De André oltre che del suo medico letterario? È possibile. C’è, in quel dialogo sul treno, il tema della provvidenza e del destino. Viene posto l’interrogativo sulla presenza di «forze misteriose» che indirizzano la vita degli uomini.
Il finale del Destino ridicolo è giocato sul registro della commedia picaresca: il finto prete di carnevale, un uomo che stava per farla finita sommerso dai debiti e dalle preoccupazioni per la sua famiglia, raccoglie in treno la confessione di un assassino che, ad espiazione, gli offre una valigetta piena di soldi, frutto di un antico colpo finito nel sangue.
Ma anche qui, al di là dell’espediente narrativo che spiazza il lettore e si riannoda alla scena iniziale, le parole del finto prete all’assassino affrontano il tema del male e della colpa, dei valori sociali e del rapporto tra Dio e mondo, con argomentazioni tutt’altro che banali:

È vero che hai sbagliato, ma la colpa non è soltanto tua. Sei cresciuto in un mondo nel quale i soldi sono considerati la divinità suprema che può trasformare d’incanto la vita in un paradiso, la chiave per soddisfare tutti i desideri, per superare ogni difficoltà. È quello che sei stato costretto a credere fin da bambino, come tutti noi che stiamo attraversando questo secolo bugiardo. Pensa a quanto denaro viene gettato ogni giorno nel gioco, nella lotteria, nel totocalcio. Sai perché? Perché alla gente non piace vivere. Sogna il colpo grosso come un’occasione per uscire dalla vita prima che finisca, con l’illusione di cancellare d’un tratto tutti gli inconvenienti, le contrarietà e le fatiche. Ma è un inganno. Perché Dio ha voluto che su questa terra ci fossero bianco e nero, chiaro e scuro, bene e male. Se non fuggiamo le avversità e accettiamo di affrontare anche quello che fa paura, prima o poi il miracolo si manifesta e allora scopriamo che la difficoltà può trasformarsi in un’occasione, che i problemi sembravano insormontabili perché venivano rimandati e si accumulavano nella pigrizia e nell’avidità.

Sarà anche blasfema la finta assoluzione finale, ma il risultato dell’incontro, del ridicolo destino dei due personaggi, è un doppio miracolo vero: l’assassino, che ha perso un figlio giovane sulla «cattiva strada», e che ha chiesto sincero il perdono di Dio, si libera del suo iniquo bottino e si libera dall’oppressione della colpa; il finto prete incassa la valigetta col denaro che «provvidenzialmente» gli consente di continuare a vivere e di salvare la sua famiglia. È una piccola parabola, che va inserita a pieno titolo nel «Vangelo secondo De André».
Giorgio Gallione, il regista della versione teatrale della Buona Novella, che ha girato l’Italia grazie al Teatro dell’Archivolto dopo la morte di De André, ha scritto:

Si arriva al paradosso che le parole e i temi giudicati blasfemi ad esempio dalla Rai (che censurò ed escluse dalla programmazione La Buona Novella) diventano motivo di interesse per teologi ed ecclesiastici, che cominciano ad invitare Fabrizio a incontri e convegni, curiosi di scoprire nell’irriducibile cavaliere libertario, ateo, dissacratore un così particolare cantore di un Dio umanissimo, ben distante dagli altari e dagli ori. Ma io – disse FDA – cosa ne sapevo di teologia? Rifiutai gli inviti, perché non avrei saputo che cosa rispondere ai loro dotti quesiti.

Affermazione da leggere insieme a quest’altra:

Io sono un moralista. Quindi penso che il fine della canzone sia quello, se non proprio di insegnare, almeno di indicare delle strade da seguire, dei codici di comportamento.

«Un grande moralista camuffato da immoralista», l’ha definito Cesare G. Romana. Una formula alla Nietzsche.
E un altro che l’ha conosciuto e l’ha studiato, il giornalista e saggista controcorrente Romano Giuffrida, ha dovuto ammettere:

Certo, con Preghiera in gennaio mi ero accorto che qualcosa mi sfuggiva. Un altro aspetto di quella canzone, oltre a quello di cantare i suicidi, mi aveva colpito, ossia l’interlocutore ideale che Fabrizio si era scelto: Dio. Che strano, mi dico: battone, puttane e poi Dio. E che Dio: un Dio con il quale parlare a tu per tu («lascia che sia fiorito», «a te la sua anima», «quando verrà al tuo cielo», ecc.) e dal quale si presume non solo che si possa venire ascoltati ma, addirittura, con il quale avere tale confidenza da poter dare consigli: «ascolta la sua voce … vedrai sarai contento». […] Verrò a sapere solo tempo dopo che, in realtà, il libertarismo di Fabrizio, in quel tempo, risuonava all’unisono – naturalmente da sponde diverse – con il desiderio di rinnovamento che stava investendo la Chiesa a partire dal dopoguerra e, in modo particolare, dal pontificato di Giovanni XXIII.

Non aveva un gran rapporto con i ministri di Dio, che considerava membri di un’organizzazione «mafiosa», come ogni istituzione che si autoconserva. Se si escludono la testimonianza del suo ex catechista al liceo, don Giacomino Piana (che raccontò come, un mercoledì santo prima delle vacanze pasquali, il giovane Fabrizio rimase molto colpito da una lezione di religione sulle morti di Socrate e Cristo), l’affetto di don Gallo e la bella predica di don Balletto ai suoi funerali, non sono rimaste significative testimonianze di relazioni profonde tra De André e i preti, per i quali non ha mai dimostrato particolare simpatia (ebbe una brutta esperienza alla scuola elementare, con un sacerdote che allungò le mani): fanno eccezione il parroco di Sant’Ilario che porta in processione la Vergine ma non esclude Bocca di Rosa, e il prete dell’inizio del romanzo e il finto prete del finale.

Ho scritto il disco sui Vangeli apocrifi – disse FDA – per liberarmi. Ritengo che tutte le Chiese siano organizzazioni di potere; non hanno mai unito i popoli ma li hanno divisi.

E la scelta, per il doppio disco dal vivo del 1991 prodotto con Mauro Pagani che conteneva i brani delle Nuvole e di Creuza de Mä, di mettere in copertina un Pulcinella, evocava una sarcastica pagina di Diderot, riferita a un episodio del Settecento, in piazza San Marco: da una parte il carnevale popolare con Pulcinella, dall’altra i preti che volevano trascinare la gente al loro seguito e che allora decisero di passare al contrattacco levando alto un Crocifisso ed esclamando a gran voce: «Quel Pulcinella è uno sciocco, questo è il vero, il grande Pulcinella».
Più dimestichezza con il clero, e più simpatia per quello non conformista, aveva Brassens, che cantava nelle Trombe della notorietà:

Il cielo sia lodato: ho un’intesa eccellente
con il Padre Duval, la calotta cantante.
Catecumeno lui, energumeno io,
lui mi fa dire merda io lo lascio lodar Dio.

Fanatico anticlericale,
e mangiapreti eccezionale,
mi costa questa confessione,
ma tra i preti ne ho trovati dei buoni,
ahimè, non fanno tutti schifo
e il nostro parroco è un bel tipo.

La canzone La messe au pendu (La messa per l’impiccato) racconta di un prete che ha avuto il coraggio di benedire il corpo di un condannato a morte, pieno di sacro furore contro la pena capitale.
Non solo, l’anarchico Brassens interviene perfino, per ragioni musical-estetiche ma con toni da restauratore lefebvriano, nelle scelte liturgiche del Vaticano II, in particolare su quella di abbandonare il latino per le lingue parlate (un problema che sicuramente non ha mai sfiorato FDA):

L’acquasantiera è in tempesta.
Il papa con i vescovi
e tutti gli arcivescovi
ci han rovinato la festa.

Non sanno cosa si perdono
queste fottute calotte,
non sanno che senza il latino
la messa ci rompe un casino.

Riguardo a Brassens, De André ne era entusiasta anche per la sua origine napoletana per parte di madre.

Mamma Elvira Dragosa – spiega Federico Vacalebre nel suo libro De André e Napoli – figlia di un bracciante che aveva lasciato la sua Napoli (Georges la citerà in Le modeste, mentre in Maman, papa rievocherà i «ritornelli affascinanti» della genitrice) in cerca di fortuna, svezza il piccolo Georges cantando. La donna fece infatti di tutto per trasmettere due cose al figlioletto: la sua religiosità, in cui al cattolicesimo si sovrapponevano riti pagani e pratiche superstiziose, e il suo amore per il canto. La prima missione andò fallita, anche se i cattolici di Francia continuano a chiamare fratello l’ateo Brassens. La seconda invece…

Destini comuni, dunque, anche post mortem, per i due grandi anarchici cantori…
Le altre allusioni a Dio, nelle canzoni di De André, sono invece legate all’evocazione di una presenza, di uno sguardo altro/alto a cui ci si rivolge per meglio comprendere (o anche solo contemplare) gli snodi spesso dolorosi della vita umana.

Con la gioia di vivere e il sentimento di morte che si portava dietro – scrive Alfredo Franchini – Fabrizio finiva, infatti, per precludersi ogni felicità. Era ateo Fabrizio, ma con un’enorme spiritualità: vedeva un’anima in tutto quello che c’era sotto i suoi occhi, in tutto ciò che toccava. Come sosteneva Bacon «l’ateismo è più sulle labbra che nel cuore dell’uomo».

Non era ateo, ci permettiamo di ripetere, perché – come già sottolineato – De André non aveva nulla del dogmatismo anti-deista dell’ateo privo di dubbi. Con il cercatore di Dio, che solo in parte era, condivideva la sofferenza per l’ingiustizia del mondo e l’insofferenza per le certezze arroganti di una religione autosufficiente. Si può comprendere meglio la «strada» di De André, forse, sullo sfondo del pensiero pascaliano: «Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista» e considerando la lezione dei grandi mistici come Meister Eckhart, che L. Cognet ha riassunto così:

Il disegno ben definito di Dio è che l’anima perda Dio. In effetti, finché l’anima ha ancora un Dio, conosce un Dio, ha la nozione di un Dio, è ancora lontana da Dio. Perciò è desiderio formale di Dio annientarsi nell’anima, perché l’anima perda se stessa. […] E il più grande onore che l’anima possa fare a Dio è abbandonarlo a se stesso e liberarsi di lui.

È una presenza misteriosa, non canonica, quella di Dio nelle canzoni di De André, ma è una presenza che non passa inosservata. Se si abbina al dichiarato «animismo» dell’autore e alle numerosissime citazioni di vento e cielo, come interlocutori naturali ma indefinibili, non inscatolabili, insomma trascendenti, rispetto agli esseri umani, ci ritroviamo molto vicini a quel che David Maria Turoldo, uno dei più grandi lirici credenti del Novecento, pensava a proposito della poesia e di chi la scrive. Il vero poeta, sosteneva Turoldo, è colui che si mette «in ascolto del sospiro di Dio nell’alito del vento»; poeta è un «uomo in ascolto di ogni voce; in ascolto soprattutto dei silenzi di Dio». Una sera, in uno dei suoi ultimi concerti, De André disse:

C’è gente che non riesce a tenersi compagnia. Ma il silenzio non è un orrore. In una notte come questa, possiamo ascoltare mille voci dell’universo. E scoprire che il silenzio è meraviglioso…

 

 

Il Vangelo secondo De André | Paolo Ghezzi | Ancora | 2006 | pagine 208 | euro 15,00