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Katniss, per evadere dall’eterna ripetizione di noi

«Tutti vorranno baciarti, ucciderti oppure essere te» dice Effie a Katniss, la protagonista di Hunger Games, mentre si prova i vestiti da battaglia che ha disegnato per lei Cinna, ormai già morto. Siamo all’inizio della terza puntata della saga, mentre Katniss deve decidere se diventare il volto della rivoluzione, come le chiede la presidentessa Coin. E questo è un momento fondamentale per capire come mai il collettivo filosofico Che Vuoi ha scelto di dedicarle un intero libro Katniss, la macchina delle emozioni  prendendo in esame un oggetto culturale di massa con le lenti della filosofia, per provare a raccontarci cosa dice di noi e dei nostri tempi la (nostra) grande passione per Hunger Games.

Il mondo di Hunger Games (per chi si fosse perso sia i libri che i film) è un mondo distopico che descrive Panem, una società divisa in 12 distretti dominati dal distretto 1, Capitol City, che ogni anno organizza una nuova edizione degli Hunger Games: un’arena ogni volta diversa, due tributi scelti tramite sorteggio da ogni distretto, un maschio e una femmina, che si combattono fino alla morte per decretare un/una vincitrice – l’unico o l’unica sopravvissuta. Questi giochi intrattengono i distretti più ricchi e tengono sotto controllo gli altri: nascono, infatti, per commemorare una ribellione di 74 anni prima dell’inizio della saga che ha portato alla distruzione (apparente) del distretto 13. Un mondo hobbesiano, in cui il sovrano, il presidente Snow, governa ricordando ogni anno che il ritorno allo stato di natura è sempre possibile e che ogni ribellione apre ad un tempo in cui la guerra di tutti contro tutti trasforma l’essere umano in lupo per gli altri. Gli Hunger Games non sono altro che questo: uno stato di natura tecnologicamente riprodotto per mantenere viva la paura che tiene unito lo stato.

Katniss è la protagonista di questo mondo dal momento in cui decide di offrirsi volontaria per gli Hunger Games per evitare che debba andarci sua sorella Primrose, più piccola e indifesa. La scena in cui Katniss fa un passo avanti per sussurrare prima e urlare poi la sua scelta viene riprodotta milioni di volte nel corso della saga, sia dai maxischermi di Capitol City che da quelli dei ribelli asserragliati nel sottosuolo del distrutto distretto 13. Per Che Vuoi quello è il momento in cui Katniss si fa soggetto: heideggerianamente sceglie il suo “essere per la morte”, abbandonando il mondo naturale del distretto 12 per gettarsi nella natura artificiale dell’arena dei settantaquattresimi Hunger Games. Ma questo è anche il momento in cui viene riconosciuto il potere di Katniss: lei produce emozioni. Non ha talenti, se non quello di tirare con l’arco, ma è capace di trovare i tempi, i toni e i ritmi giusti perché chi la guarda si identifichi con lei, siano questi gli sponsor del distretto 1 che le possono mandare doni fondamentali dell’arena o i ribelli che hanno bisogno di incoraggiamento.

Per Che Vuoi il mondo di Katniss è generato da quello che Lacan ha chiamato lo stadio dello specchio, in cui il soggetto si riduce alla sua frammentazioni in immagini fantasmatiche di un altro che non è altro che la ripetizione di sé. Le immagini di Katniss vengono proiettate in continuazione, sia da Capitol City che dai ribelli, rilanciate in infiniti schermi, in infinite superfici riflettenti, in cui Katniss stessa si guarda, si scruta, si osserva. In questo stadio, però, ogni figura ci guarda e parla costantemente di noi, gli altri diventano pezzi e parti di me in cui osservarmi, proprio come in uno specchio, ma in infiniti frammenti, senza possibilità di ricomposizione. Che Vuoi ci dice: “Gli Hunger Games sono l’epopea dei feed, in cui le nostre immagini ci ritornano da ogni lato e non se ne vanno più”, il mondo di Katniss non è altro che il nostro, in cui l’algoritmo di Facebook non fa che rimandarci ciò che ci piace, ciò che già siamo, altri che rappresentano facce di noi, mentre continuiamo a vedere la nostra immagine tra un tag e un commento. Che Vuoi aggiunge, però, che questo mondo è dominato dall’apparato di godimento, la struttura sulla quale funziona il distretto 1 che detta legge in tutti i distretti. Specchi e godimento, una trappola quasi infernale di ripetizione costante dell’identico.

Nel terzo capitolo della saga, ancora nel momento cruciale in cui Katniss deve scegliere se diventare davvero la ghiandaia imitatrice, Finnick, un altro dei tributi, un altro dei frammenti di Katniss, le dice: «È mille volte più difficile rimettere insieme i pezzi che andare in frantumi», proprio poco prima di prestarsi anche lui a diventare per un momento il volto della ribellione. Ecco, secondo Che Vuoi, Katniss rimette insieme i pezzi: attraverso l’identificazione in lei riusciamo a imbrigliare la molteplicità, a ricomporre la frammentazione, ad avvicinarci a Hegel e al suo movimento di riconoscimento. Katniss, secondo Che Vuoi, è un’allegoria che non padroneggia nessun registro simbolico, ma che vive nell’immaginario e che allo stesso tempo è ancorata alla materia: non è un simbolo di perfezione, ma una “pornostar che uccide guardando in macchina” (per usare le parole di Che Vuoi), una ragazza delle periferie che sta dentro le regole del gioco, si fa vestire e truccare, ma riesce a evitare la ripetizione, scegliendo la lontananza e l’allegoria. Katniss è la possibilità che la macchina della ripetizione si inceppi: non è un’eroina, ma una fanciulla in fiore, che attraversa specchi e godimento mantenendo uno sguardo trasparente.

Katniss, guardaci come siamo finite
Katniss, la distanza che ci separa dai cani ogm che ci inseguono è minima
Katniss, quando saremo due vecchie pornostar, ci saranno caduti i denti. Ma è probabile che i giochi ci pensino prima
Katniss, gli Hunger Games sono come tutte le fiere, bisogna sorridere
Katniss, può essere che correndo nella giungla di telecamere con il perizoma, l’arco e le frecce, vedremo mai altro che il recinto elettrificato che ci circonda
Katniss, sei così bella
Katniss, tutti i nostri clienti, cosa vuoi, è la zona uno. Ma sì, lo so che una, crescendo nelle periferie inquinate del distretto dodici, pensa che nella zona uno facciano chissà quali riti esoterici, e invece guardali, sono solo i nostri clienti
Katniss, dobbiamo girare lo spot della rivoluzione, ci hanno prese nel commerciale, perché più che una televendita, non è nelle nostre corde dicono
Katniss, sei così piena di automatismi, che sembri una divinità indiana
Katniss, piccola Brunilde senza Wotan
Katniss, tutta bruciacchiata
Katniss, i nostri amici muoiono e finiscono proiettati sul cielo livido e grottesco sopra di noi, e io mi sento sola
Katniss, non è una stupida parodia questa, ma la nostra vita!
(prologo di Katniss, la macchina delle emozioni)

In questa trappola della ripetizione e nella speranza di evadervi il mondo di Katniss e il nostro si confondono, così come sfumano, in entrambi, i confini tra realtà e finzione, tra virtuale e materico: negli Hunger Games è tutto finto, anche la natura e lo spazio fisico sono riprodotti grazie alla tecnologia e a dei reticolati invisibili, ma allo stesso tempo sono realissimi per chi ci sta dentro. Significativamente, in un gioco ancora una volta di specchi, il mondo di Hunger Games travalica i confini della finzione per entrare nel nostro mondo, come nel caso della Thailandia, in cui i militari, dopo il colpo di stato dell’estate 2013, hanno vietato il gesto della ghiandaia imitatrice, le tre dita levate al cielo, che caratterizza la ribellione nel mondo di Katniss, ma che era usato da oppositori reali che ora rischiano, nel farlo, un realissimo carcere.

Al di là di questi esempi estremi, però, Katniss di Che Vuoi può essere letta come un’allegoria del nostro tempo che ci aiuta a emergere dal cerchio della ripetizione e osservare il reticolato che dà forma al nostro mondo.