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Come è cambiata la nostra lingua (letteraria)

Se volete avere un’idea di come è cambiata la nostra lingua (letteraria) in cinquant’anni rileggetevi Il giovane Holden: il romanzo più veloce del dopoguerra, senza il quale non solo molta letteratura americana ma anche certa narrativa italiana, forse, non sarebbe esistita così com’è. Non per i contenuti, ovviamente, ma per lo stile. Leggetelo però non nella nuova traduzione di Matteo Colombo, uscita da poco per Einaudi, ma in quella che probabilmente avete sui vostri scaffali da qualche parte, pubblicata sempre da Einaudi nel 1961. Aprite e leggete. Dopo un po’, inevitabilmente, comincerete a ballare sulla sedia. Il fatto che Holden vi voglia raccontare la sua infanzia schifa, che descriva il suo professore di storia come un vecchio bacucco che può andare in sollucchero per una coperta, che dica io me ne infischio, che massacri una canzone facendone uno spicinio, dopo un po’ vi sembrerà finto, artificioso: letterario. Che è proprio quello che Holden combatte, con quel modo di raccontare sempre in anticipo sul lettore. Non è colpa della traduzione di Adriana Motti, ovviamente: una traduzione bellissima, gloriosa, con un equilibrio e un senso dell’azzardo linguistico notevole per i tempi. Per dire: usa merdate che, più di dieci anni dopo, il Grande dizionario della lingua italiana documenta ancora con un’isolata citazione cinquecentesca, come un fossile della lingua, mentre è chiaro che circolava già. Non è tanto una questione di singole parole ma soprattutto di ritmo, cioè di sintassi. E in questo il lavoro che Matteo Colombo ha fatto nella sua nuova traduzione è eccellente. Quando ho iniziato a rileggere Holden per scrivere questo articolo non me ne sono più staccato. È l’energia di Salinger, ovvio. Ma gestire quell’energia è una cosa difficilissima. Gestirla senza farla sembrare falsa. Nei dialoghi, negli scarti del ragionamento, nei continui cambiamenti di umore e di tono. Difficilissimo. Perché nulla invecchia più facilmente del linguaggio giovanile, soprattutto adesso che il linguaggio giovanile, in letteratura, è tutto fuorché una novità. Lo sforzo di Colombo dev’essere stato opposto a quello fatto da Adriana Motti: se lei doveva superare la lingua letteraria che aveva intorno, forzarla fino al massimo della sua elasticità per rendere qualcosa di stilisticamente nuovo, Colombo ha dovuto fare l’inverso: riportarla indietro, evitare gli scimmiottamenti linguistici superficiali, secondari, effimeri (per intenderci: grafie abnormi, eccesso di parolacce, anacoluti troppo esibiti, eccetera) cercando di conservare solo l’energia. Lavorando sui tempi verbali (il passato prossimo invece del passato remoto), muovendo la sintassi attraverso le messe in rilievo: «Riusciva veramente a massacrarle le canzoni», «A me piace andare nei posti dove almeno qualche ragazza la vedi». È così che la lingua di Holden suona come suona, oggi, quella di Nathan Zuckerman. Solo che Salinger suonava così già prima di Roth.

La nuova traduzione di Holden non è qualcosa di isolato. Negli ultimi anni ritradurre i classici è diventata una tendenza editoriale. Con veri e propri eventi: La montagna magica di Thomas Mann tradotta da Renata Colorni. Ulysses tradotto da Celati. Ora Holden tradotto da Colombo. Non è un fenomeno solo italiano: la Penguin, in Inghilterra, sta traducendo di nuovo tutto Simenon. Ma è significativo che una casa editrice come l’Einaudi abbia varato addirittura una collana – le grandi traduzioni – in cui sono uscite fino a ora nuove versioni di Delitto e castigo, Il rosso e il nero, Il conte di Montecristo; arriveranno presto Stevenson, Tolstoj e altri.

È chiaro: le traduzioni invecchiano perché noi ringiovaniamo sempre. La lingua che abbiamo intorno si trasforma. Il nostro gusto cambia. Apro Delitto e castigo nella nuova traduzione di Emanuela Guercetti. Nella prima pagina lo scarto rispetto alla precedente di Alfredo Polledro (1947) è fatto di dettagli. «La stanzuccia di lui veniva a trovarsi proprio sotto il tetto d’un alto casamento a cinque piani» diventa: «L’abbaino si trovava proprio sotto il tetto d’un alto palazzo di cinque piani». Poche righe sotto: «non che egli fosse tanto pauroso e avvilito» diventa «non che fosse così pauroso e intimidito». Come nella moda: non è una questione di stoffa ma di taglio. Quella stanzuccia di lui, quell’egli esplicitato ci suonano oggi molto scritti, troppo scritti. È che nel mezzo secolo che abbiamo alle spalle si è compiuta una mutazione di paradigma: il divario tra lingua scritta e lingua parlata si è assottigliato; la letteratura ha smesso definitivamente di essere un modello e si è sempre di più contaminata con altre forme. Se per i nostri nonni parlare come un libro stampato era un complimento, oggi è quasi un’offesa. La nuova collana einaudiana è un’operazione importante soprattutto per questo, mi pare. Perché coglie un invecchiamento nella lingua di classici meno esposti, in cui lo stacco è meno evidente. Non ci stupisce che la lingua giovanile di Holden invecchi rapidamente; ma dare una voce nuova a Raskòl’nikov, a Julien Sorel, a Dantès, beh, questo è del tutto diverso. È manutenzione della cultura: pulitura delle incrostazioni, controllo della tensione, sostituzione dei pezzi invecchiati.

Ci si può chiedere quanto tutto questo sia legato a un altro fenomeno editoriale di questi anni, ossia le traduzioni dei classici italiani in italiano moderno: Boccaccio, Machiavelli, Castiglione, eccetera. In entrambi i casi l’obiettivo sembra essere quello di azzerare la distanza tra la lingua del lettore e quella del libro. Una sorta di neutralizzazione della stratificazione culturale. È possibile che qualche elemento comune ci sia ma gli effetti sono drasticamente diversi. In un caso – per così dire – si sostituisce una copia con una copia. Nel secondo si sostituisce un originale con una copia. Che può anche andare bene. Basta sapere che cosa si perde.