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Carmen Balcells, o l’arte di inventare gli scrittori sudamericani

Mario Vargas Llosa arrivò per la prima volta a Barcellona in nave un sabato estivo del 1958, che non aveva ancora trent’anni. Partito da Lima in una cabina di terza classe, aveva fatto scalo a Rio de Janeiro e Lisbona e diciotto giorni dopo si era ritrovato, non appena oltrepassata la statua dedicata a Cristoforo Colombo, a passeggiare lungo la Rambla, con in mano il libro che più lo aveva emozionato durante la traversata: Omaggio alla Catalogna di Orwell. Si fermò in città una notte soltanto, prima di ripartire per Madrid. Ma una decina di anni più tardi, quando Barcellona aveva preso il posto di Buenos Aires come capitale letteraria dell’America Latina, lo scrittore peruviano decise che era il giunto il momento di fare ritorno in quella città «bellissima e turbolenta». Non sarebbe stato da solo.

Julio Cortázar all’epoca era di stanza a Parigi, ma andava frequentemente a Barcellona, alla affannosa ricerca di bar dove perdersi; Sergio Pitol arrivò in città nel 1969 con un treno proveniente da Belgrado e un lavoro come traduttore presso la raffinata casa editrice Seix Barral, del leggendario Carlos Barral. Anche José Donoso, sul finire dei Sessanta, fece il suo ingresso a Barcellona in nave, proveniente da Marbella, in compagnia della moglie Maria Pilar e della figlia adottiva Pilarcita, che in seguito scriverà cose spregevoli sul conto del padre. Ad attenderli in città trovarono un certo Gabriel García Márquez, che si era trasferito a Barcellona nel 1967, subito dopo aver pubblicato, in Argentina, il suo quinto romanzo, quel Cent’anni di solitudine che avrebbe esportato in tutto il globo il realismo magico e trasformato il romanziere colombiano nel principale esponente del boom letterario latino-americano. «Giovani scrittori di tutti i Paesi venivano a Barcellona con il sogno di trionfare», ricorda Mario Vargas Llosa, nel libro del giornalista spagnolo Xavi Ayén, Aquellos años del boom, «le case editrici permettevano di raggiungere un pubblico più ampio di quelle dei nostri Paesi d’origine, il clima era esaltante, il luogo mitologico, non c’è dubbio che il boom sia nato a Barcellona». La Madrid franchista, quel «pueblo a nord di Toledo», secondo la sprezzante definizione di Barral, era lontanissima.

Chi certamente approfittò di quella congiunzione astrale favorevole contribuendo in maniera determinante alla costruzione di uno dei più famosi fenomeni letterari del Novecento fu Carmen Balcells, una ragazza catalana che era nata in un minuscolo villaggio a nord di Barcellona, aveva studiato da perito commerciale e mai avrebbe immaginato di ritrovarsi, a metà degli anni Cinquanta, a iniziare il mestiere allora non così comune di agente letterario. Prima nell’agenzia di un fuoriuscito scrittore rumeno, Vintilă Horia, che nel 1960 vinse il premio Goncourt e cercò fortuna a Parigi, e poi nella casa editrice Seix Barral, dove scoprì rapidamente che un agente letterario non poteva assolutamente lavorare a fianco dell’editore, ma in frente. «Carmen, con l’insolenza che sempre l’ha caratterizzata», racconta Vargas Llosa nel documentario La cláusula Balcells, uscito il mese scorso in Spagna nel primo anniversario della sua scomparsa, «si recò dall’editore e gli disse che non avrebbe più potuto lavorare per lui, semmai contro. Quel giorno cambiò la mia vita e quella di decine di scrittori in lingua spagnola».

Irruente nel temperamento, capace di sbalzi di umore che mettevano in soggezione gli interlocutori, intrattabile quando si trattava di negoziare, con una particolare fascinazione per il denaro, Carmen aprì la sua agenzia nel 1960 e ben presto rivoluzionò il rapporto tra editori e scrittori, liberando questi ultimi da una patriarcale condizione di schiavitù. Introdusse limiti temporali, e volte geografici, nei contratti, le royalty nelle traduzioni e persino il controllo delle tirature. «Finché non è arrivata lei», sintetizzò una volta Manuel Vázquez Montalbán, «gli scrittori firmavano contratti a vita con gli editori, percepivano compensi miserevoli e a volte, come premio, ricevevano un maglione o un formaggio Stilton».

Si dice non possedesse alcun metodo speciale per cogliere la potenzialità di un testo, ma, al contrario, aveva «un fiuto impeccabile, un misto di sangue, pelle, sensazioni e con il tempo esperienza», racconta Luis Miguel, il figlio di Carmen, nel suo ufficio al primo piano dell’Avenida Diagonal, un tempo Avenida del Generalissimo, dove l’agenzia si trasferì nel 1967, dopo il successo senza precedenti di Cent’anni di Solitudine, che le permise di acquisire un’aura leggendaria e a Carmen di divenire una «superagente letteraria con licenza di uccidere». Eppure in quegli anni non era scontato, per una ragazza di campagna, riuscire a sopravvivere all’interno di un mondo ostico come quello editoriale. «Quando ho cominciato non conoscevo ancora niente. L’ambiente era tremendamente snob, e ovunque giravano ragazze bellissime: mi sentivo una contadinotta. Naturalmente alla fine ce la feci. I miei primi contratti furono Mario Vargas Llosa e Luis Goytisolo, ma fu “Gabo” a togliermi davvero le castagne dal fuoco». La leggenda che ruota intorno al romanzo più famoso di Marquez vuole che il libro sia finito prima nelle mani di Carlos Barral, un editore che pubblicava un altro genere di testi e che le malelingue dicono fosse troppo snob, nella sua genialità, per interessarsi a una novella di provincia e più in generale a quel tipo di scrittori secondo i quali il mare «es siempre más azul que nunca». E solo successivamente in quelle di Carmen, che riuscì a vendere Gabo in tutto il mondo, tranne che in Argentina, e a instaurare con Márquez un rapporto di assoluta complicità, anche se lei si sforzava il più possibile di mantenere tutto su un piano professionale. «Non ho amici», diceva, «solo interessi». Così, per far fede al suo personaggio, quando un giorno lui la chiamò al telefono per chiederle se le volesse bene, «me quieres Carmen?», si sentì dire: «A questo non posso rispondere, perché rappresenti il 36,2% del nostro fatturato». Al terzo piano del palazzo sull’Avenida Diagonal, dove Carmen visse per un periodo, c’è una lavagna appesa al muro con incisa una frase di Marquez del 1975: «El sueño de mi vida es poner una agencia literaria y tener un autor como yo». «Geniale, questo era Gabo», sorride Luis Miguel.

Il colombiano però non era l’unico autore a cui Balcells dedicasse le proprie materne attenzioni. Quando intuì che avrebbe potuto convincere l’eccentrico uruguaiano Juan Carlos Onetti, ancora poco conosciuto in Europa, a entrare a far parte della scuderia, prese immediatamente un aereo per Montevideo, Più laborioso fu il corteggiamento con Vargas Llosa. Affascinata dal suo secondo libro, La Casa Verde, si presentò a Londra a casa dello scrittore peruviano, implorandolo di lasciar perdere i lavori di sussistenza per dedicarsi completamente alla scrittura. «Come faccio», disse lui, «ho moglie e due figli, non posso farli morire di fame, e il lavoro di insegnante universitario mi frutta 500 dollari al mese». «Ti darò la stessa cifra a partire da ora, fino a quando non finirai il libro a cui stai lavorando», rispose lei.

“Mama Grande”, suo celebre soprannome, era molto abile nello sfruttare i grandi nomi che aveva sotto contratto per fare pressioni sugli editori e piazzare scrittori ancora sconosciuti. Quando un giorno l’editore Mario Lacruz chiese a Carmen informazioni sulla possibilità di acquistare il nuovo romanzo di Graham Greene lei acconsentì, ma a patto che valutasse anche La Casa degli spiriti, un libro di una cilena esiliata in Venezuela che era stato precedentemente rifiutato da tutti gli editori sudamericani. Tempo 2 giorni e Lacruz si fece nuovamente vivo: «Carmen, sono onesto. Il romanzo che mi hai mandato è ottimo, voglio lanciare questa scrittrice come la chica del boom». Isabel Allende aveva finalmente trovato un editore.

Uno dei suoi sogni proibiti furono le memorie di Fidel Castro. Una volta confidò alla scrittrice cubana Wendy Guerra l’intenzione di provare a contattare il leader Maximo spedendogli un assegno in bianco. E quando Wendy gli fece notare che a Fidel non interessava il denaro, ma il potere, e quello già lo possedeva, lei rispose un po’ piccata: «Querida, un cheque en blanco sempre tiene una respuesta». Quella volta si sbagliò.

Il libro che invece non volle mai dare alle stampe fu quello delle sue memorie. Si rifiutò sempre di scriverlo. Per tre semplici motivi: «Perché non ho memoria, non so scrivere, e perché tutte le cose interessanti che ho fatto nella mia vita non le racconterò a nessuno».