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Visioni di pace (Antonio Bello, la meridiana, 2022)

Prefazione

Don Tonino Bello ci ha consegnato sulla pace non una tattica ma una strategia, consapevole com’era che la partita non si vince ai calci di rigore ma richiede di essere giocata di continuo.
L’accelerata dei fronti conflittuali nel mondo negli ultimi anni del suo episcopato lo indissero a un confronto serrato come vescovo e presidente di Pax Cristi con quanti trovavano giustificazioni agli investimenti in armamenti, alla legittimazione della guerra giusta e della difesa armata, a chi nei confronti dei pacifisti trovava giustificate ed evidenti ragioni per dichiarare inadeguata e non vincente la loro azione, visto proprio il riaprirsi di fronti conflittuali.

Non si risparmiò e non sprecò nessuna occasione per comporre, tassello dopo tassello, una visione della pace e sulla pace che non fosse solo assenza di conflitti armati.
Ebbe la capacità d’intuire – come fossero tessere di un unico puzzle la difesa dell’ambiente, lo sviluppo economico dei Paesi, il rapporto nord e sud ma anche est ed ovest in qualsiasi punto del globo terrestre collochiamo la nostra attenzione – l’impegno politico e quello educativo, lo sfilacciamento dei legami di prossimità, l’arrivo alle frontiere dell’Europa di popoli alla ricerca di futuro dignitoso, la traiettoria che – con la caduta del muro di Berlino – l’Europa dei popoli doveva velocemente intraprendere per non soccombere per prima ai nazionalismi già riemergenti.
Della pace aveva una chiara visione, la stessa di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”.
Forgiare ed esercitare: non solo marciare, protestare, firmare tregue, trattati o appelli. Bensì convertire logiche economiche e culturali passando da scelte di vita personali, comunitarie, politiche e di cittadinanza locale e globale.
In queste pagine abbiamo provato a rimettere in gioco le tessere che più facilmente possiamo fare fatica a trovare quando, all’esplosione di un conflitto, la composizione della convivialità si arena, e all’unisono sale il frastuono delle armi.
Abbiamo ritagliato – prendendoci la licenza di farlo – frasi da discorsi e scritti più ampi e articolati, con il solo obiettivo di rendere chiara a noi – uomini e donne di questo tempo segnato dalla guerra in casa nostra ma anche dalla chiarezza ormai che l’esplodere di ogni conflitto è collegato a crisi umanitarie, ambientali, economiche – che la pace non è solo assenza di conflitti. È invece una visione.
In un testo senza data che non stentiamo a collocare negli ultimi mesi della sua vita, don Tonino scriveva: “Ciò che mi affligge di più, comunque, in questa ripresa del conflitto sono due cose. Il terrore di dover ripetere, in un mondo di sordi, le stesse argomentazioni contro la guerra; di dover risentire le filastrocche sul pacifismo a senso unico; di dover rispondere che il pacifismo si desta solo quando c’è puzza di America… E poi il dover constatare che gli interessi economici prevalgono sui più elementari diritti umani…”.
Ecco: in questo anno segnato da una guerra scoppiata nel cuore dell’Europa, all’indomani di una pandemia che avrebbe dovuto renderci migliori, abbiamo sentito anche noi questa “afflizione” e abbiamo cercato in don Tonino le parole per non smarrire la visione e capire il metodo per esercitarci nell’arte della pace.

Giancarlo Piccinni, presidente Fondazione don Tonino Bello
Elvira Zaccagnino, direttrice edizioni la meridiana

 

Tasselli Visionari

 

Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario.
Sì, perché oggi le parole sono diventate così “multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono.
Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo. Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà.
A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “Essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra”.

Sui sentieri di Isaia – pp. 13, 14


Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma non è neppure l’equa distribuzione dei beni a tutti i commensali della terra. Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli. Convivialità delle differenze, appunto. Di qui il nostro compito storico di far sedere all’unica tavola i differenti commensali senza pianificarli, senza uniformarli. Noi, popolo messianico o crismale, dobbiamo essere i ministri di questo convito.

Sui sentieri di Isaia – pp. 63, 41


Come vogliamo trovare la pace predicandola, senza impegnarci anche nella giustizia?
Convivialità significa, allora, che ognuno deve avere il suo piatto. Ma non basta.
Perché ognuno il suo piatto se lo può prendere, e uno va a mangiare in terrazza, l’altro va a mangiare in cantina, l’altro si chiude in un bunker, l’altro va in sacrestia, l’altro va in giardino.
Non è questa la convivialità. Questa è quiete lunare, buona per i romantici. Ma non è giustizia. Non è pace.
La pace è convivialità. È stare insieme. È non chiudere occhio perché gli altri dormano.
Pace è conflittualità, anche.
Convivialità, non significa eliminazione delle conflittualità. Perché la conflittualità fa parte della nostra vita e guai se non ci fosse. Soltanto che tutte le pietre di inciampo devono diventare le pietre di guado.
Come quando si va in campeggio e voi vi accampate vicino a un ruscello e dovete passare dall’altra parte. Come sono preziose quelle pietre, che sembrano di inciampo per chi vuole andare con la barca e invece sono pietre di guado per chi vuol passare da una parte all’altra.
La convivialità è stare insieme.
Accettare la differenza: la differenza religiosa, la differenza politica, la differenza culturale. Guai a voi se oggi non vi mettete sull’incrocio delle culture, per dove passano le culture. Guai a voi se vi arroccate. E pretendete che soltanto la vostra visione delle cose sia l’unica, la giusta, la vera. Allora diventate arroganti, diventate prepotenti, diventate intransigenti.
Ci sono intransigenze fortissime, repellenti oggi, e non soltanto su certi settori. Ci sono intransigenze che sono repellenti su tutti i piani, perché basta essere un uomo per poter essere un santo e poter essere un debole.
Vi vorrei incoraggiare veramente a compiere questo sforzo, ad incontrare l’altro: guardarsi in faccia, scoprire l’altro, portare l’altro alla luce.
Che cos’è la convivialità, l’ho spiegato. Ma come tradurla in pratica? Ci facciamo aiutare da un’espressione che molti, oggi, adoperano: pensare globalmente e agire localmente.
Dobbiamo pensare globalmente, anche se dobbiamo sottoporci alla fatica di agire localmente, qui nel piccolo mondo antico nel quale la Provvidenza, un destino ci ha piantati.

Ci vuole audacia. Parole ai giovani – pp. 15, 26


Dovrei parlare brevemente del modo di educare i bambini alla pace. O, se volete, dovrei indicare agli adulti le tecniche per insegnare ai bambini l’amore per la pace. Ma mi chiedo subito se qui non stiamo invertendo i ruoli! Siamo noi adulti che dobbiamo salire in cattedra e impartire lezioni ai bambini, o non dovremmo invece, noi adulti, metterci ai banchi come tanti scolaretti e apprendere gli insegnamenti di questi minuscoli maestri che, in tema di pace, ci sopravanzano per conoscenze teoriche e per applicazioni pratiche? Più che essere noi grandi a studiare le metodologie giuste per iniettare nelle vene dei piccoli la linfa salutare della pace, dovrebbero essere loro a introdurre nella nostra circolazione sanguigna gli anticorpi in grado di neutralizzare i virus della guerra. Dovrebbero essere loro, cioè, ad organizzare corsi, dibattiti e tavole rotonde sul tema: “Come insegnare ai grandi l’amore per la pace”. Se siamo disposti ad accogliere questo principio, ci accorgeremo che ogniqualvolta noi grandi ci rapportiamo con i piccoli sul tema della pace, in ultima analisi, invece che dare, siamo noi a prendere qualcosa da loro: o come “souvenir” della nostra innocenza passata o come profezia del nostro destino futuro. E allora? Dovendo andare alla svelta e concludere con qualcosa di concreto, mi permetto di suggerire due piste d’impegno.

Se, cioè, non ce la sentiamo proprio di andare a scuola dai bambini in materia di pace, dobbiamo almeno astenerci dall’inquinare i loro pozzi con i liquami della nostra cattiveria. E qui il discorso cade in primo luogo sui mezzi di comunicazione di massa, sui loro messaggi violenti, sulle loro proposte aggressive, e su tutta la gamma della persuasione occulta sottesa a tantissimi programmi apparentemente innocui che esaltano le ragioni del più forte, il successo del più bravo, il prevalere del più dritto.
La seconda pista si riferisce a quel “nisi efficiamini sicut parvuli…” di cui parla il Vangelo di Matteo, il quale mette sulla bocca di Gesù l’invito esplicito a diventare bambini se si vuol entrare nel Regno: se si vuole, cioè, che la propria vita raggiunga il vertice della sua umanizzazione. E che cosa, in tema di pace, hanno da dire i bambini a noi adulti che vogliamo metterci alla loro scuola?
Essi ci danno, soprattutto, lezione di solidarietà.
Dipenderà dalla loro fantasia, o dalla loro capacità di fare a meno dei ruoli, o dalla loro attitudine di sistemare la realtà in mille modi diversi, certo è che i bambini hanno da annunciarci verità primordiali in fatto di apertura, d’integrazione e di accoglienza. Il diverso per loro non fa problema. L’altro è sempre un partner con cui spartire qualcosa. Il rivale finisce sempre col diventare compagno. Colui che sopraggiunge non deve essere eliminato. Male che vada, le loro reazioni saranno quelle effimere della gelosia, mai, però, quelle tragiche del rifiuto; e anche i gesti spontanei dell’accaparramento, dopo le prime resistenze, si scongelano sempre nell’empito gaudioso della condivisione. Segno chiarissimo di questa nativa attitudine alla solidarietà è il fatto che il bambino sa giocare col diverso, senza impensierirsi, così come Isacco giocava con Ismaele, il figlio della schiava.
Ma, oltre che di solidarietà, i bambini ci danno anche insegnamenti di nonviolenza. Questo asserto può sorprendere qualcuno, perché sembra contraddetto dalla constatazione che tra i bambini scoppia spesso il litigio e il più delle volte la prepotenza esplode nell’uso delle mani. È vero: a guardare in fondo, però, la violenza dei bambini appartiene ancora allo stadio epifanico della conflittualità, ma non è assolutamente passata, come per noi adulti, allo stadio di strumento risolutore dei conflitti. Tra di loro, cioè, i conflitti non vengono regolati dalla violenza, e i rapporti non vengono stabiliti sugli schemi della forza, e il convivere non è fissato dai parametri dell’egemonia e della subalternanza.
I bambini posseggono una gamma incredibile di modalità per la soluzione dei loro conflitti: il ricorso alla mediazione degli adulti, la facilità di contrattazione reciproca, l’accomodamento rapido sui loro piccoli interessi, il lasciarsi distogliere da interessi più grandi, l’improvvisa capacità di dono che scoppia nel bel mezzo di una sindrome d’egoismo, il sorriso che si fa largo tra le lacrime e stempera l’odio, l’abbraccio che ratifica un’amicizia ritrovata, il tornare a dormire insieme lasciando indifese le loro conquiste… La conclusione più logica che ci sembra di poter trarre, senza distribuire acriticamente diplomi in pedagogia a nessuno, è che adulti e bambini si educano reciprocamente alla pace. I primi, controllando il loro linguaggio. Sorvegliando la loro relazionalità, in modo che i piccoli non incorporino troppo presto i germi dell’odio e della violenza. Costituendosi perenne riserva critica nei confronti delle discriminazioni, delle ingiustizie, degli abusi di potere, delle emarginazioni razziali, delle disparità tra uomo e donna. Praticando lo stile dell’accoglienza e aprendosi con fiducia alle categorie della diversità senza vederla come disturbante, mostruosa, da eliminare. Elaborando ad alta voce modelli alternativi a quelli che fanno poi germogliare la corsa alle armi, la distribuzione iniqua delle ricchezze, i fenomeni della fame nel mondo, le disparità tra i Nord e i Sud della terra…
I bambini, invece, educano gli adulti alla pace offrendo loro non certo il pretesto per sterili nostalgie nei confronti di un paradiso perduto, ma il parametro realistico su cui rettificare costantemente la propria condotta. Perché, se, come diceva Hérold, il bambino è un ottimo punto di partenza per l’uomo, è anche vero che è l’icona meno infedele del suo punto d’arrivo. Sta entrando, cioè, nella coscienza comune, pur senza superflui romanticismi, che se vogliamo disegnare l’uomo nel suo stadio di evoluzione finale dobbiamo sempre più pensare al bambino. Se tutto ciò è vero, almeno in parte, a nessuno sfugge come il primo laboratorio dove avvengono le sintesi vitali sui valori della pace sia la famiglia.

I bambini e la pace in Fate presto, bambini – pp. 29, 48