Rebecca libri

Il mio scrittore è più fico del tuo

Jack Frusciante è tornato nel gruppo. Nelle più recenti stagioni editoriali, prive di grandi sorprese, un tratto rilevante forse c’è. La riscossa delle comunità di lettori. Mani avanti: non c’entrano solo i social. I mega seller non esistono più, il milione di copie è una chimera, o un amaro ricordo. Il mercato è più piccolo. Così, la differenza la fanno inneschi imprevedibili, contagi che – per via di passaparola – definiscono un’appartenenza. Un gruppo, un club, una nicchia o una banda allegra. Una tifoseria, volendo. L’aggregante è la passione di lettori. Non esistono secondi fini. Se diventa «posa», è accidentale. Se diventa moda, tanto meglio per l’editore. Se diventa culto, forse è troppo. Ma l’aspetto più interessante – accanto a quello puramente numerico – è il desiderio, o il bisogno, di riconoscersi, di sentire e di mettere qualcosa in comune. Anche emozioni, o soprattutto emozioni.

In una enorme libreria di Roma, la Borri Books della stazione Termini, una signora a cui avevo indicato su un banco l’ultimo libro di Annie Ernaux – mentre il commesso ancora trafficava con il computer – mi ha guardato con un tale slancio («la conosce anche lei?») da lasciarmi quasi imbarazzato: come fossi un parente, o un amico ritrovato. La parola chiave forse è proprio questa: parentela. Nella disorientante quantità di oggetti culturali che il mercato propone, valorizza, disperde e inghiotte, è vitale una segnaletica: boe, giubbetti di salvataggio fosforescenti, qualunque segno che faccia sentire meno soli, meno isolati, meno a rischio smarrimento. Qualcuno, nel fenomeno, legge anche un’esibizione di purezza, di severa indipendenza, di alternativa ai giganti del mercato. E in effetti, si tratta spesso di tam-tam che investono proposte editoriali dei piccoli marchi. Editoria a chilometro zero, non tanto in termini di localizzazione (con gli scrittori italiani accade di rado), ma di trasparenza e di genuinità. Un attento e partecipe osservatore della narrativa, il critico letterario Francesco Longo, tira in ballo anche la parola «snobismo». «Si legge per piacere,» spiega «ma spesso anche per distinguersi. Eppure si legge anche per il motivo contrario, per far parte di un gruppo, per definire la propria appartenenza culturale. Da un punto di vista sociologico (tenendo lontana quindi la critica letteraria), casi come quelli di Annie Ernaux e Kent Haruf ci fanno sentire unici, speciali, ma non soli. Ogni volta che uno scrittore vince il Nobel o diventa popolare perde fascino, e per i lettori della prima ora è un tradimento. Gli autori, per restare di culto, devono formare un gruppo di lettori innamorati e di buone letture, senza un consenso di massa. In queste nicchie ci si sente finalmente come in un club: condizione esclusiva sì, ma un’esclusività condivisa».

Se fosse una partita di beach volley, sarebbero squadre: ciascuna intitolata a un autore, con tifoserie appassionate, talvolta perfino agguerrite. Partiamo da quelle autarchiche. La più radicata e radicale? Quella cresciuta nel culto di Elena Ferrante. La più sofisticata? Quella legata a uno scrittore iperletterario come Michele Mari. Classe ’55, ha scritto romanzi e racconti belli e impervi, e un libro di poesie quasi long seller, Venti poesie d’amore a Ladyhawke, che conquista fan giovanissimi. Quando gli chiedo, con impudenza, cosa pensa del club di suoi estimatori, risponde giustamente infastidito: «Onestamente non saprei bene come rispondere, quindi meglio astenersi, scusami». Giusto. Ma noi insistiamo lo stesso.

Mari estremi

Ha una lingua tutta sua, lavoratissima, piena di risonanze, «anticata». Mari è uno scrittore orgogliosamente inattuale. Detesta chiunque scriva con un occhio all’oggi, pesca le storie nella sua «leggenda privata» (Leggenda privata è il titolo dell’ultimo romanzo, autobiografico, pubblicato da Einaudi), fatta di miti-feticci letterari. Un’epica dell’infanzia tenuta in vita con artifici letterari mirabili. E un culto dell’intelligenza narrativa – da Dickens a Stevenson – che lo spinge a tradurre, a ricalcare, a giocare serissimo con le storie di altri. Ha inventato un Leopardi licantropo e fatto rivivere la Parigi degli anni Trenta in cui Walter Benjamin beve seduto a un tavolino in compagnia di Marc Bloch. Vi basta? Come fa a essere pop uno scrittore così? Non lo è, né vuole esserlo. Ma ha piccole legioni di ammiratori senza-se-e-senza-ma. Riempiono le sale quando (raramente) lui si manifesta in pubblico. Blogger devoti che divulgano la sua sapienza su piattaforme che lui frequenta con poco interesse. Detrattori? Pochi. Uno è l’ipercritico Matteo Marchesini: sostiene che i libri di Mari «si reggono su un partito preso formale eccessivamente protettivo e in parte pretestuoso». I suoi cultori si ritengono «buongustai supremi», avvinti da quel «mantecato gaddian-manganelliano» che rischia di essere, sempre secondo Marchesini, «manierismo onanista». Intanto, ragazzi e ragazze di vent’anni postano su facebook versi delle poesie d’amore di Mari, mettendo in imbarazzo il diretto interessato.

Anonima Ferrante

Il club è ormai planetario, e non prevede dimissionari. Una volta entrati, non si esce. Anzi, si è tenuti a propagare il verbo della scrittrice senza volto. Pubblicata per la prima volta, come si sa, da e/o nel lontano ’92 con il viscerale e perturbante L’amore molesto, seguito – dopo lungo silenzio – da I giorni dell’abbandono. Passa qualche anno, e la Ferrante torna come autrice seriale: la tetralogia di L’amica geniale la fa letteralmente esplodere. Centinaia di migliaia di copie in Italia e all’estero, dove scala le classifiche di Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Svezia. E non si ferma. Piace senza distinguo. Non ha detrattori pubblici. Oltreoceano, dopo Calvino e Eco, è l’unico nome letterario italiano che sia riuscito a passare. Piace a Hillary Clinton e a Zadie Smith. Da noi, hanno provato in tutti i modi a stanarla, a svelarne l’identità, con tentativi più o meno goffi. Si suppone da vent’anni che sia Anita Raja, traduttrice dal tedesco e bibliotecaria, ma ai ferrantiani di stretta osservanza questo – legittimamente – non importa. Ciò che conta, per loro, è la trascinante forza narrativa, l’ipnotica e avvolgente potenza del racconto. Storia di formazione e di alleanza femminile, mélo asciutto, una Napoli un po’ stracciona sullo sfondo. Qualunque possibile obiezione è frenata dalla partecipazione emotiva impressionante di lettori e lettrici, dalla loro incondizionata adesione alla saga di Lila e Lenù. In cui c’è chi coglie anche il cripto-manifesto del femminismo del Ventunesimo secolo. Intoccabile.

Haruf chi?

Ottantamila copie vendute con il titolo uscito a febbraio, Le nostre anime di notte. Sessantamila con Benedizione. Kent Haruf si è fatto largo in Italia negli ultimi tre anni, grazie al lavoro e alle cure dell’editore Nn. Romanziere americano scomparso nel 2014 e praticamente sconosciuto in Italia, ha riguadagnato una posizione di primo piano dopo la morte. Al prossimo festival di Venezia arriva fuori concorso la produzione Netfix Our Souls at Night, con Jane Fonda e Robert Redford. Prosa asciuttissima, trasparente: con pochi tocchi Haruf evoca un mondo – il suo, l’immaginaria cittadina di Holt, Colorado. Sull’esperienza di lettura di Haruf, lo scrittore Marco Missiroli si è (entusiasticamente) espresso così: «Mi stava mostrando la vita com’era, a me lettore sovrastrutturato, a me scrittore stratificato, me la stava raccontando per come le persone sono. E lo stava facendo sussurrando con l’ordine più semplice: soggetto, predicato verbale, complemento oggetto. È il canto piano di Haruf: la musica corale priva degli strumenti». Chi lavora per la sigla Nn è tuttora un po’ stupito: «Quando è passata in Italia la vedova di Haruf, Cathy, abbiamo dovuto mettere in piedi collegamenti Skype con diverse librerie indipendenti, tante erano le richieste. I lettori volevano ringraziarla, mostrarle il loro affetto per il marito» mi racconta Eugenia Dubini, publisher di Nn. Per il caso Haruf, che resta comunque «imprevedibile», ha contato – spiega – anche la serialità della Trilogia della pianura. Ma non basta. «Quanto è accaduto per Haruf, è qualcosa che attiene a lui, a lui nel nostro tempo. Ogni scrittore ha una sua stagione più felice di leggibilità.» Ha ragione. Lo stesso tipo di contagio magico si attivò qualche anno fa per un’altra scoperta postuma, Stoner di John Williams. C’entravano anche lì il nitore, la semplicità della prosa e c’entravano le grandi domande esistenziali che percorrono i romanzi senza essere ingombranti. Il caso Haruf ha rafforzato la riconoscibilità del marchio Nn: «Per il primo Haruf le prenotazioni furono intorno alle ottocento copie. Poi, gruppi di lettura e librai hanno fatto la differenza». Condivisione, comunità, socializzazione. Bisogna partire, o ripartire da lì. «E portare il lettore in cabina, a vedere come si scelgono i libri, per conquistare la sua fiducia.»

Madame Ernaux

Una grande signora della letteratura francese, un classico vivente, la quasi settantasettenne Annie Ernaux viene ripubblicata da una piccola e raffinata casa editrice italiana, L’orma, e scatta l’amore. Ernaux era già apparsa da Rizzoli negli anni Novanta, senza grandi riscontri. Nel 2014 Lorenzo Flabbi, traduttore e editore di L’orma, recuperando quel piccolo capolavoro di stile che è Il posto, ha dato nuova vita italiana alla narrativa di Ernaux. Ormai accolta trionfalmente a ogni uscita pubblica, seguita con curiosità e ammirazione da lettori e lettrici anche molto giovani. «Se attorno all’opera di Ernaux si è formata una comunità» spiega Flabbi «è perché la sua scrittura, così aderente al dato di reale, così potente nell’indagine sociale e impietosa in quella introspettiva, ha fatto sì che molti lettori si riconoscessero non solo nel suo percorso individuale, quanto e soprattutto nel portato universale dei suoi libri». Flabbi, che l’ha tradotta, conosce bene la «ricercatissima, faticosa e dolente semplicità» delle pagine di Ernaux. A dare un’importante spinta in libreria è stata la comunità social di lettori (oltre 15.700) Billy il vizio di leggere – il gruppo: invitando gli iscritti a un acquisto in massa del romanzo Il posto, si è ottenuto l’ingresso in classifica, tra i primi posti di narrativa straniera. Anche Angelo Di Liberto, fondatore e animatore di Billy, vede nella «assoluta parsimonia di mezzi» il segreto della «narrazione chirurgica» di Ernaux, della «tensione drammatica sempre molto alta». I lettori che hanno contribuito all’impresa» racconta «si sono sentiti per la prima volta protagonisti di un cambiamento editoriale, chiamati in causa per una piccola rivoluzione culturale: la possibilità di comunicare in modo diverso le proprie scelte al mercato, e di farle incidere». Madame Ernaux non si è fermata: con Gli anni e Memoria di ragazza ha stupito di nuovo. Alberto Rollo, editor di lungo corso, se ne è innamorato, tanto da porla in epigrafe al suo primo romanzo: «Ci ha messo» dice «con le spalle al muro con una parola narrativa implacabile. E in quella posizione scomoda abbiamo sentito la verità e la bellezza dell’accadere, come non le avevamo mai sentite».

Carrèremania

Sempre dai cugini francesi abbiamo adottato Emmanuel Carrère. Forse, insieme a Houellebecq, il più rappresentativo fra gli autori della generazione di mezzo di Francia, Carrère ha avuto in Italia una stagione einaudiana non straordinaria, salvo forse che per un libro dal titolo già quasi proverbiale, Vite che non sono la mia. Ma il passaggio fra le elegantissime edizioni Adelphi ha chiamato a raccolta i suoi ancora timidi fan e li ha moltiplicati. Il lavoro narrativo, sospeso fra autofiction, reportage, racconto puro, ha avuto massima luce con l’esperimento di Limonov, biografa sui generis dell’inclassificabile dissidente russo. Ma libri come L’avversario – una sorta di nuovo A sangue freddo – o Il Regno, personalissima ricostruzione degli atti fondativi del culto cristiano, hanno sostenitori vivacissimi. Anche fra gli aspiranti scrittori, i ventitrentenni che mettono Carrère nelle (disordinate) letture fondamentali: Wallace, Bolaño, Carrère. Giacomo Raccis, trentenne, critico letterario animatore del blog La Balena Bianca, fa notare come la fortuna di Carrère sia legata anche al «personaggio che costruisce nei suoi libri», un personaggio-sé stesso fascinoso e un po’ irritante allo stesso tempo. «Con quel pizzico di narcisismo che ognuno di noi possiede ma non si confessa, Carrère mostra come ogni storia – e ogni trauma – in fondo, ci riguardi.» Vero. Conta anche la sua intemperanza di prosatore, l’insubordinazione ai generi, ai confini troppo marcati fra scrittura e scrittura. È, dal vivo, un uomo affascinante, gentile e chiaramente molto inquieto. Si narra di suoi epocali e scatenati balli alle feste editoriali, anche su suolo italiano. Charmant.

Io-non-leggo-italiani

La squadra esterofila – come nel campionato di calcio – non perde smalto, continua a fare proseliti. Come nasce? L’esterofilia è sempre un po’ il rovescio del provincialismo. Malattia diffusa a ogni latitudine; da noi resiste a tutti gli antibiotici. In campo editoriale, il club di chi venera gli scrittori-purché-stranieri è nutrito. Colpa della letteratura italiana? «Appare in effetti “moscia”» ammette il critico Filippo La Porta. «Espressione di un paese sfinito, esausto, dove la famiglia – nelle sue molteplici declinazioni – è incompatibile con l’avventura». Siamo messi così male? «No, si tratta comunque di un cliché, tutto dipende dallo sguardo. Ci sono scrittori immaginativi, che deformano e rendono interessante anche il quotidiano». La Porta fa nomi non scontati: Luca Doninelli, Claudio Morandini, Roberto Livi, Paolo Morelli. In ogni caso, è sempre più raro – vedi sopra – che l’aspirante scrittore denunci grandi letture indigene recenti e meno che mai fra le influenze che ha subito. Calvino? Mah, in caso a mezza bocca. Sul resto, silenzio. Più in generale, l’attenzione per i connazionali contemporanei si esibisce solo se ammantata di una improvvisa, spesso inspiegabile, «social coolness». Alimentata, di solito, da un endorsement illustre, da un profilo «indie» duro e puro, da un tam-tam fittissimo della cerchia amical-editoriale, da un innesco polemico che polarizza all’istante i pro e i contro. A quel punto, si legge pure l’autore italiano. Anche solo per poter dire la propria, per partecipare alla gazzarra, per capire come posizionarsi nell’«odi et amo» del momento. Troppo poco, potremmo volerci un po’ più di bene.

Quasi guru

Impossibile non evocare la squadra forse più numerosa. Spinge in classifica autori come Roberto Emanuelli, Massimo Bisotti, Francesco Sole. Nascono in rete, sui social, ma non sono semplici youtuber né dispensatori di aforismi. Diventano invece quasi letterari e quasi guru: psicologismo obiettivamente un po’ alla buona, frasi a effetto, romanticherie. Al punto giusto di cottura, Rizzoli e Mondadori li chiamano e li danno in pasto, su carta, al loro stesso pubblico. E allora baciami (Rizzoli) di Roberto Emanuelli si è ritrovato quinto nella top ten di narrativa italiana. Un assaggio? «Quando tu sei con me, con me c’è tutto l’universo.» Quasi tutto, dài.