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Karenina. La donna che visse e morì tante volte

Ogni romanzo è scritto nella lingua dell’autore e ogni autore lo scrive a modo suo. Quel modo suo è il motivo per cui ogni tanto i classici vengono ritradotti, un po’ più distanti dalla solennità linguistica che un classico si presume meriti, e vicino alle fissazioni, ai sentimenti ricorrenti, ai tic linguistici e non solo, che ogni autore si prende la responsabilità di riportare sulla pagina. E quando, per una grande opera già tradotta, qualcuno intuisce una sorta di perdita di efficacia o semplicemente la necessità di una lingua più adatta, quella responsabilità trasloca sulla scrivania del nuovo traduttore. Perdonando la semplificazione, si passa dalla celebrazione per una lingua granitica all’attenzione per una lingua ancora viva, che deve trovare il suo corrispondente attuale ricercando quella precisione di senso nell’espandersi fisiologico di una lingua nel corso dei secoli, una lingua dove compaiono, e a volte scompaiono, le parole perfette per indicare uno stato d’animo, il carattere di un personaggio e i vezzi di un autore del quale sembrava non ci fosse più niente da scoprire. E allora ci tocca rileggerlo. Meglio, ci tocca riascoltarlo, come consiglia Claudia Zonghetti, responsabile della nuova traduzione di Anna Karenina, che succede a Leone Ginzburg.

Un anno e mezzo di lavoro, Un anno e mezzo di ascolto di un’unica voce: quella di Tolstoj. Claudia non ha volutamente riletto le precedenti traduzioni e non ha visto neanche le trasposizioni cinematografiche. “Sapevo – racconta sorridendo – che la polputa Anna Karenina non era quel mucchietto d’ossa di Keira Knightley, ma ho preferito evitarla comunque per non farmi influenzare da arrangiamenti altrui”.
Unici strumenti di lavoro il vecchio tomo russo e l’audiolibro, utilizzato come voce di fondo alla nuova traduzione che prendeva forma. I personaggi dei libri parlano, non scrivono, fanno delle pause, a volte degli errori, altre usano parole tramandate dalla famiglia o apprese in contesti sociali ben chiari per chi li fa vivere. Claudia Zonghetti ha voluto riconsegnare a ogni personaggio della storia il proprio carattere, e il conseguente modo di esprimersi, pescando da una lingua sapida e creando associazioni linguistiche difficilmente azzardate. Per dare un’idea del lavoro di traduzione ho chiesto a Claudia di tracciare le personalità e le voci dei principali personaggi del romanzo, così come lei li ha riscoperti e riportati sulle sue pagine.

Anna Karenina
La voce di Anna Arkad’evna è – inevitabilmente – quella che più muta nel corso del romanzo. La incontriamo per la prima volta nel capitolo 18 della Prima parte, in arrivo a Mosca per “rappezzare” il matrimonio del fratello fedifrago. Gran dama dell’alta società pietroburghese qual è, ancora sul treno duetta con la contessa Vronskaja in un impeccabile equilibrio di toni, dopo di che (a casa del fratello) con la cognata si mostra, sì, accogliente e sensibile, ma sempre “con la schiena diritta” (e mutuo un’espressione che Tolstoj stesso usa per caratterizzarla), sempre e puntutamente “comme il faut”: l’alternarsi degli sproloqui affannosi di Dolly e delle battute spesso lapidarie di Anna sono un contrappunto perfetto per raffigurare il duello fra le deprecate passioni (Dolly) e la compostezza richiesta a una vera signora (ancora per poco…). E se al ballo fatale Anna è ancora sintatticamente e lessicalmente immacolata, qualche crepa si inizia a percepire già dal congedo con Dolly – quando annaspa quasi, per scusarsi con lei – e dall’incontro con Vronskij sul treno che la riporta a Pietroburgo: Anna sa ancora controllarsi, ma se la sua bocca obbedisce ancora ai dettami del bel mondo, il suo cuore ha già preso altre vie. Da qui in poi l’involuzione (o l’evoluzione?) è inesorabile. Piano piano Anna perde la spontaneità dei suoi modi levigati dal beau monde e si concede a reazioni emotivamente piene, sintatticamente sincopate, lessicalmente nervose. Liberata dall’amido precedente, Anna vive un momento di estrema libertà espressiva in cui non teme – addirittura – di imitare il marito (pag. 222) né di sfidarlo (alle corse e anche dopo, a casa). Strada facendo, il suo manierismo di facciata è sempre più evidente, la zavorra delle emozioni riverbera sempre più vivida nei “duelli” con Karenin e Vronskij fino a che, dopo il delirio reale che precede il parto, Anna si avvia verso il delirio isterico degli ultimi scambi con colui che ha segnato il suo destino, scambi folli, nevrastenici, meschini, preceduti e introdotti da una replica dell’incontro con Dolly che aveva aperto il romanzo. E se da principio Anna era la gran dama perfetta e Dolly la sventurata isterica, ora i ruoli si invertono magistralmente ed è Anna a scappare via, in lacrime. Il cerchio è chiuso.

Karenin
Devo confessarlo. Karenin è un po’ come i bulldog francesi: talmente bruttarelli da risultare simpatici, alla fine dei conti. È odiosamente simpatico come colui al quale mi è venuto spontaneo affiancarlo mentre lo traducevo.
Un simile procedimento potrà risultare eretico – e lo capisco – ma per me Karenin è stato da subito Furio. Furio di Furio&Magda di Carlo Verdone, sì. Con quel suo sarcasmo da mezzamanica che si stupisce se gli altri non lo prendono sul serio (e se Furio si toccava continuamente gli occhiali, Karenin scrocchia le dita in continuazione). Ma giudicate voi stessi:

Non capiva (Anna – n.d.t.) che la particolare loquacità di Karenin – che tanto la infastidiva – era solo la forma esteriore della sua angoscia e della sua inquietudine. Come un bambino che si è ferito saltella per rimettere in moto i muscoli e smorzare il dolore, per smorzare i pensieri sulla moglie – evocati dalla presenza di lei, da quella di Vronskij e dalla continua eco del suo nome – a Karenin serviva mettere in moto la mente. E se a un bambino veniva spontaneo saltare, lui parlava, e parlava forbito.

Eccolo che arriva, Furio:

– Nelle gare ippiche di esercito e cavalleria il pericolo è un ingrediente imprescindibile. Se nei suoi trascorsi bellici l’Inghilterra vanta le più brillanti imprese a cavallo della storia è solo perché ha sempre coltivato con grande abnegazione questa sua propensione congenita per uomini e animali. A mio modesto parere l’attività sportiva ha un ruolo preponderante, ma come sempre noi ne cogliamo solo gli aspetti più epidermici».
– Altro che epidermici! – si intromise la principessa Tverskaja. – Pare che un concorrente si sia spezzato due costole!
Karenin le riservò uno di quei sorrisi che gli scoprivano appena i denti e non signifi-cavano nulla.
– Aspetti ortopedici, dunque, più che epidermici. Va bene, ve lo concedo – aggiunse. – Ma non è questo il punto – e tornò a rivolgersi al generale, con il quale fu invece serissimo. «Il punto è, non dimenticatelo, che a gareggiare sono militari che hanno scelto di farlo in libertà. Del resto, e ne converrete, come ogni medaglia, ha il suo rovescio anche ogni vocazione. E le corse sono uno dei tanti obblighi di un militare. Sport brutali come il pugilato o le corride spagnole sono pura barbarie. Laddove uno sport che necessita di speciali qualifiche è senz’altro una tappa dell’evoluzione umana….

Gustatevi, magari, anche il capitolo 8 della Parte seconda, l’andirivieni ossessivo-compulsivo di passi e pensieri di Karenin mentre si interroga sulla condotta di Anna e sul comportamento da tenere con lei. Magistrale, nella sua inconcludente onfaloscopia.

Il conte Vronskj
Vronskij è il perfetto uomo di mondo che sa sempre giostrarsi a voce piena fra la civetteria (dal primo incontro con Anna al racconto alla cugina Betsy, a teatro, del-la sua impresa da paciere), il cameratismo (con l’amico Jašvin e con Petrickij, ma anche con chi – Serpuchovskoj – vorrebbe ricondurlo alla “ragione”), le passioni frivole e quelle che lo sono meno. E che sempre mantiene il suo aplomb espressivo, sia quando deve convincere sottovoce Anna dei propri sentimenti nei loro incontri nascosti o in pubblico, sia quando l’isteria di Anna tocca vertici al limite del sopportabile: anche quando lo scontro verbale si fa rovente, Vronskij reagisce ma non “esonda” mai (leggete, per conferma, i capitoli da 23 a 26 della Parte settima, per esempio).

Oblonskij e Levin
L’alfa e l’omega, il gaudente con il sorriso sempre sulle labbra e il manicheo al limite (spesso valicato) del fastidioso. Dal loro pranzo iniziale fra ostriche&rombo e kaša à la russe, alla battuta di caccia, alla vita matrimoniale, TUTTO li divide.
Oblonskij non ha misura né quando mangia – sempre a quattro palmenti – né quando parla – o straparla, fra battutine, calembours più o meno azzeccati (l’orologiaio tedesco “in carica di dare la carica”, il divide et felicita, “con i rabbi sempre t’arrabbi”…) e vario civettare, né (o quasi) quando rivede il cognato dopo la morte della sorella. È “troppo”, Oblonskij, in ogni sua manifestazione – anche verbale.
Levin è l’elogio del “poco è meglio”, del rigore che induce alla lapidarietà, della moderazione eletta a regola di vita e di espressione. È colui che si concederà per qualche istante agli agi, alla bella vita e alle sue tentazioni, ma che saprà fare marcia indietro prima di finirne contaminato. Peggio di lui, quanto a inflessibilità, fanno solo i suoi due fratelli: Sergej Koznyšev (nel suo “non corteggiamento” di Varvara, per esempio) e Nikolaj Levin (le pagine della malattia e della morte di Nikolaj sono davvero portentose).

Il principe Ščerbackij e la principessa Mjagkaja
Il divertimento vero è sempre stato con loro. Per me sicuramente, ma non dubito che anche Tolstoj si compiacesse non poco di averli fra le pagine.
Del resto, come si fa a non amare il principe quando ride delle sedute spiritiche e propone, piuttosto, di giocare ad “anello, mio bell’anello”; quando usa “pispolare” riferito agli sproloqui del sedicente luminare che sta visitando la figlia e “pissipissi” per il chiacchiericcio delle figliole; quando prende in giro gli “aficionados” del circolo che frequenta (chiamandoli barlacci e inventandosi il verbo derivato), o quando rimprovera furiosamente la moglie che tifa per Vronskij:

– Che cosa avete fatto, chiedete? Ora ve lo spiego. Primo: glielo state adescando voi, il fidanzato. (…) Se decidete di ricevere, invitate tutti i possibili pretendenti, e non solo gli eletti. Invitateli tutti, quei marmocchi, – il principe apostrofava a quel modo i giovanotti di Mosca, – aggiungete qualcuno che pesti il pianoforte e lasciate che ballino! E non come oggi: buongiorno-buonasera e il matrimonio e servito! (…) Levin e mille volte meglio di quell’altro. Di quel damerino pietroburghese… Li fanno con lo stampo, quelli come lui, tutti uguali e tutti buoni a nulla. Foss’anche principe, e non conte, mia figlia non ha certo bisogno di lui! Né di lui, né di nessun altro!

Lo stesso vale per la principessa Mjagkaja, adorabile dispensatrice di vetriolo che non può fare a meno di esplodere dopo un’allusione sgradevole riguardo ad Anna, tornata da Mosca con “l’ombra di Vronskij al seguito” (come ha appena commentato una sedicente amica della Karenina).

– Vi cascasse la lingua! – proruppe la principessa Mjagkaja all’udire quel commento. – La Karenina è una donna splendida. Il marito non mi piace per niente, ma lei è adorabile.
– Perché non vi piace, Karenin? E un uomo straordinario, – disse la moglie dell’ambasciatore. – Mio marito sostiene che neanche l’Europa vanta funzionari del suo calibro.
– Il mio, di marito, dice la stessa cosa, ma io non ci credo, – rispose la principessa Mjagkaja. – E se i nostri mariti tenessero la bocca chiusa, vedremmo le cose come davvero stanno, e cioè che Karenin è un emerito imbecille. Lo dico sottovoce, ma sappiate che piano piano tutto viene a galla. Prima, quando pretendevano che lo trovassi intelligente, ho anche tentato di farmene una ragione. Ero arrivata a credere di essere io l’imbecille che proprio non gliela trovava, tanta intelligenza in corpo. Ma mi è bastato dirlo, sussurrarlo anzi, che l’imbecille è lui, e tutto s’è chiarito in un istante. O sbaglio?
– Siete proprio cattiva, questa sera!
– Neanche un po’. Tertium non datur. O è imbecille lui o sono imbecille io. E non son cose che si dicono, di se stessi.

Tolstoj venne definito “il lurido vecchio” dalla poetessa Anna Achmatova. Qual è la ragione di questo appellativo?
Lascio che sia lei a rispondere, citando direttamente un passaggio delle memorie di Lidija Čukovskaja (Incontri con Anna Achmatova, 1938-1941, trad. G. Moracci, 1990, Adelphi, pagg. 39-40):

La conversazione sulla prosa di Puškin ci porta a Tolstoj. Anna Andreevna ne parla con leggera ironia. E poi una violenta tirata contro Anna Karenina:
«Non avete forse notato l’idea principale di questo capolavoro? Se una donna lascia il marito legittimo per mettersi con un altro uomo diventa inevitabilmente una prostituta. Non state a discutere! È proprio così. E pensate solo a questo: chi è che il lurido vecchi sceglie come strumento di Dio? Chi esegue la vendetta annunciata nell’epigrafe? L’alta società: la contessa Lidija Ivanovna e un predicatore-ciarlatano. Perché sono loro che portano Anna al suicidio.
«E com’è disgustoso l’atteggiamento di Tolstoj verso Anna! All’inizio ne è semplicemente innamorato, la ammira, si compiace dei riccioli neri sulla nuca… E poi comincia a odiarla, ride perfino sul suo corpo senza vita… “impudicamente allungato”*, ricordate?»
Non discuto. Non dico nulla: mi interessa troppo sentire quello che dice. Capisco, sta dalla parte delle donne. Quando termina di parlare dico soltanto:
«Che magnifiche pagine prima del suicidio!».
«Sì, sì, certo, c’è una gran quantità di pagine geniali. Il borbottio del piccolo mužik sotto le ruote è splendido zaum’».
Ma in generale, è evidente, non ama Tolstoj.
«Sono molto amica di sua nipote Sonja. Mi ha dato un album perché vi scrivessi qualcosa. In quell’album c’è tanfo di chiuso – l’aria bigotta di Jasnaja Poljana».

* “esposto senza alcun ritegno agli sguardi altrui”, nella mia traduzione.

In una lettera all’amico e critico letterario russo, Nikolaj Strachov, scritta nell’aprile del 1876, Tolstoj commentò così la sua opera: “In tutto ciò che ho scritto sono stato guidato dalla necessità di raccogliere le idee concatenate l’una all’altra allo scopo della loro espressione; ma ogni idea espressa separatamente con parole perde il suo senso, degrada terribilmente quando viene tolta dal complesso nel quale si trova (…)”
Quanto è difficile, nel lavoro di traduzione, mantenere questo tipo di concatenazione perseguita dall’Autore?
È certamente difficile, ma è indispensabile. È lo scopo di ogni impresa traduttiva. Dico una banalità facendo il verso a Tolstoj, ma nemmeno si traducono “parole tolte dal complesso nel quale si trovano”. Si traducono parole concatenate che – soprattutto fra lingue non proprio limitrofe – non sempre hanno anelli di concatenazione perfettamente sovrapponibili. Questo per sottolineare che, al netto di una mai troppo ovvia cura per la precisione del singolo lemma, nel valutare la riuscita di una traduzione trovo spesso ozioso (per non dire inutile o persino deleterio) accanirsi su singole parole o singole frasi. La gamma sinonimica è ampia, ogni traduttore ha una sensibilità propria che inevitabilmente indirizza la sua lettura e, di conseguenza, la sua traduzione. È la sinfonia che deve risultare riuscita.

Perché “il lurido vecchio” definì in seguito la sua opera “triviale e noiosa”?
Semplificando brutalmente, la crisi spirituale che lo colse tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – conseguenza dell’evidente tracollo nell’alta società di valori che aveva creduto inviolabili – lo indusse ad avvicinarsi al Cristianesimo, ai testi sacri delle religioni orientali, a rivedere completamente la sua vita (e la sua scrittura) precedente. E Anna Karenina non poteva non finire stigmatizzata.
Credo che il modo migliore per capacitarsene sia leggere, nell’ordine, La confessione, poi Sonata a Kreutzer e Resurrezione. E tutto risulterà lampante.

Chiudiamo con Susan Sontag e il suo concetto di “traducibilità”. “Esiste – dice la Sontag – qualcosa di inerente all’opera e del tutto estraneo alle intenzioni o alla consapevolezza dell’autore, una caratteristica che emerge nel momento in cui ha inizio il ciclo delle traduzioni e che, in mancanza di un termine migliore, chiamiamo traducibilità”. Come definirebbe questo qualcosa?
Non c’è riuscita gente con “filologie” molto più a posto delle mie, a definirla, dunque mi chiamo prontamente fuori dall’impresa. Volendo provare, comunque, a rispondere senza scomodare qualche decennio di traduttologia, translation studies et similia, sul nostro essere “plurali” di un unico e solo singolare (il testo originale) dell’ormai celeberrimo testo di Susan Sontag vorrei – piuttosto – citare un altro passo:

Se la fedeltà parola per parola e l’eccellenza letteraria sono incompatibili nella lingua di arrivo, quanto può essere “libera” una traduzione coscienziosa? Il primo compito dei traduttore è forse quello di cancellare l’estraneità di un testo, per riformularlo secondo le norme della nuova lingua? Non esiste traduttore serio che non si ponga tali problemi: come il balletto classico, la traduzione letteraria è un’attività guidata da modelli irrealistici, vale a dire da modelli tanto rigorosi che generano fatalmente in chi vi si dedica con maggiore ambizione un certo inappagamento, o la sensazione di non essere quasi mai all’altezza. E, al pari del balletto classico, la traduzione letteraria è un’arte di repertorio. Le opere ritenute più importanti vengono regolarmente ritradotte: perché la resa appare ormai troppo libera, o non sufficientemente accurata; perché si pensa che le vecchie traduzioni contengano troppi errori; o perché la lingua, che all’epoca sembrava trasparente, ora appare datata.
I ballerini si esercitano nello sforzo di raggiungere l’obiettivo non del tutto chimerico della perfezione: un’espressività esemplare e priva di errori. Nel caso della traduzione letteraria, però, considerati i molteplici obblighi cui essa deve rispondere, la resa può essere eccellente, ma mai perfetta. La traduzione comporta sempre, e per definizione, una perdita della sostanza originale. Tutte le traduzioni si rivelano, prima o poi, imperfette, e alla fine, anche nel caso delle rese più esemplari, finiscono per essere considerate provvisorie.

E infine, com’è stato vivere accanto ad Anna per quasi due anni?
È stata una responsabilità enorme. Che ho cercato di affrontare con quel minimo di leggerezza (Furio ne è testimone) che mi permettesse di sopravvivere.
Ora sta a voi leggere e dirmi se e quanto sono riuscita nell’intento.