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Margaret Mitchell una di noi

Nel 1937 Margaret Mitchell, l’autrice di Via col vento, vinse il premio Pulitzer per la narrativa. Anche se l’adattamento cinematografico ha superato di molto in popolarità il romanzo, i temi del Bildungsroman di Scarlett O’Hara, il suo percorso da bambina viziata a donna potente, la sua ricerca dell’amore, i suoi complicati rapporti con la famiglia e la società sono ancora assai vivi nell’immaginario americano. Un sondaggio del 2014 fra i lettori di narrativa collocava questo libro al secondo posto dopo la Bibbia. Per capire perché, ottant’anni dopo, Via col vento sia ancora considerato una pietra miliare in àmbito culturale, basta volgere lo sguardo al Sud degli Stati Uniti. Nella contea di Clayton in Georgia, dove sono cresciuta io, non si può ad esempio girare per una strada o un viottolo senza ripensare a Via col vento. Tutte le nonne del posto, compresa la mia, avevano da raccontare una storia sulle volte in cui la giovane Margaret Mitchell arrivava in visita. «Aveva parenti qui» diceva mia nonna. «Margaret Mitchell era una di noi.»

Non ho mai incontrato Mitchell e non pretendo di conoscere i suoi pensieri intimi, ma da quel che ho letto di lei non credo proprio che si sarebbe considerata una di noi. Da ragazza, Mitchell leggeva libri di avventure «per ragazzi» e scriveva storie appassionate ed emozionanti che teneva nei quaderni di scuola. All’università collezionava materiale erotico e pornografico, e mantenne questo interesse per tutta la vita. Sposò un uomo violento e alcolizzato, poi divorziò e si risposò con John Marsh, il migliore amico del primo marito. Scandalizzò la società perbene di Atlanta perché non assunse mai il cognome di Marsh. In un periodo in cui ci si aspettava che le donne assumessero i ruoli di mogli e madri, Mitchell prese un lavoro al giornale locale, dove fu criticata dai lettori perché scriveva di «donne forti che non corrispondevano agli standard accettati della femminilità». Di sicuro questi aspetti avrebbero escluso che Margaret Mitchell potesse essere considerata da mia nonna «una di noi». Ma la sua notorietà, il riconoscimento internazionale e il grande successo di Via col vento, sia nelle librerie che al cinema, spingevano mia nonna a ignorare tutte le prove contrarie e ad accogliere Mitchell nella nostra tribù.

Noi esseri umani tendiamo a ignorare i difetti dei nostri eroi e a esagerare le magagne dei nostri nemici. Vogliamo che i nostri idoli siano persone buone, e se non è così, ci accontentiamo che lo siano almeno un poco. E nel Sud Scarlett O’Hara è il tipo di eroina che va oltre la bontà, si avvicina alla perfezione. In molte piccole città è più venerata della Madonna. Si vede la sua immagine sulle confezioni di carta igienica, in cima alle torte nuziali, appesa alle finestre e raffigurata sui muri, stretta a Rhett Butler mentre Atlanta brucia in lontananza. Scarlett O’Hara era una delle eroine della mia infanzia. Era la perfetta combinazione di femminilità del Sud e di forza femminile. Non sono la sola a pensarlo. Si potrebbe dire che ognuno può vedervi quel che ama. La Scarlett O’Hara di mia nonna era una vera signora del Sud. La Scarlett della mia matrigna era una donna d’affari indipendente. La mia era una tremenda femminista.

Chi ha solo visto il film non capisce quanto il personaggio di Scarlett sia affascinante e pieno di sfaccettature. Era un’eroina in un tempo in cui le donne non lo erano. Era così forte da lavorare in un campo di cotone o gestire un fiorente commercio di legname mentre badava alla famiglia. Era spietata. Era motivata. Non era simpatica come devono esserlo molti personaggi letterari, soprattutto le donne. Non era nemmeno bella.

Dato che nel film è stata impersonata da Vivien Leigh, nel nostro immaginario collettivo la mancanza di bellezza di Scarlett si è persa. È vero che un personaggio, una volta creato e mandato per il mondo, non ci appartiene più, ma non riesco a immaginare che Mitchell potesse vedere il suo personaggio così originale rappresentato da una donna bella come Leigh. Ma questo è ciò che fa di Scarlett O’Hara una figura senza età. Per alcuni, è un esempio della raffinatezza del Sud. Per altri è racchiusa in quella famosa ultima frase sul «domani è un altro giorno», una donna amara che non riesce a tenersi un uomo. Curiosamente nessuno si sofferma mai su un tratto del suo personaggio che è inequivocabilmente vero: Scarlett O’Hara possedeva degli schiavi. Scarlett O’Hara si giovava dell’istituzione della schiavitù. Lei stessa aveva degli schiavi. Sfruttava il loro lavoro. Li picchiava, minacciava e denigrava. Fu causa, volontariamente, della caccia a (e dell’esecuzione di) schiavi liberati.

Per molti lettori bianchi – e non solo del Sud – la schiavitù così come è rappresentata in Via col vento è solo un elemento della trama. Questo libro è uno dei grandi romanzi americani e i nostri eroi non possono essere proprietari di schiavi. Erano vicini agli schiavi. Erano riluttanti a partecipare. Hanno lottato per affermare i diritti dei loro Stati. C’erano persone cattive da entrambe le parti.

Sei anni dopo l’assegnazione del Pulitzer a Mitchell, George Orwell scrisse nel saggio As I Please che «la storia è scritta dai vincitori». La Guerra civile americana rappresenta un’eccezione evidente a questa regola. Il Sud – di fatto, la nazione – ha trovato il modo, attraverso la cultura popolare, di riscrivere la storia della Guerra civile. In tutto il paese ci sono strade, statue e edifici statali che prendono il nome di uomini che hanno fatto la guerra contro gli Stati Uniti. Gli schiavi degli Stati Uniti del Sud furono liberati nel 1863, ma alla fine degli anni Venti e agli inizi degli anni Trenta, quando Mitchell scriveva la storia che divenne Via col vento, stavano cominciando a imporsi altri fatti e improvvisamente una guerra in cui dei traditori cercavano di separarsi dagli Stati Uniti con la forza assunse il nome romantico di Lost Cause («causa persa»). Le pagine iniziali di Via col vento sono un perfetto esempio della teoria della Lost Cause. Si vedono gli ansiosi gemelli Tarleton pronti a prendere le armi per difendere il loro elegante modo di vivere. Ashley Wilkes rappresenta il soldato riluttante che trova spiacevole la schiavitù, ma sente il bisogno di proteggere l’autonomia del Sud. Poi c’è Rhett Butler, a cui sembra non interessare chi sia a vincere o perdere, se può trarne un profitto. Nessuno è particolarmente preoccupato della schiavitù, mentre individui felici e dalla faccia scura si danno da fare per servire liquori, lucidare gli stivali, e sembrano molto contenti di essere schiavi, perché chi non vorrebbe aiutare una sedicenne viziata a strizzarsi nel corsetto? La schiavitù finì con la Guerra civile, ma il suo spirito persistette nella forma delle leggi discriminatorie dette «Jim Crow», e anche dopo il 1968, quando fu approvata la legge sui diritti civili, il flagello della segregazione razziale sopravvisse e continua fino ai nostri giorni.

Da adolescente, Mitchell recitò travestita da eroico membro del Ku Klux Klan. Molti dei libri che leggeva da bambina raffiguravano i bianchi del Sud come vittime degli yankee occupatori e degli schiavi liberati. Suo nonno e il suo bisnonno avevano entrambi fatto parte dell’esercito confederato. Margaret Mitchell è stata nutrita fin da bambina con i luoghi comuni della Lost Cause, non c’è quindi da stupirsi che ne abbia scritto in maniera così convincente. In un altro punto del suo saggio, Orwell afferma: «Un certo grado di veridicità era possibile se si ammetteva che un fatto poteva essere vero anche se non ci piaceva». Via col vento è una storia fantastica su una donna che si fa strada nel mondo. È anche una storia che ignora il genocidio prodotto dalla schiavitù in America. La Guerra civile fu combattuta per affermare il diritto di autodeterminazione dei singoli Stati. Fu combattuta anche per sopprimere l’autodeterminazione per le persone di colore. Margaret Mitchell meritava di vincere il premio Pulitzer. Margaret Mitchell ha scritto un libro che ha contribuito a convincere milioni di persone della nobiltà del Sud nella sua lotta per proteggere la nostra «particolare istituzione».

Non sapremo mai come si sia evoluto – o non si sia evoluto – il pensiero di Mitchell negli anni successivi a Via col vento. Fu uccisa nel 1949, a quarantotto anni, da un guidatore ubriaco sulla Peachtree Street. Nei suoi ultimi anni, quella che poteva forse essere considerata la più grande progenitrice della Lost Cause finanziò diverse borse di studio per la facoltà di Medicina di una delle università storicamente nere di Atlanta. Diede un ampio contributo finanziario per dotare di un pronto soccorso per i neri l’unico ospedale pubblico di Atlanta. Finché Mitchell fu in vita, nessuno seppe di queste donazioni. Il suo autista, un uomo di colore, era incaricato di consegnare grosse buste di denaro a singole persone. Neppure il suo commercialista ne sapeva nulla. Se nel suo entourage fosse circolata la voce della sua generosità, sarebbe stata ostracizzata – o anche peggio – per aver aiutato la comunità nera.

A questo punto, dopo ottant’anni, se guardiamo alla vita di Margaret Mitchell nel suo complesso, possiamo considerarla una rappresentante dei buoni o dei cattivi? Razzista o progressista? Apologeta o antagonista? Cronista? Istigatrice? Romantica?

La risposta a queste domande dipende probabilmente da quanto abbiamo amato – o odiato – Via col vento. Mitchell non scrisse mai un altro romanzo. È sepolta nel cimitero di Oakland a Atlanta, l’unico cimitero dove i soldati unionisti e confederati sono sepolti fianco a fianco. La sua tomba non è un mausoleo o un monumento grandioso, ma una semplice lastra di marmo. Molti non la notano, perché il suo nome è scritto come lei stessa avrebbe voluto essere ricordata: Margaret Mitchell Marsh. Da morta prese finalmente il nome del marito. In vita rappresentò il mondo non come era, ma come desiderava fosse stato. Forse era una di noi, dopotutto.