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Natalia Ginzburg, una scrittura onesta e trasparente

Natalia Ginzburg ha scritto che c’è il pericolo di «truffare con le parole che non esistono in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che mettiamo insieme con destrezza perché siamo diventati piuttosto furbi». C’è il pericolo di fare i furbi e truffare. Il mestiere dello scrittore – scrive nel saggio autobiografico Il mio mestiere – è difficile ma è «il più bello che ci sia al mondo».[1]
I suoi commentatori da Cesare Garboli a Domenico Scarpa sono concordi nel sottolineare la sua forza intellettuale, assai diversa dai codici della cultura maschile, che è composta da spontaneità primitiva (secondo Garboli) e viscerale (aggiunge Scarpa) di cui in parte si compiace (l’aveva detto l’amico Cesare Pavese) ma che ha il potere di scuotere le coscienze di ognuno di noi, lettrici e lettori di oggi.

Lo sguardo della Ginzburg sul mondo e sulla vita è uno sguardo assoluto, interiore e potentissimo.

È uno sguardo che si deve tradurre – e la Ginzburg è traduttrice – nella parola onesta, ‘de-furbizzata’ che è dentro di noi e non fuori di noi. È uno sguardo che interpreta la realtà – e la Ginzburg è anche saggista – attraverso la rielaborazione complessa del ricordo.

C’è il pericolo di truffare, dice, di fare i furbi, quando si scrive: le tre Ginzburg (scrittrice, traduttrice e saggista) sono legate tra loro, ed a noi, da questo patto di onestà. Cesare Zavattini aveva detto che non è facile ‘defurbizzare’ un ambiente perché la furbizia consente di ottenere il massimo con il minimo prezzo.[2] La parola onesta e defurbizzata della Ginzburg è la ricerca di una semplicità e di una morale dell’essere nel mondo ma faticosamente, cioè senza furbizia. Ci sarebbe molto da discutere su come questa speciale sensibilità per la parola onesta della Ginzburg abbia creato, più o meno consapevolmente, una indicazione di gusto negli anni Settanta in alcuni scrittori irregolari più giovani, che, tuttavia, sembrano gravitare lontanissimi da lei, come un Celati o un Manganelli, per esempio.

Lo sguardo assoluto della Ginzburg sembra selezionare, isolare e sezionare meticolosamente porzioni di vita da raccontare, sempre con il suo sguardo indagatore ed indipendente.

Una delle caratteristiche più evidenti della sua vena narrativa è quella di darci l’illusione di appartenere al suo mondo, di riconoscere la sua voce in ogni nuovo racconto e di condividere, come se fossero nostri, i suoi sentimenti, le sue emozioni.

L’illusione di realtà della sua scrittura è fatta del fascino di questa sua scrittura onesta e trasparente nella quale l’ Io diventa immediatamente un noi. Quindi ‘noi’ ci riconosciamo nel racconto del suo temperamento, nel racconto della sua timidezza e della sua reticenza, ma anche nel racconto del suo coraggio e della sua caparbietà. Questo avviene, ad esempio, nel racconto I rapporti umani dove la ricerca di una identificazione tra l’io ed il noi è la richiesta di una appartenenza.

L’evidenza di questa identificazione è parte dell’incantesimo della sua scrittura naturale e trasparente, che non crea apparentemente separazioni ma unisce NOI a lei. Siamo timidi da adulti, scrive, ma cerchiamo le parole giuste, le troviamo e siamo felici di avere, da adulti, ancora tante parole per il prossimo:

Timidamente cerchiamo le parole giuste in noi. Ci rallegriamo tanto di trovarle con timidezza ma quasi senza fatica, ci rallegriamo d’avere così tante parole in noi, così tante parole per il prossimo, che siamo quasi ubriacati di facilità, di naturalezza.[3]

Ma queste parole giuste, trasparenti, naturali e da condividere con il prossimo fanno parte di un raffinato gioco tra realtà e finzione letteraria: sono racconti. Voglio dire che il fascino della sua scrittura trasparente risiede nel far credere con naturalezza e semplicità una cosa improbabile: e cioè convincere chi legge di conoscere la vera Ginzburg come una persona di famiglia; il che è evidentemente assurdo.

La creazione della ‘Ginzburg personaggio’ nella nostra immaginazione di lettori è altra cosa dalla ‘Ginzburg persona’, che ci rimane totalmente sconosciuta. Tuttavia noi lettori cerchiamo nei suoi racconti la sua voce vera e musicale come una voce di famiglia: una amica, una sorella, una madre, una nonna che parla con noi, onestamente. Una voce che ci consola dei nostri errori – essendo una sostenitrice degli errori e degli insuccessi – che ci incoraggia se ci sentiamo talvolta o molto spesso degli impiastri nel mondo – definendosi lei stessa più volte un impiastro – che ci perdona se siamo troppo pigri – descrivendosi come una donna pigra con il «vizio di cadere nell’inerzia e nel sogno»[4]  ci solleva dall’ansia di dimostrare una cultura – essendo la Ginzburg orgogliosa sostenitrice del non sapere e del non capire: non ci capisco niente– scrive spesso – di musica, di pittura o di politicaTuttavia ne voglio parlare. Una donna che ci mette in guardia dai pericoli della vecchiaia che si propaga con il colore nero della noia, come la seppia e il suo inchiostro: ci racconta pedagogicamente gli effetti che sente su di sé, come la perdita della facoltà di stupirsi e di stupire gli altri. Effetti, che alla fine, percepiamo anche su di noi, costringendoci ad un forzato esame di coscienza per non diventare seppia e inchiostro:

L’incapacità di stupirsi e la consapevolezza di non destare stupore, farà sì che noi penetreremo a poco a poco nel regno della noia. La vecchiaia s’annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia attorno come la seppia propaga l’inchiostro. Noi così ci prepariamo a essere insieme e la seppia e l’inchiostro: il mare intorno a noi si tingerà di nero e quel nero saremo noi: proprio noi che il colore nero della noia l’abbiamo odiato e rifuggito tutta la vita.[5]

Una donna che ci accompagna nei passaggi d’età, da giovane madre a vecchia madre. Una madre, in definitiva, che si specchia nella realtà mutevole della sua esistenza e si scopre uguale e diversa da se stessa nel governo delle cose domestiche. Una vecchia madre che si rappresenta come un avvoltoio, in attesa del risveglio dei suoi cari: li aspetta per poter seguire i loro progetti e, poi, per poter ripulire la casa dal loro selvaggio passaggio, con quel torvo amore per i lavori di casa che ha sviluppato negli anni:

La vecchia non si muove dal suo divano; è là appostata come un avvoltoio, con gli artigli posati su una roccia. Fuma, coltiva i suoi quattro pensieri, e guarda di là dai vetri olivi e vigne immersi nella nebbia dell’alba.[6]

Uno strano personaggio, alieno e borgesiano, che porta dentro di sé contemporaneamente tutte le età, offrendosi a noi come bambina, adolescente, donna giovane e donna anziana. Una sorta di donna-aleph, che contiene tutti i tempi contemporaneamente: una vecchia che combatte contro il nero della seppia e che si rappresenta in modo ridicolo come un avvoltoio in attesa di calare sulla casa, sulla famiglia. Ma anche simultaneamente una bambina assetata di compagnia e incapace di sopportare la volontà del prossimo,[7]una adolescente sognatrice, malinconica e, come tutte le adolescenti, insoddisfatta di sé e rivendicativa con i genitori:

Insieme alla malinconia, era nata in me anche l’invidia; sentivo invidia per tutti. Le uniche persone che non invidiavo erano i miei genitori: perché mi piacevano poco, quanto poco io piacevo a me. Essi abitavano con me nella nostra spregevole casa; si scambiavano discorsi che sapevo a memoria. Facevano parte di quello che più al mondo mi sembrava odioso e squallido, e cioè me stessa; erano colpevoli della mia immensa malinconia, avendola generata insieme con me, e tuttavia non ne capivano nulla, continuando a scambiarsi, su cose di nessuna importanza, parole che mi sembravano di una inutilità rivoltante.[8]

Una giovane madre dolce e determinata con i suoi figli, sola contro la Storia: Natalia Ginzburg attraversa e rispecchia la storia dell’Italia del Novecento; nei suoi racconti e nel suo romanzo maggiore (Lessico famigliare, del 1963 che com’è noto vinse il Premio Strega) i grandi eventi sono filtrati, decostruiti nelle sue microstorie e ricollocati nella pagina da una memoria immaginativa e combinatoria, ricchissima e creativa, a volte giocosa ed imprevedibile.
Il dibattito sul realismo e sulla fantasia della Ginzburg è stato lungo e complesso: molte pagine sono state scritte dalla stessa Ginzburg saggista, riprese da Garboli, da Segre e da moltissimi altri ed esse fanno parte della storia della letteratura italiana contemporanea. Voglio solo guardare da vicino questo trucco della sua scrittura trasparente, che sembra appoggiarsi sulla realtà come un vetro cristallino. Questa scrittura di vetro ha lo scopo di far vedere meglio le imperfezioni della realtà, che sono messe in evidenza da una pennellata di fantasia, del tutto libera ed imprevedibile. In Ritratto di scrittore – che è un autoritratto – confessa che la sua fantasia non è né avventurosa, né generosa ma una fantasia arida, stenta e gracile.[9]Ovviamente non bisogna credere del tutto alla verità delle sue confessioni. Inconsapevolmente, forse, aveva rivelato un certo trucco della sua fantasia combinatoria già nell’Avvertenza di Lessico famigliare:

Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato.

Bene, è detto chiaro e tondo che non ha inventato niente. Però poi si congeda a sorpresa così: «La memoria è labile. I libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito».

Cioè, unendo le frasi d’inizio e di fine della Avvertenza al lettore, Natalia Ginzburg ci sta dicendo: non ho inventato niente ma la memoria è labile. I libri tratti dalla realtà sono solo schegge e barlumi di ciò che noi (cioè io) abbiamo visto e udito. Non dice che sono schegge di realtà, ma c’è un filtro ulteriore: sono schegge e barlumi di ciò che abbiamo visto e udito. È evidente che la memoria è un processo di rielaborazione non realistico o veritiero, perché la memoria è l’immaginazione di ciò che si è visto o udito: è un processo creativo in cui l’Io diventa un Noi che ci implica, coinvolgendoci in un rapporto di collaborazione strettissimo.

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Dopo anni di studi storici e letterari sulla memoria del Novecento e delle sue guerre, siamo tutti convinti che la memoria storica e l’autobiografia, che dalla astratta memoria dovrebbe dipendere, non ci rivelano affatto la verità storica: la verità è personale e dipende solo da chi ricorda. Ma quali barlumi e schegge escono dalla memoria immaginativa della Ginzburg?
Posso solo brevemente riassumere, con un senso di vertigine. C’è la Ginzburg che racconta la sua vita tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta: da La strada che va in città (1941)scritto quando era al confino con il marito Leone Ginzburg a Lessico famigliare (1963)che racconta la storia della sua famiglia ebraica e antifascista, i Levi, trapiantata a Torino: la sua vita di bambina (i Levi a Torino nel 1919) e di ragazza che trascorrono angosciosamente sotto il fascismo, le leggi razziali, lo scoppio della guerra, l’invasione tedesca dell’Europa, i campi di sterminio, la Resistenza e la Liberazione, la Ricostruzione. Dalla Torino borghese degli anni Trenta all’ Abruzzo della giovane famiglia Ginzburg: noi viviamo con la giovane Natalia Levi che perde tragicamente il suo primo marito e rinasciamo come Natalia Ginzburg, icona della casa editrice Einaudi, fondata da Leone. Viviamo con lei la vita della casa editrice dagli albori alla crisi della Einaudi degli Anni Ottanta. E poi la nuova vita in Inghilterra con il secondo marito, Gabriele Baldini, immortalato nel gustoso raccontino coniugale Lui e io e la stesura del nuovo romanzo Le voci della sera.[10] La ricerca di una nuova casa a Roma (che diventa il racconto La casa scritto nel 1965):[11] una Roma della maturità e poi della vecchiaia, assai diversa dalla prima, quella della ricostruzione e lontana dalla Torino dei suoi anni giovanili. L’arrivo di giovani intellettuali che entrano nell’orbita della Ginzburg sono Cesare Pavese, Italo Calvino a Giulio Bollati, tra quelli più noti. Della vita intellettuale del dopoguerra scrive in Lessico famigliare:

Romanzieri e poeti avevano digiunato negli anni del fascismo, digiunato non essendovi intorno  molte parole che fosse consentito usare. Ora c’erano molte parole in circolazione e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni.

E l’editore a quei tempi? Era «bello, roseo col collo lungo, i capelli lievemente ingrigiti sulle tempie come ali di tortora. La sua timidezza, scrive, intimidiva gli estranei, i quali si sentivano avvolti d’uno sguardo azzurro, luminoso  e glaciale, che li indagava e li soppesava di là dal grande tavolo di vetro, a una glaciale e luminosa distanza. Quella timidezza era così diventata un grande strumento di lavoro. Quella timidezza era diventata una forza, contro la quale gli estranei venivano a sbattere come farfalle sbattono abbagliate su un lume, e se erano venuti là sicuri di sé con bagagli di proposte e di progetti, si ritrovavano poi al termine del colloquio stranamente spossati e sconcertati, col dubbio sgradevole di essere forse un po’ stupidi e ingenui, e d’aver mulinato progetti senza nessun fondamento, alla presenza d’una fredda indagine che li aveva scrutati e sceverati in silenzio».[12]

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Seguendo la composita memoria dei suoi racconti, siamo catapultati di nuovo negli anni della rivoluzione giovanile, gli anni Sessanta e Settanta: pubblicato nel 1973 Caro Michele è probabilmente il primo romanzo italiano che mette in scena la storia di un giovane terrorista (il film di Mario Monicelli è del 1976), attraverso il meccanismo narrativo del romanzo epistolare: lettere della madre in cerca di un dialogo intenso con il figlio.

La Ginzburg, dunque, emerge come personaggio che ha contemporaneamente tutte le età. Un personaggio che attraversa tutte le storie con questo sguardo assoluto e attento ai particolari e che cattura le persone senza esserne catturata. La Ginzburg stende sulla realtà il velo trasparente della sua scrittura, solo apparentemente semplice; così la realtà viene frantumata nei ricordi e trasformata in un nuovo mondo di parole: parole oneste che vengono da dentro di lei e si nutrono della loro semplice musicalità, come quella dei bambini che giocano con le parole. È una scrittrice, infine, la cui musica interiore diventa la nostra musica, scandita dal ritmo delle parole scelte con cura e con gusto: anzi, con un gusto ricercato del suo speciale ritmo interiore, che vive dentro di lei.

La carrellata di personalità che orbitano intorno alla famiglia Levi è, come è noto, sorprendente.

Una famiglia sorretta imperiosamente dall’impressionante padre, lo scienziato Giuseppe Levi chiamato dalla moglie Lidia affettuosamente, quanto contrastivamente (per via dell’evidente caratteraccio), Beppino: una eccellenza nel campo medico-scientifico che ha cresciuto premi Nobel.

E poi, personalità centrali della Storia d’Italia: da Filippo Turati ad Adriano Olivetti (marito della sorella Paola) a Leone Ginzburg, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, i Balbo ai quali fanno da contraltare le gesta dei fratelli più grandi e le persone modeste ma radicate negli affetti, come la Natalina, governante di casa Levi, così rassomigliante, come scrive, a Luigi undicesimo: il mio Luigi undicesimo  diceva mia madre. Un coro famigliare che si esprime nella condivisione delle parole di casa Levi, che diventano le nostre e che ci ispirano a comporre il nostro lessico famigliare, scavando nella nostra memoria. Quelle famose, onomatopeiche ed espressive del padre: il padre, definito cioè come un linguaggio: non fate sbrodeghezzi, non fate potacci, sono tutti fufignezzi, sgarabazzi, sempre a dir sempiezzi, sempre a fare il teatrino.

Si è parlato del padre Levi come di una figura paterna autoritaria da far tremare i bambini e non solo. Ma la Ginzburg descrive il padre che strapazza la famiglia con la sua esplosiva personalità con un gusto quasi fumettistico e molto divertente: la sua strana camminata, le sue sfuriate, il suo fendere la folla di studenti a testa bassa come un bufalo, la sua voce sempre troppo alta, la sua buffa gestualità, come  per esempio il modo di esprimere impazienza per le cose che si dicono mentre si è a tavola: «spostava il bicchiere, spostava il pane, spostava le posate e si batteva il tovagliolo sulle ginocchia». Così diverso dalla madre, e tuttavia alla fine così uniti nella memoria della Ginzburg, tanto che i loro discorsi ed il loro ciuciottareaprono e chiudono musicalmente Lessico Famigliare.
Vediamo questa musica famigliare delle parole, che apre e chiude il Lessico. La mamma ama raccontare una storia, quella dello zio Barbison, soprannominato il Demente perché era medico dei matti e del signor Lipmann, paziente delle sua clinica. Ogni volta racconta questa storiella come se fosse sempre la prima volta.

Il Demente nella sua clinica aveva un matto, che credeva di essere Dio. Il Demente ogni mattina gli diceva: Buon giorno, egregio signor Lipmann – E allora il matto rispondeva – Egregio forse sì, Lipmann probabilmente no! perché lui credeva di essere Dio.[13]

Una microstoria ricorsiva della madre, che apre e chiude il dialogo dei genitori Levi ed il libro stesso come un vero e proprio ritornello musicale:

– Egregio signor Lipmann, – disse mia madre – ti ricordi come diceva? E poi diceva sempre ‘Beati gli orfani’! Diceva che tanti matti erano matti per colpa dei loro genitori. Beati gli orfani, diceva sempre.[14]

Anche la frase ricorsiva del padre (Quante volte l’ho sentita contare questa storia!) è l’ ultima nota musicale che chiude il fraseggio dei genitori e, infine, il libro.

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Nel maggio del 1990 per quattro domeniche consecutive Natalia Ginzburg partecipò ad un ciclo a lei dedicato nella trasmissione radiofonica Antologia in onda su Radio Tre condotta da Marino Sinibaldi. Cesare Garboli e Lisa Ginzburg ne hanno tratto un libro: È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Ad un certo punto la vera Ginzburg dice questa frase: «parlare agli altri è più importante che i nostri casi personali». Stava parlando del suo distacco dalle cose e della sua scrittura come servizio. Ricordava  l’amica Elsa Morante e la sua capacità di distacco dal sentimentalismo e dalle strumentalità di un linguaggio furbo. Dice di ispirarsi a Cechov e più volte, afferma di sentirsi vicina a Montale: «io cerco il distacco, ma non sono capace di scrivere se non dicendo ‘io’, o un io inventato o un io reale».[15] Ed è la stessa cosa che fa con le sue opere di teatro (Ti ho sposato per Allegria 1965fino a L’intervista 1989): far parlare i personaggi senza sovrastrutture o strutture, così semplicemente.[16]

Forse è il distacco di uno sguardo assoluto – centrale ed al contempo eccentrico rispetto al mondo che rappresenta – senza filtri intellettuali: uno straordinario distacco anche nei confronti della cultura dominante maschile. E qui troviamo la frase più sorprendente, che ci fa innamorare di ‘Natalia Ginzburg personaggio’, questo personaggio alieno, onesto all’estremo e che dice: «credo di mancare di retroterra culturale, cosa di cui ho sempre sentito l’assenza e che mi dispiace. Io non sono mai riuscita a essere colta».[17] Le stesse parole le leggiamo nel racconto coniugale, dedicato al secondo marito, Lui e io.

Nel suo racconto diffuso del mondo, intrappolato nei suoi vari racconti, la Ginzburg ci ha consegnato diversi ritratti, alcuni bozzettistici e divertenti come abbiamo visto ed altri più gravi e pensosi. Siamo abituati, forse, a riconoscere la Ginzburg grave, raffreddata dalla malinconia. Si può leggere anche quella lieve e passionale, che osa giocare; la passionalità di una donna che sa vedere con il suo sguardo indagatore i contrasti della vita e delle persone.

Nel racconto I baffi bianchi (i baffi di uno sconosciuto che la insegue bambina per strada) racconta della sua difficoltà ad andare a scuola dopo anni in cui ha studiato sola, protetta dalle mura domestiche. Ad un certo punto la madre e la sorella decidono di mandarla a scuola da sola per cercare di equilibrare gli effetti del suo isolamento, che l’aveva fatta diventare un impiastro, come dice la sorella alla madre. L’interpretazione interiore del gesto educativo della madre, assolutizzato nei due momenti di protezione e libertà, è quasi comico:

Non serbavo rancore a mia sorella: tutto il rancore lo destinavo a mia madre, che aveva fatto di me un impiastro e poi mi abbandonava nella strada.[18]

Il contrasto o il tema del doppio parodico è fonte di una aggraziata comicità nel confronto di personalità  tra lei e il marito Baldini, Lui e io:

Lui ama il teatro, la pittura e la musica: soprattutto la musica. Io non capisco niente di musica, m’importa molto poco della pittura e m’annoio a teatro. Amo e capisco una sola cosa al mondo, ed è la poesia.[19]

Come una bambina che ama gli animali, le piace accostare la natura e alle cose ed anche a se stessa: dice di cantare così male, lamentosamente come il miagolio di un gatto, descrive il padre mentre fa la doccia gelata di inverno con un urlo come un lungo ruggito. Sente i propri errori strisciare come fruscii di topi in corsa nella notte. Spesso, quindi, compaiono animali: l’avvoltoio, i topi, le seppie, i gattini e le tigri.

Raccontare il vero è come portare a spasso le tigri, inventare è come giocare con i gattini:

A confronto di raccontare il vero, inventare gli sembra che fosse per lui come giocare con una nidiata di gattini; raccontare il vero per lui è come muoversi in mezzo a un branco di tigri. Dice a volte a se stesso che a uno scrittore tutto è legittimo purché scriva: anche liberare delle tigri e portarsele a spasso. Però in verità non gli sembra che gli scrittori abbiano diritti diversi dall’altra gente. Così si trova davanti a un problema che non sa risolvere. Non vuole essere un pastore di tigri.[20]

Vediamo infine il celebre omaggio all’amico Cesare Pavese, suicida a pochi passi dalla sede torinese della Einaudi (Ritratto di un amico), dove il contrasto dell’animo si fa corpo:

Si era creato con gli anni un sistema di pensieri e di principi  così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice… Aveva negli ultimi anni un viso solcato e scavato, devastato da travagliati pensieri: ma conservò fino all’ultimo, nella figura, la gentilezza di un adolescente.[21]

Il viso scavato di un adolescente invecchiato guarda pensoso una Ginzburg che sa cercare le parole giuste per raccontare il suo dolore, la sua determinazione alla morte.
Parole oneste perché l’onestà, dice parlandoci del libro Cuore, ma anche l’onore ed il sacrificio sono ormai estranei al nostro mondo. Abbiamo bisogno di trovare per le cose che amiamo, parole nuove e vere.[22]

C’è il pericolo di fare i furbi e di truffare, ci dice, «perché il mestiere dello scrittore si nutre anche di cose orribili, mangia il meglio e il peggio della nostra vita, i nostri sentimenti cattivi come i sentimenti buoni fluiscono nel suo sangue».[23]

Il mestiere di scrivere, conclude, «si nutre e cresce in noi»: si fa sangue, e dunque, si fa passione.