Rebecca libri

Sul dialogo (Martin Buber, San Paolo Edizioni, 2013)

I

DESCRIZIONE

RICORDO PRIMORDIALE

Il sogno del doppio grido 

Lo stesso sogno mi ritorna in tutte le sue variazioni, a volte dopo un intervallo di anni. Lo chiamo il sogno del doppio grido. L’ambiente in cui si svolge è sempre simile, un mondo semplice, «primitivo»: mi trovo in una vasta caverna, come le latomìe di Siracusa, o in una costruzione di fango, che al risveglio mi ricorda i villaggi dei fellah, o anche ai margini di una gigantesca foresta, di cui non ricordo averne visto l’uguale. 

Il sogno inizia in modi molto diversi, ma sempre con il fatto che mi capita qualcosa di straordinario, per esempio che un piccolo animale, simile a un cucciolo di leone, il cui nome conosco in sogno, ma non al risveglio, mi sbrana il braccio, e solo a fatica riesco a tenerlo a bada. Ora, lo strano è che questa prima parte del racconto sognato, di gran lunga la più significativa, tanto per la durata quanto per il significato manifesto degli avvenimenti, si svolge sempre in un tempo accelerato, come se non riguardasse il sogno. Poi improvvisamente rallenta: io sono là e chiamo. 

Ripensando all’intero sogno, da sveglio, dovrei supporre che, a seconda di ciò che lo ha preceduto, il grido sia di volta in volta gioioso, terrorizzato, e talvolta a un tempo dolente e trionfante. Ma, al mattino, la mia memoria non me lo riporta così carico di sentimenti e ricco di variazioni; ogni volta è lo stesso grido, non articolato, ma rigorosamente ritmico, che si spegne e rinasce, che cresce fino a una pienezza che, da sveglio, la mia gola non sopporterebbe, lungo e lento, lentissimo e lunghissimo, un grido-canzone; quando termina, mi si fermano i battiti del cuore. Ma allora, da qualche parte, in lontananza, si alza rivolto a me un altro grido, diverso e uguale, lo stesso grido gridato o cantato da un’altra voce, e tuttavia non uguale, no, per nulla affatto «eco» del mio, piuttosto sua vera «restituzione», che non ripete, neanche in forma indebolita, suono dopo suono, i miei suoni, ma che corrisponde e risponde al mio grido; in modo tale che i miei suoni, che un momento prima non risuonavano affatto come domande al mio orecchio, ora tali mi appaiono: una lunga serie di domande, che tutte ricevono risposta; risposta e domanda indecifrabili. E tuttavia le grida che rispondono all’unico uguale grido non sembrano assomigliarsi. Ogni volta è una voce nuova. Ma, appena la risposta è al termine, nell’attimo successivo all’onda che si è spenta, mi invade una certezza, un’autentica certezza onirica: ora è accaduto. Niente di più. Solo questo, proprio in questo modo: ora è accaduto. Se cercassi di spiegarlo, dovrei dire che quell’evento, che produsse il mio grido, solo ora, con la «restituzione», è avvenuto in modo vero e indubitabile. 

Ora è accaduto

Così ogni volta il sogno si è ripetuto, tranne una volta, l’ultima, due anni fa. 

All’inizio era come al solito (era il sogno dell’animale); il mio grido risuonò, di nuovo mi si fermò il cuore. Ma poi fu silenzio. Non giunse alcun grido in risposta. Tesi l’orecchio, non avvertii alcun suono. Di fatto, per la prima volta, attendevo la risposta che altrimenti mi aveva sempre sorpreso, come se non l’avessi mai sperimentata prima; e la risposta attesa non venne. Tuttavia in quell’istante accadde qualcosa in me: come se fino a quel momento non avessi avuto altra via di accesso al mondo se non attraverso l’udito, e adesso invece mi scoprissi come un essere ricco di sensi, sensi legati a organi e sensi puri e semplici; così mi offersi alla lontananza, aperto a ogni ricezione, a ogni percezione. 

E allora, non dalla lontananza, ma dall’aria vicina e intorno a me, giunse silenziosa la risposta. Veramente non giunse, era là. 

C’era già – se così posso dire per spiegarmi – prima del mio grido; era là, assolutamente, e nel momento in cui a lei mi schiudevo, si lasciava ricevere da me. L’ho percepita così chiaramente come mai avevo percepito la «restituzione» in uno dei sogni precedenti. Se dovessi dire in che modo, dovrei attestare: con tutti i pori del mio corpo. Parlò, rispose come mai aveva risposto la «restituzione» in uno dei miei sogni precedenti. Lo superò anche in una sconosciuta pienezza, difficile da descrivere: proprio perché era già là.

Quando finii di riceverla, avvertii di nuovo, più che mai sonora, quella certezza: ora è accaduto. 

IL SILENZIO COMUNICATIVO 

Come anche lo scambio di parole più animato non costituisce una conversazione (ne è una chiara prova quello strano sport esercitato da uomini dotati in certa misura di pensiero, che, con una parola che coglie nel segno, viene chiamato discussione, dibattito), così, d’altra parte, una conversazione non necessita di suoni, neppure di gesti. 

Il linguaggio può rinunciare a ogni cadenza sensibile e rimane linguaggio. 

Non mi riferisco naturalmente a quel tenero silenzio pieno d’intesa degli innamorati, che, con uno sguardo, persino con la semplice comunanza di un guardare innanzi a sé ricco di relazione, può bastare per esprimersi e intendersi. E neppure mi riferisco al silenzio mistico reciproco come quello descritto a proposito del francescano Egidio e di Luigi di Francia (o, quasi allo stesso modo, a proposito di due rabbini chassidici), che, incontratisi una volta sola, non pronunciarono parola ma, «stando nello specchio del volto di Dio», fecero esperienza l’uno dell’altro; infatti anche qui il gesto, un atteggiamento corporeo dell’uno verso l’altro, è ancora una forma di espressione. 
Chiarirò con un esempio ciò a cui mi riferisco. 

Ci si immagini due uomini, che siedono vicino in una qualche parte sperduta del mondo. Non si parlano, non si guardano, non si sono nemmeno voltati l’uno verso l’altro. Non si conoscono, l’uno non sa niente della vita dell’altro, si sono conosciuti quella mattina presto durante l’escursione. In questo istante nessuno pensa all’altro; non abbiamo bisogno di sapere a che cosa stanno pensando. Uno siede sulla panca comune, così come presumibilmente è il suo modo di sedere: rilassato, disposto ad accettare serenamente quanto può accadere; il suo essere sembra dire che è troppo misera cosa essere preparati, che occorrerebbe anche esserci davvero. L’altro: il suo atteggiamento non lo tradisce, è un uomo chiuso, riservato; ma chi lo conosce sa che dall’infanzia un vincolo pesa su di lui, che la sua riservatezza non è solo atteggiamento, che dietro ogni atteggiamento sta l’impenetrabile incapacità di comunicare se stesso. 

E ora – figuriamoci che questo sia uno di quei momenti capaci di spezzare i sette cerchi di ferro che serrano il nostro cuore – il malefico incantesimo improvvisamente si scioglie. Ma anche adesso l’uomo non pronuncia una parola, non muove un dito. Eppure fa qualcosa. La liberazione è avvenuta in lui senza che egli facesse nulla, non si sa da dove; ma ora compie qualcosa, sospende in sé una riservatezza su cui solo egli stesso ha potere. La comunicazione fluisce da lui senza riserve, e il silenzio la porta al suo vicino, per cui era stata pensata, e questi senza riserve la riceve, come ogni autentico fatto del destino che gli viene incontro. Non potrà raccontare a nessuno, neppure a se stesso, ciò di cui ha fatto esperienza. Che cosa ne «sa» dell’altro? Non ha più bisogno di un sapere. Poiché ove l’abbandono delle riserve, per quanto muto, ha regnato tra gli uomini, il sacramento della parola dialogica si è compiuto. 

LE OPINIONI E LA REALTÀ

Il dialogo umano, per quanto abbia la sua vita propria nel segno, quindi nel suono e nel gesto (lo scritto rientra in questo quadro soltanto in casi speciali, per esempio, quando degli amici durante una riunione, si passano, da una parte all’altra del tavolo, fogli su cui hanno annotato i loro pensieri sul clima della seduta), può dunque esistere senza il segno; certo non in una forma oggettivamente comprensibile. Invece sembra far parte della sua essenza un elemento, per quanto interiore, della comunicazione. Ma nei suoi momenti più alti il dialogo oltrepassa anche questi confini. Il dialogo giunge al suo compimento al di là dei contenuti comunicati o comunicabili, anche di quelli più personali, e tuttavia non come in un processo «mistico», ma in un processo fattuale nel vero senso della parola, del tutto inserito nel comune mondo umano e nella concreta scansione temporale. 

Si potrebbe essere propensi ad ammettere ciò per l’ambito particolare dell’erotismo. Ma non penso di ricorrere per spiegarmi, a questo tema. Perché, nella realtà, érōs è composto in modo molto più strano che nel mito genealogico di Platone e, contrariamente a ciò che si è inclinati a credere, l’erotismo non è affatto pura condensazione e dispiegamento del dialogo. Piuttosto, non conosco nessun altro ambito in cui come in questo (dovrò parlarne ancora) l’elemento del dialogo e quello del monologo si esaltino a vicenda, ma anche si combattano l’un l’altro. Parecchie famose estasi amorose non sono altro che un dilettarsi delle possibilità della propria persona attualizzate in una pienezza impensata.

Piuttosto penserei a un angolo poco appariscente, ma significativo dell’esistenza: agli sguardi che nella confusione della strada si colgono al volo tra due sconosciuti che avanzano con lo stesso passo; tra questi ci sono sguardi che, incontrandosi casualmente, rivelano l’una all’altra due nature dialogiche. 

Ma in verità posso mostrare ciò che ho in mente solo in avvenimenti che, trasformandosi autenticamente da comunicazione a comunione, sfociano in un’incarnazione della parola dialogica. 

Non possiamo porgere al lettore ciò che qui ci interessa sotto forma di concetti. Ma possiamo rappresentarcelo negli esempi; soltanto, ove si tratti di qualcosa di importante, non dobbiamo vergognarci di trarli dai cantucci più intimi della vita personale. Altrimenti, dove se ne potrebbero trovare di simili? 

La mia amicizia con una persona che nel frattempo è mancata nacque durante un avvenimento che, se si volesse, si potrebbe definire discorso interrotto. La data è Pasqua 19141. Nell’indefinibile presentimento della ca tastrofe, alcuni uomini di diversi popoli europei si erano riuniti per tentare di costituire un’autorità sovranazionale. 

Le conversazioni erano sorrette da quella mancanza di riserve la cui sostanziale fertilità non ho quasi mai sperimentato altrove in maniera così forte; essa operò in tal modo sui partecipanti, che ciò che era fittizio cadde e ogni parola era un fatto. 

Mentre parlavamo della costituzione di un circolo più vasto, da cui avrebbe dovuto partire l’iniziativa pubblica (si decise di convocarlo nell’agosto dello stesso anno), uno di noi, un uomo dotato di concentrazione appassionata e della forza d’amore capace di giudicare, avanzò il timore che fossero stati nominati troppi ebrei, tanto che interi Stati sarebbero stati rappresentati dai loro cittadini ebrei in proporzione eccessiva. Sebbene simili considerazioni non mi fossero estranee, dal momento che penso che l’ebraismo solo nella sua comunità, non in membri dispersi, possa avere una parte più che stimolante, una parte fattiva, nella costruzione di uno stabile mondo di pace, esse, così espresse, mi apparvero nella loro legittimità pregiudizievoli. Da ebreo ostinato qual sono, protestai contro la protesta. Non so più per quali vie giunsi a parlare di Gesù e del fatto che noi ebrei lo conosciamo interiormente in un modo, quello degli impulsi e delle emozioni della sua natura ebrea, che resta inaccessibile ai popoli che gli sono devoti. «In un modo che a lei resta inaccessibile», così mi rivolsi senza circonlocuzioni al parroco di allora. Egli si alzò, anch’io mi alzai, ci guardammo intensamente negli occhi. «La proposta è caduta» disse, e di fronte a tutti ci scambiammo il bacio fraterno. 

La discussione della situazione tra ebrei e cristiani si era trasformata in un legame tra cristiani ed ebrei2; in questa trasformazione trovò compimento la dialogicità. Le opinioni erano cadute, la realtà concretamente accadde.


1 Buber si riferisce probabilmente alla riunione di Potsdam, nella quale si progettò la fondazione di un circolo per promuovere la collaborazione internazionale e l’unità dei popoli. Tale circolo avrebbe dovuto tenere la sua prima assemblea pubblica nell’estate del 1914 a Forte dei Marmi, in Italia (da cui il nome: «Forte-Kreis»); ma ciò non avvenne a causa dello scoppio della guerra.
2 Sulla posizione di Buber rispetto al cristianesimo e al rapporto tra questo e l’ebraismo, si veda soprattutto Zwei Glaubensweisen (in Werke I [Nota bibl. 2], pp. 651-782; tr. it.: Due tipi di fede, Cinisello B., Edizioni San Paolo, 1995).