Rebecca libri

Il sogno di un uomo ridicolo e altri racconti dal Diario di uno scrittore (Fëdor Dostoevskij, Scholé, 2019)

I

Il bambino alla festa intorno all’albero di Natale dal Cristo

Ma io sono un romanziere e pare che una “storia” l’abbia composta io stesso. Se scrivo “pare”, pur sa- pendo benissimo di averla composta io, è perché a me continua a figurarsi che un giorno, da qualche parte, sia accaduto questo e che sia accaduto proprio questo giusto la vigilia di Natale, in una qualche immensa città, in un gelo tremendo.

Mi raffiguro che in uno scantinato ci fosse un bambino, ma ancora molto piccolo, di circa sei anni, forse anche meno. Il bambino la mattina si era svegliato in quello scantinato umido e freddo. Indosso aveva una specie di vestaglietta e tremava. Emetteva respiri di vapore bianco e faceva apposta, standosene seduto su un baule, in un angolo, a soffiar fuori di bocca il va- pore, divertendosi a osservare come usciva. Ma aveva una gran fame. Quel mattino aveva provato già più volte ad avvicinarsi alle panche dove, su un pagliericcio sottile come una sfoglia e con una specie di fagotto sotto la testa, a mo’ di cuscino, giaceva sua madre, malata. Come mai si trovava lì? Probabilmente era arrivata col suo bambino da un’altra città e tutt’a un tratto si era ammalata. La padrona di quegli angoli di casa era stata portata via dalla polizia già da due giorni; gli altri inquilini si erano sparpagliati in giro per le feste e il solo rimasto era un furfante investagliato, che già da un giorno intero, non avendo nemmeno resistito ad aspettare la festa, giaceva ubriaco come morto. Nell’altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che doveva aver vissuto facendo la bambinaia da qualche parte e ora se ne moriva totalmente sola, rovesciando addosso al bambino così tanti lamenti, borbottii e brontolii, che a lui era venuta perfino paura di passare vicino al suo angolo. Qualcosa da bere lo aveva scovato in corridoio, ma non era riuscito a trovare da nessuna parte nemmeno una crosta di pane e aveva già provato a svegliare la sua mamma almeno una decina di volte. Alla fine il buio gli mise terrore. La sera, infatti, era già scesa da un pezzo, ma la luce non l’avevano accesa. Tastato il volto della mamma, restò lì un attimo stupito perché non si era mossa neanche un po’ ed era diventata fredda come il muro. “Fa proprio freddissimo qui”, pensò, e rimase lì così in piedi per un po’, lasciando inavvertitamente la mano sulla spalla della defunta, poi alitò sulle sue ditina per riscaldarle e tutto a un tratto, trovato a tentoni il suo berrettino sulle tavole, di soppiatto, a tastoni, se ne andò dallo scantinato. Se ne sarebbe andato anche prima, non fosse stato per la paura del grosso cane che – di sopra, su per le scale, alla porta dei vicini – aveva abbaiato tutto il giorno. Ora però il cane non c’era più e lui d’un tratto se ne uscì in strada.

Signore, che città! Non aveva mai visto niente di simile prima. Nel luogo da cui era arrivato la notte era nera e buia, c’era un solo lampione in tutta la strada. Là, non appena iniziava a far scuro, si serravano le imposte delle piccole e basse casette di legno e in strada non usciva più nessuno, ci si chiudeva tutti in casa propria e fuori non restavano che interi branchi di cani ululanti; ce n’erano a centinaia, a migliaia, e ululavano e abbaiavano per tutta la notte. In compenso, però, là faceva caldo e gli davano da mangiare, mentre qui – Signore, almeno avesse potuto mangiare! Che trambusto che c’era, che frastuono, che luce, e la gente, i cavalli e le carrozze e poi il gelo, il gelo! Il vapore che esalava dai cavalli spossati, l’alito caldo che usciva dai loro musi, era gelato; i ferri tintinnavano contro i sassi, fendendo la neve soffice e tutti si spingevano e – Signore! – che fame che aveva, ci fosse stato almeno qualcosa, un boccone, e le ditina a un tratto aveva- no iniziato a fargli tanto male! Passò di lì un garante dell’ordine e si girò dall’altra parte per non notare il bambino. Ecco un’altra strada ancora – oh, com’era larga! L’avrebbero schiacciato di sicuro; gridavano tut- ti e correvano, correvano, e la luce poi, che luce! E cos’era mai quello? Oh, com’era grande quel vetro! E dietro il vetro c’era una stanza e nella stanza un albero che arrivava fino al soffitto: era un albero di Natale, un albero tutto pieno di lucine, cartine dorate, mele, e tutt’intorno c’erano dei pupazzetti e dei piccoli caval- lini; e per la stanza correvano dei bimbi vestiti a festa e tutti pulitini, erano lì a ridere e giocare e mangiavano qualcosa e bevevano. Una bimba si era messa a bal- lare con un bimbo, che bellina che era quella bimba! E attraverso il vetro si sentiva anche della musica. Il bambino osservava, si meravigliava, riusciva perfino a ridere, mentre gli facevano già male anche le ditina dei piedi e quelle delle mani ormai erano diventate tutte rosse, non si piegavano più e gli faceva male muoverle. E il bambino a un tratto si ricordò che le ditina gli facevano tanto male e si mise a piangere e corse via più avanti; ed ecco che di nuovo attraverso un’altra vetrina vide una stanza e, di nuovo, degli alberi di Natale, ma sui tavoli lì c’erano delle torte – alle mandorle, rosse, gialle, di tutti i tipi, e lì sedute c’erano quattro ricche signore che se andavi da loro ti davano la torta; e la porta si spalancava ogni momento, entravano tanti signori dalla strada. A un tratto il bambino si intrufolò, aprì la porta ed entrò. Oh, come si erano messi a urlargli dietro e a fargli segno di uscire! Una signora gli si avvicinò in fretta, gli ficcò in mano un soldino e gli aprì, lei stessa, la porta d’uscita. Che spavento si prese! E il soldino poi gli era scivolato via subito, andando a tintinnare sui gradini, perché non era riuscito a piega- re le sue ditina rosse per trattenerlo. Il bambino corse via veloce veloce, senza sapere neanche lui dove andasse. Gli venne di nuovo da piangere mentre era tutto spaventato e correva e correva soffiandosi le mani. E gli venne l’angoscia perché d’un tratto si era sentito tanto solo e ne aveva provato terrore e tutt’a un tratto, Signore! Che altra novità era mai quella? Lì in piedi c’era una folla di gente meravigliata: a una finestra, dietro un vetro, c’erano tre pupazzi, piccoli, vestiti con degli abitini rossi e verdi e che sembravano proprio proprio vivi! Uno era un vecchietto, messo seduto come a suonare un grande violino, gli altri due gli sta- vano accanto in piedi e suonavano dei violini piccoli piccoli, dondolando la testa a tempo e guardandosi a vicenda, e muovevano le labbra, parlavano, parlavano proprio, solo che attraverso il vetro non si sentiva. Da principio il bambino pensò che fossero vivi, poi d’un tratto scoppiò a ridere, quando arrivò a capire che erano dei pupazzi. Non aveva mai visto dei pupazzi così e non sapeva che ce ne fossero! E gli veniva ancora da piangere, ma facevano proprio ridere ridere quei pupazzi. A un tratto sentì che da dietro qualcuno l’aveva afferrato per la vestaglietta: lì in piedi accanto a lui c’era un bambinone cattivo che tutt’a un tratto gli diede un colpo in testa e gli strappò il berretto, mentre da sotto gli faceva lo sgambetto. Il bambino ruzzolò a terra, qualcuno gridò, lui sbigottito saltò su e scappò via di corsa e correndo, senza saper nemmeno lui dove, si infilò nel portone di un cortile a lui estraneo e si rannicchiò dietro a una catasta di legna: “Qui non mi troveranno, ed è anche buio”.

Si rannicchiò e si raggomitolò, ma non riusciva a riprendere il respiro per la paura e poi a un tratto, tutto d’un tratto, si sentì bene: a un tratto le manine e i piedini avevano smesso di fargli male e aveva sentito tanto caldo, caldo come quando sei sulla stufa; ma ecco che ebbe un sussulto; oh, si era quasi addormentato! Che bello sarebbe stato addormentarsi: “Me ne sto un po’ qua seduto e poi vado di nuovo a guardare i pupazzi”, pensò il bambino, e gli veniva da ridacchiare al ricordo che “erano proprio come vivi…”

E a un tratto gli sembrò di sentire la mamma che gli cantava una canzoncina. “Mamma, sto dormendo, oh, come è bello dormire qui!”

«Vieni alla mia di festa intorno all’albero, bambino», sentì a un tratto sussurrargli una voce sommessa.

Dapprima pensò che fosse ancora sua mamma, ma no, non era lei; chi poi fosse stato a chiamarlo non lo vide, ma c’era qualcuno che si era chinato su di lui e l’aveva abbracciato, lì, al buio, mentre lui gli aveva teso la sua mano e… e a un tratto, “Oh, che luce! Oh, che festa di Natale! Ma non poteva essere un albero di Natale quello, di alberi così non ne aveva mai visti!”

Lì dove si era ritrovato a essere, brillava tutto, tutto splendeva e tutt’intorno c’erano pupazzi, – ma no, erano bambini, e bimbe, ma erano così splendenti! Gli giravano intorno, volavano e lo baciavano tutti quanti, afferrandolo e portandolo con loro, e volava anche lui, mentre vedeva che la sua mamma lo guardava ridendo di gioia.

«Mamma! Mamma! Oh, come si sta bene qui, mamma!», le gridò il bambino, mettendosi di nuovo a baciare i bimbi, ai quali aveva fretta di raccontare di quei pupazzi dietro al vetro.

«Chi siete, bambini? Chi siete, bimbe?» domandò, mentre rideva e li amava.

«Questa è “la festa di Natale del Cristo”», gli risposero. «In questo giorno Cristo ha sempre un suo albero di Natale per i bimbi piccoli che non hanno una loro festa laggiù…»

E venne a sapere che tutti quei bambini e quelle bimbe erano, proprio come lui, dei bimbi veri, solo che alcuni erano congelati già nelle ceste in cui li ave- vano abbandonati all’aperto, sulle scale, davanti alla porta di qualche impiegato pietroburghese, altri era- no morti asfissiati alla casa ricovero delle nutrici finlandesi, dei terzi erano morti al petto avvizzito delle loro madri, durante la carestia di Samara, dei quarti erano crepati dal fetore in vagoni di terza classe, e adesso erano tutti quanti lì, adesso erano tutti come angeli, tutti lì dal Cristo, e Lui stesso era in mezzo a loro e tendeva le braccia benedicendo loro e le loro madri peccatrici… E le madri di quei bimbi erano tutte lì anch’esse, un po’ in disparte, e piangevano; riconoscevano ognuna il proprio bambino o la propria bimba, volanti verso di loro a baciarle, ad asciugare loro le lacrime con le proprie manine, esortandole a non piangere, perché “lì stavano così bene…”

Laggiù, invece, il mattino seguente, degli uomini che sistemavano il cortile trovarono il piccolo cadaverino del bambino che era corso lì e si era congelato dietro la legna; rintracciarono anche sua mamma… che era morta ancor prima di lui; si rividero in cielo, dal Signore Dio.

E a quale scopo avrò mai composto una storia che si addice così poco a un diario ordinario e assennato, e di uno scrittore per di più? E avevo addirittura promesso dei racconti che trattassero prevalentemente di avvenimenti reali! Ma la questione è proprio che a me continua a sembrare e a figurarmisi che tutto ciò sia potuto accadere realmente – intendo quello che accadde nello scantinato e dietro la catasta di legna –, mentre per quanto riguarda la festa e l’albero di Natale del Cristo – non so neanche come dirvelo –, è possibile o no che sia accaduto? Ben per questo sono un romanziere, per escogitare.