Rebecca libri

Grazia Cherchi, il ruolo fondamentale dell’editor

«Nei giorni successivi alla sua morte, non si fece che pensare ai libri: come quando una persona se ne va e si lascia alle spalle qualcosa di non autonomo, qualcosa di dipendente da sé, e allora si dicono quelle frasi, E adesso con chi staranno, i figli? Chi si porta a casa le piante? E il gatto, chi si prenderà cura di questo gatto?». Solo che nel caso di Grazia Cherchi non c’erano figli o piante o animali, c’erano solo i libri, i libri degli altri, quei libri che a pensarci bene non sono solo degli autori, non bastano gli autori a prendersene cura. Così sono rimasti soli, abbandonati al loro destino. I libri e i loro autori. È uscito da poco il libro Grazia Cherchi di Michela Monferrini (pp. 126, € 12, Ali&no editrice, Perugia 2015), nella collana “Le farfalle” diretta da Clara Sereni, con fotografie di Vincenzo Cottinelli e un puzzle di voci autorevoli e amiche per ricordare la grande Grazia (1937-1995) a vent’anni dalla sua morte («Non durano eterni / neanche i Quaderni / ma eterna si spazia / la gloria di Grazia», scriveva Franco Fortini). Un ritratto vivo e parlante – a noi smemorati operatori del mondo del libro – sul suo lavoro culturale in decenni difficili e densi di trasformazioni, dai sessanta ai novanta, lavoro caduto in ombra, sommerso, dimenticato, cancellato (introvabili la sua raccolta di racconti, Basta poco per sentirsi soli, Tringale, Catania 1986; E/o, Roma 1991, con prefazione di Alfonso Berardinelli, e il romanzo Fatiche d’amore perdute, Longanesi, Milano 1993), mentre è indispensabile recuperare la sua militanza nella letteratura contemporanea, e ricordare che ci sono state intellettuali ed editor donna, letterate editrici, di capacità e di valore che hanno fatto scelte consapevoli e indipendenti rispetto al mainstream della carriera e del potere, e che hanno contribuito in modo significativo alla crescita del discorso culturale nel nostro paese.

Un viaggio nel mondo di Grazia

Michela Monferrini ci guida con mano ispirata e leggera alla scoperta del mondo di Grazia: libri e sigarette, treni autobus e taxi, caffè e redazioni, Milano di pioggia e di sole, viaggi e incontri, amici e politica. Amava le scritture irregolari, cercava sempre in un libro stile (sobrio, magro) e contenuti, sapendo quanto fossero un pieno a perdere. Odiava gli aggettivi ridondanti e gli avverbi in “-mente”. Appassionata e brusca, “romantica” e zarina, incurante di sé e dedita alla cura degli altri, priva di spirito pratico e schierata contro i conformismi di ogni specie, Grazia Cherchi rivive in questo racconto costellato di memorie di chi le è stato vicino con la sua “faccia bellissima un po’ sarda un po’ da india amazzonica” (Stefano Benni) e i gesti di una intellettuale fuoricentro, eretica e ironica, per la quale proviamo un’acuta nostalgia.

Ha lavorato con tanti autori: da Sandro Onofri a Maurizio Maggiani e Massimo Carlotto, da Clara Sereni a Lalla Romano, da Franco Fortini a Giovanni Giudici, da Gianni Riotta a Oreste Pivetta e Enrico Franceschini, da Paolo Di Stefano a Enrico Deaglio e Gad Lerner. Ha contribuito alla scoperta di nuovi talenti (Alessandro Baricco, Stefano Benni, Gianfranco Bettin, Claudio Piersanti, Dario Voltolini), è stata amica di Camilla Cederna, Vincenzo Consolo, Silvana Mauri Ottieri, Valentina Fortichiari, e si è mossa con intelligenza tra la piccola e la grande editoria (ha collaborato con Feltrinelli, Garzanti, Rizzoli, e/o, Manni). Tante di queste voci prendono la parola in questo volume polifonico.

Venerava come maestri Bilenchi, Morante, Volponi, Sereni. Ho incontrato negli anni ottanta il nome di Grazia Cherchi proprio a casa di Romano Bilenchi, scrittore che lei considerava uno dei maggiori del Novecento anche se tra i meno riconosciuti, il cui stile è stato guida e modello non solo nella formazione del gusto di Grazia ma anche per il suo lavoro di selezione e riscrittura dei testi. Scrivere tutto e togliere quasi tutto, diceva Bilenchi, citando Čechov. Insieme a quel non avere paura di nessuno, che era stato il suo modo di diventare adulto nonostante la continua enigmatica attrazione per il tempo bambino, e che lo aveva reso testimone scomodo, a orologi spenti, controtempo. Quel non avere paura in cui Grazia si era riconosciuta appieno. Per più generazioni Grazia Cherchi è stata un punto di riferimento con la sua attività di intellettuale militante, libera e intransigente, con la passione del minoritario, prima sulla rivista “Quaderni piacentini”, che ideò e diresse con Bellocchio e Fofi, poi sulle testate a cui collaborò (“Linus”, “Linea d’ombra”, “L’Indice”, “Panorama”, “Il Manifesto”, “Il Secolo XIX”, “L’Unità”), e nelle rubriche affilate e provocatorie che tenne (Da leggere e da non leggere, Consigli/Sconsigli, Letture, Vistosistampi, Polemiche, Un po’ per celia). Si può consultare (si fa per dire perché anche questo libro non è stato più ristampato) una scelta dei suoi articoli, recensioni, ritratti e interviste a partire dagli anni ottanta in Scompartimento per lettori e taciturni, uscito postumo nel 1997, a cura di Roberto Rossi, testi introduttivi di Giovanni Giudici e Piergiorgio Bellocchio, presso Feltrinelli.

Lettrice accanita e appassionata, Grazia considerava la narrativa contemporanea un nutrimento necessario per comprendere quello che la circondava, il filtro personale di uno scrittore erano gli occhiali speciali con cui osservare il mondo. Nel lavoro culturale il suo metro era la responsabilità di abitare il proprio tempo, di stare nella società e nel discorso civile, di fare reagire la tensione morale con l’intelligenza del cuore perché il mondo potesse cambiare in meglio: «Era il secondo tempo della sua vita: dopo aver fondato e diretto riviste, fatto la giornalista, la redattrice, dopo e contemporaneamente alla critica letteraria», scrive Monferrini, ecco che quella passione principale – la lettura – prende una nuova forma di impegno lavorativo, quella dell’editing-editing, occuparsi in buona sostanza e dal di dentro dei libri degli altri.

Ma forse c’è di più, si tratta sempre della vocazione di Grazia a interpretare il lavoro culturale come progetto collettivo, piuttosto che assecondare la componente individualistico-narcisistica dello scrittore (Piergiorgio Bellocchio). Come era avvenuto ai tempi dei “Quaderni”, dai sessanta ai settanta, quando l’attività di coordinamento redazionale aveva preso il sopravvento sulla stesura in proprio di interventi, dagli anni ottanta in avanti cresce, accanto alla scrittura pubblica, il lavoro di lettrice-consulente editoriale e di editor. Un destino in ombra fatto di accudimento, di sollecitazione, di messa a punto, che fu anche il suo modo di eludere e resistere alla patina corrosiva degli anni ottanta. Era “un certo modo di stare al mondo”, che secondo la testimonianza di Baricco è la sua eredità più grande. Così per chi meditava di intraprendere o aveva intrapreso la strada del lavoro editoriale, Grazia era diventata un esempio per il puntiglio, la precisione, l’etica sempre sorvegliata, la capacità di capire un testo in profondità, mettendo a nudo funzioni e artifici.

Grazie a questo piccolo e prezioso libro su Cherchi torniamo a indagare quell’anonimato, quell’iceberg che è il lavoro editoriale e in particolare il versante oscuro dell’editing, la cui parte visibile è di gran lunga meno imponente di quella che non si vede. Argomento per catacombe, di frequentazione rapsodica, di cui restano aneddoti, ricordi e auspicate ricerche di archivio (segnalo la documentata tesi di laurea magistrale di Giulia Tettamanti appena discussa alla Statale di Milano). Tra le ragioni di quest’ombra che avvolge il mestiere di editor c’è senz’altro l’incerto riconoscimento del lavoro editoriale come lavoro a pieno diritto culturale: perché è fatto in squadra, è condizionato dalla casa editrice, dal profitto, dal mercato, perché è un lavoro di mediazione. Una delle foto di Cottinelli racconta con precisione la relazione autore-editor, ci sono lei e il giovane Baricco, e proiettata sul muro alle spalle di Baricco l’ombra ingrandita di Grazia. Dicevamo incerto riconoscimento intellettuale. Come se fare editing non riguardasse una scelta di postura nel mondo, di orientamento dello sguardo. Come se fosse un mestiere privo di direzione e di possibilità di direzioni diverse. Come se quello sguardo non potesse essere orientato verso l’autore o verso il lettore e ciò non facesse la differenza.

Apologia dell’editor

«Personalmente, fare editing è il lavoro che preferisco in campo editoriale». E quasi trent’anni fa su “Panorama” scriveva: «L’editing è un lavoro che richiede una forte dose di masochismo. Bisogna infatti tuffarsi nell’altrui personalità (anche stilistica) abdicando alla propria; (…) è un lavoro che resta rigorosamente anonimo, di cui si è ringraziati solo verbalmente». Fatti e questioni, oggetto d’ironia, rimasti tali e quali. Nessuna novità sostanziale. Se non in peggio. Un editor è un lettore competente al servizio dell’autore e non dell’editore, spiega Grazia, pur sapendo che già tirava un vento opposto nel mondo editoriale destinato a capovolgere il senso di questa relazione. Aveva già registrato le prime avvisaglie della più recente trasformazione antropologica dei funzionari editoriali in procuratori di calciatori. Nella forbice tra narrativa d’intrattenimento e narrativa letteraria, il ruolo dell’editor è una lama sottile che rischia di invadere un terreno non suo, tagliando la polpa troppo vicino o lontano dal cuore di chi scrive.

Grazia Cherchi riflette a più riprese nei suoi interventi sul valore e sul significato della riscrittura (quasi tutti gli scrittori hanno bisogno di editing, cioè di suggerimenti e consigli, si tratta di sapere esercitare un “potere affettuoso” come lo aveva definito l’amico Berardinelli), si impegna per il riconoscimento aperto di questa professione, lavora per la chiarezza e la comprensibilità dei testi come etica necessaria per il lettore, oppone alla casualità e alla sciatteria la disciplina quotidiana di letture e revisioni. Che cosa fa un editor quando lavora su un testo? Ieri come oggi: taglia, sfoltisce, sfronda, asciuga, ricuce, rattoppa, aggiusta con la finalità sempre di portare a maggior nitore e coesione la storia e lo stile dell’autore. Ma non omologa, non uniforma, non appiattisce, non livella, è pronto ad accogliere lo straniero (Antoine Berman), l’altro da sé, dato che “la lingua degli altri ci mette regolarmente in crisi, perché collide con la nostra, la scuote, prende a ceffoni le nostre inclinazioni e le nostre certezze” (dall’introduzione di Giorgio Pinotti a Editori e filologi. Per una filologia editoriale, a cura sua e di Paola Italia, Bulzoni, Roma 2014). Prendersi cura dei testi, accordarli, vuol dire mettersi in ascolto e aprirsi all’altro, fare entrare lo straniero, è abitare una terra senza frontiere.

E cosa resta di questo viaggio senza approdo? Cosa resta di tutto quello che si fa intorno a un libro, con uno scrittore? Domanda di necessità pensando al lavoro di Cherchi, di cui cospicua parte resta nascosta dentro le pagine delle riviste, nei progetti, nei libri degli altri. Lavorare sui testi è come viaggiare in compagnia dell’autore, vale il viaggio più della destinazione, e un testo non è un porto ma è una nave che affronta il mare aperto, la lettura un viaggio senza sosta. Cosa resta di una vita spesa sui libri e per i libri degli altri? Una risposta ce la offrono le parole affettuose di Maggiani, «puntualmente litigavamo perché io per principio accettavo cinque correzioni ogni dieci proposte, non di più…», «Grazie a lei io ho visto come si lavora: io che pensavo di fare la rivoluzione, negli anni settanta, la rivoluzione con le idee (…) ma la rivoluzione l’ha fatta meglio lei, e in tutt’altro modo». Restano – oltre le pagine scritte e pubblicate – quelle diventate un campo di battaglia, tutte cancellature e segni, suggerimenti e lampi, generosità e talento, amicizia dolcissima e severa.