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Monsieur Henri Beyle

Qualche anno dopo, nel 1820, quando morì, ne parlerà con cattiveria. «È morto per la rabbia di non essere niente e per uno sbocco di sangue al petto». Chissà perché ce l’aveva in questo modo. Eppure avrebbe dovuto essergli riconoscente, se non altro perché l’aveva ricevuto nella sua casa. Introdotto, lui povero e sconosciuto, nell’«intellighenzia» milanese. E gli aveva fatto incontrare Monti, Pellico, Borsieri, Berchet… i vertici del movimento romantico e liberale. Era il luglio 1816 e Henri Beyle, nei suoi vagabondaggi, era ritornato a stabilirsi nella per lui mitica Milano. Nella ex capitale del Regno d’Italia. In quella città dove, per la prima volta, era arrivato nel maggio 1800, diciassettenne, sottufficiale di cavalleria, al seguito della Grande armée. Era tornato, con la memoria piena dei miti napoleonici ormai tramontati. La storia aveva voltato pagina. Milano occupata dagli austriaci. Fu Carlo Guasco, un giovane avvocato torinese, a presentarglielo. Conobbe così l’abate Ludovico Arborio Gattinara di Breme, già cappellano di Eugéne de Beauharnais al tempo del regno italico, figlio di un ministro degli Interni del passato regime, scrittore e poeta, amante infelice, celebre personaggio dell’aristocrazia milanese. Incontrando l’abate Di Breme, di cui sempre ricorderà il volto austero e malinconico, Beyle «vide» per la prima volta un suo celebre personaggio. «Vide» colui che la sua penna avrebbe idealizzato e fatto vivere nella Certosa di Parma. «Vide» colui che sarebbe stato Fabrizio Del Dongo. Vide la sua ombra, anni dopo vagheggiata con gli occhi della mente nel chiaroscuro delle magnifiche scale del palazzo Di Breme, Casa Roma, nella milanesissima via Borgognona, immenso e fastoso edificio in decadenza, dai portici enormi, dalle antiche pietre annerite.

Fino a quel tempo, Beyle ha cercato di arrampicarsi sui rami dell’esistente. Ha rincorso un’occupazione. Il vento, per lui, sembrava però soffiare altrove. Eppure gli eventi storici e politici parevano essergli favorevoli. Aveva ottenuto qualche incarico nell’àmbito della burocrazia militare, protetto com’era dall’intendente, il cugino Martial Daru. Girava allora avanti e indietro tra la Francia e l’Italia. E si dava alla bella vita: con Angela Pietragrua, l’amante italiana, «la mia puttana italiana», come la chiama, che prende e lascia. Si fa prendere e si fa lasciare. «Io non credo che voi abbiate delle ragioni di sparlare di me come si vuol far credere» scriveva a Beyle la Pietragrua, firmando Luigia Cerami o Gina, usando pseudonimi all’uso stendhaliano, «e vi credo abbastanza onesto per non essere capace di farlo senza ragione. Quanto di prestar fede a queste dicerie metto in opera il consiglio che mi deste nell’ultima vostra lettera: verificate prima di credere! Si è sempre irritati quando si è abbandonati senza ragione. Questo è il mio caso, non il vostro». Ed è comunque noto quanto Beyle fosse un solenne pasticcione nelle questioni amorose. Basterebbe rievocare per un attimo la folle corte con cui aveva assediato Matilde Dembowski. Lei, per fargli sbollire la passione, e rinfrescare anima e corpo, in certe sere di particolari ardori, lo mandava a farsi quattro passi attorno al Duomo di Milano. Altro tormentava la mente di Beyle. Da qualche mese si sentiva perduto. Con rabbia e dolore aveva appreso della disfatta di Waterloo e dell’avvento della seconda Restaurazione.

Beyle, un uomo sempre alla ricerca del senso della sua esistenza. Sempre più perplesso a causa della sua vita, che giudica complicata e senza ragione. Quando torna a Milano, a poco più di trent’anni, è a modo suo un reduce. Senz’alcuna prospettiva. Aveva partecipato alla campagna di Russia. Assistito all’incendio di Mosca. Illuso di potervi lavorare, aveva recato con sé le pagine di una vagheggiata e tentata Histoire de la peinture en Italie. Un saggio storico, critico e letterario a un tempo. Aveva cominciato a scriverlo l’anno avanti con la memoria piena di bellezza, di avventure femminili, musica…«sconvolto» e «attratto» dall’arte italiana. Ciò cui ambiva, un autentico central problème, era una sinecura per stare il più possibile in Italia, il «paese più bello del mondo». Lo avrebbe sintetizzato in una lettera alla sorella Pauline che voleva intraprendere un viaggio nella penisola: «Avvisi alle teste leggere che vanno in Italia. Quali sono i piaceri d’un viaggio in Italia? i Respirare un’aria dolce e pura; ii Vedere paesaggi superbi; iii To have a bit of a lover; iv Vedere bei quadri; v Sentir buona musica; vi Vedere belle chiese; vii Vedere belle statue». Con quei pensieri per la testa era, al momento, comunque e soltanto un militare. Con aspirazioni di carriera. Aspettava sempre una decorazione o una promozione. L’animo onusto di segrete ambizioni che non sarebbero mai state soddisfatte: nessuna prefettura, nessun titolo baronale. Nulla. Grande stanchezza fisica e morale. Dopo tanto insistere, finalmente un incarico: intendente di Sagan in Slesia. Poco più di un magazziniere militare. In quei giorni, attraversando con un convoglio la Sassonia, fa sosta in una città che gli sarà fatale, almeno nel nome: Stendal. Vive l’incarico di intendente come una retrocessione nella carriera della vita. Pensa con nostalgia alla nomina di uditore del Consiglio di Stato ottenuta l’anno avanti a Parigi. Aveva 27 anni, 6 mesi e 3 giorni. Gli era sembrato un avvio folgorante, di toccare il cielo con un dito, così come quando da lì a poco era stato assegnato alla Casa imperiale, con l’incarico del controllo dei beni mobili. Si doveva occupare dell’inventario del Museo napoleonico, dal Grande Louvre imperiale, dei vari castelli e dei beni della Corona olandese.

Beyle è furibondo di gloria. In più continuamente infoiato. Un irrefrenato appetito di femmine gli allaga l’animo. A modo suo un vero e proprio libertino. A un certo punto ha un’amante fissa. La esibisce come «il mio piccolo angelo». Si chiama Angéline Bereyter, cantante all’Opéra bouffe. La storia della «fidanzata ufficiale» non dura molto. Contemporaneamente, in segreto, contraddicendosi, confessandolo per iscritto, nel tentativo di un «Journal», nascondendosi addirittura con sé stesso sotto un groviglio di trucchi, di superbe palle «letterarie», di frasi in codice, di alibi e di pseudonimi, forse per volersi proteggere dalla propria paralizzante timidezza, come un «cortigiano innamorato della regina», Beyle fa la corte alla moglie del suo protettore, la contessa Daru. Mai si saprà se Beyle è innamorato. Se lei lo abbia ricambiato. Lui alimenta la più singolare delle sue passioni gonfiando e interpretando indizi o segnali. Forse inesistenti. Certo è che, con un aggrovigliato logogrifo, a un tempo inestricabile e palese, nel diario «inventarierà» la contessa Daru tra le donne «che ho avuto». Doveva raccontare palle su di sé anche a sé stesso. Sono anni trascorsi tra l’Italia e la Francia. Alla ricerca ossessiva di qualcosa che neppure Beyle, c’è da crederlo, sa esattamente cosa sia. Certo un po’ di piacere dalla vita, tanto sesso se possibile, l’esaltazione della musica… Nella realtà non ha niente da fare, le sue ore sono vuote e parla di sue giornate indaffaratissime. Sono settimane di inesistenti lavori, di amori immaginari, della illusoria vita brillante di un dandy che frequenta con lusso e molta vanità salotti e teatri. Si indebita e si annoia. Quando Napoleone «cade» anche i suoi sia pur labili incarichi decadono. Svaniscono per avvenute infungibilità. Tenta di salvare, nascondendoli, alcuni dipinti del Louvre. L’ultimo atto di un fedele al proprio impegno. Fino all’estremo. Chissà se la storia è vera. Si congeda dall’esercito. Torna a Grenoble e ha l’ingenuità di controfirmare De Beyle, assieme al titolo di uditore al Consiglio di Stato, un proclama ufficiale. La «nuova» autoaristocrazia di Beyle è occasione di diffusa ironia nella sua città. Vive aggredito da stanchezza, febbre, dissenteria. Totale insofferenza per la città natale. Facendo forza su sé stesso riesce a scrivere e a far pubblicare a sue spese le Lettres écrites de Vienne en Autriche sur le célèbre compositeur J. Haydn, suivies d’une vie de Mozart, et de Considérations sur Métastase et l’état présent de la musique en France et en Italie, che firma con lo pseudonimo Louis-Alexandre-César Bombet. A modo suo adesso Beyle è uno scrittore, anche se il suo libro risulterà un clamoroso plagio compiuto su un’opera del noto musicologo italiano Giuseppe Carpani.

Comunque… plagio o non plagio, fortuna sua e dei suoi futuri lettori, il dèmone della scrittura sembra si sia impossessato di lui. Henri Beyle torna a Milano. Per la prima volta dopo tanto tempo, assolutamente sconosciuto, grazie a Di Breme riesce a essere ammesso in un «consesso» di letterati. Forse, momentaneamente, è appagato di vivere quelle atmosfere. L’Europa intera allora si trovava fisicamente e moralmente a Milano. I dibattiti e le idee avevano un taglio radicale e perentorio. Beyle avrebbe scoperto e ribadito verità inattaccabili e definitive. Ha avuto la fortuna di incontrare Di Breme, l’ispiratore del «Conciliatore», il periodico dove si sostenevano con vivacità le nuove idee romantiche. Di Breme, uomo di primo piano nel Risorgimento italiano, aveva compreso che la crisi vissuta dall’Italia coinvolgeva moralmente tutta la nazione, sostenendo che per rinnovare la cultura italiana era necessario essere partecipi dell’universalità dello spirito europeo. Intese il Romanticismo come affrancamento da ogni costrizione letteraria, politica e culturale, e vide in esso l’apice dell’impulso creativo. Per Beyle la «rivoluzione» delle proprie idee. «Crisi estetica» che più tardi affiorerà, come memoria, in Rome, Naples et Florence: «… Ecco tutte le dispute che, sotto il nome di romanticismo, attizzano i nostri letterati: i Fiorentini, partigiani delle vecchie forme, sono i classici; i Lombardi tengono per il romanticismo. I signori Di Breme, Borsieri, Berchet, Visconti, Pellico, pretendono: 1) Che bisogna essere chiari e sovente preferire, nelle frasi, la costruzione diretta; bisogna evitare la chiarezza unicamente perché i francesi l’hanno adottata? 2) Che è, a questo proposito, la necessità di difendersi, il più possibile, dal piacere di fare delle frasi di venti righe; 3) Che bisognava cercare delle nuove parole per le idee nate dopo il xv secolo. Le solite polemiche italiane sulla forma che non trova esito in nessuna sostanza, sia pur ricercata».

Alla fine di quel per lui magico settembre 1816, gli capiterà tra le mani e leggerà per la prima volta un numero della «Edinburgh Review». Deve la scoperta della rivista ad alcuni inglesi di passaggio a Milano, incontrati «nel mondo» di Di Breme. Conosce allora il celebrato Lord Brougham, grande personalità dell’opposizione britannica. Per Beyle una rivelazione. Leggendo sulla rivista i commenti al Corsair e al poema The Bride of Abydos apprende dell’esistenza di Byron. Si rende conto che il romanticismo è una realtà. Abbagliato dal fenomeno in cui è calato e che sconvolge le sue idee, cade in una profonda crisi di identità. Quanto aveva fatto e perseguito fin a quel momento sembra non avere più senso. Anche se fin a quel momento non aveva praticamente scritto alcunché di rilevante. Si affretta a modificare alcuni passaggi e le conclusioni della Histoire de la peinture, quasi volesse rispondere alla sfida delle idee provenienti da Oltremanica. In questo ambiente si risveglia dall’apatia in cui era caduto. Parla, si diverte. Diventa un fecondo conversatore. è deliziato dal successo che la sua ciarliera personalità riscuote presso questa élite europea, presso questi «uomini di prim’ordine per onorificenze e per testa» che frequentano il palco di Di Breme alla Scala. Una sera, per l’esattezza il 16 ottobre 1816, di ritorno da una gita ai laghi, Beyle fa il suo ingresso nel palco di Di Breme. Avverte immediatamente un’atmosfera sospesa a metà tra il rispetto e il disagio. In teatro veniva eseguito un sestetto di un’opera dimenticata di Mayer. Nella penombra del palco, non conosciuto, Beyle intravede un uomo dal profilo angelico, piuttosto basso, gli occhi straordinari. Di Breme avvicinandolo gli dice: «Signor Beyle, le presento Lord Byron». Sorpreso e smarrito, preso da ammirazione e timidezza, Beyle contempla in quell’uomo la personificazione della nuova poesia e della ribellione, l’uomo della sfida all’ordine costituito.

Byron era reduce dal lago di Ginevra dove a Montalègre, a villa Diodati, aveva trascorso un’estate di estetizzante esaltazione in compagnia di Mary e Percy Shelley, che in un cottage poco lontano trascorrevano l’ennesima luna di miele. Costretti in casa dal tempo poco clemente, per noia, avevano inventato un gioco: ognuno avrebbe immaginato un racconto dell’orrore. Shelley scrisse The Assassins, Byron The Burial, mai compiuto. Il dottor William Polidori, altro amico che passava da quelle parti, si dilettò con The Vampire, inserendovi elementi di Glenarvon, un romanzo di Caroline Lamb in cui Byron è modello del personaggio centrale: assassino delle sue amanti, rapito dal diavolo e trasformato in uno spettro delle vittime. Mary Shelley, coinvolta nell’orrorifico gioco, iniziò Frankenstein, tra le quattro l’unica opera condotta a termine. Quella sera, il 16 ottobre 1816, al Teatro alla Scala, nel palco di Di Breme avvenne l’incontro tra due orgogliosi amor propri, i più singolari dell’epoca, i due più intransigenti e fanatici di sé che si fossero manifestati in quel tempo. L’uno nobile, ricco, poeta celeberrimo, eccentrico riconosciuto, ribelle, inquietante e folle d’orgoglio. L’altro un oscuro viaggiatore francese, sprovvisto di tutto, disperso tra i notabili, furibondo di gloria e di riconoscimenti. Il giorno dopo Di Breme invitò a cena, a casa propria, in via Borgognona, Byron e il suo seguito. Per onorare l’illustre e superchiacchierato poeta inglese fu convocata tutta la società milanese. Ovviamente quella «giusta», agli occhi del padrone di casa. In una lettera che resoconta la serata, Di Breme cita il nome di tutti gli invitati. Non però quello di Beyle. Una dimenticanza? Invitato certamente anch’egli, «inutile» rammentarlo, privo com’era di titoli e di fama.

Eppure fu proprio lui, lo sconosciuto, a impressionare come nessun altro il grande signore e poeta inglese. Beyle, ovviamente facendosene vanto e riferendosi a lui come un pari, racconterà in più occasioni i rapporti avuti con Byron, dopo quella leggendaria serata alla Scala: è certo che Byron si sia ricordato di lui: ha letto “Stendhal” e ha riconosciuto in lui il M. de Beyle incontrato a Milano. In più, nel 1823, Byron scriverà a Stendhal per difendere Walter Scott che veniva criticato in “Racine et Shakespeare” e gli ricorderà le ore trascorse insieme a Milano. Byron non poteva certo dimenticare quell’eccentrico signore francese che, a teatro, nel palco di Di Breme, gli aveva dato da intendere di essere “M. de Beyle, ex segretario di Napoleone Bonaparte durante la campagna di Russia”. Era proprio questa la qualifica che, quella sera, presentato da Di Breme a Byron, Beyle doveva essersi attribuito. Sconosciuto, anonimo, circondato da persone celebri e titolate, poteva ben essere questo e altro. Di fronte alla folle suscettibilità e orgoglio del fatale e geniale dandy, Beyle poteva godere di una posizione di supremazia: era un altro da se stesso, un segreto indefinito, la personificazione di una irriverenza di fronte a tutte quelle glorie e quegli esibiti valori. Riuscì a farsi considerare con una provocazione.

John Cam Hobhouse, il puritano barone e futuro ministro del Regno Unito, in gioventù amico e compagno in Italia e in Grecia dei viaggi di Byron, presente all’incontro con “l’ex segretario di Napoleone”, affascinato e infastidito a un tempo, avrebbe scritto: “Ho tutti i motivi per credere Beyle persona degna di fede. Ma ha un modo di parlare crudele, ha l’aria di essere un gaudente, e lo è”. Non aveva forse osato parlare del marchese De Sade a quegli inglesi sconcertati e rapiti? Beyle aveva visto in Byron un altro se stesso, un se medesimo puro, affamato di attestazioni sul proprio conto, una vanità esacerbata, un malato degli altri, che simulava di volerli schiacciare con la doppia egemonia di gran signore e di genio. Sempre ansioso tuttavia di ghermire il proprio se stesso con l’effetto suscitato negli altri: nello specchio che gli offrivano. E’ stato scritto che “l’Io beylista aveva una strategia: per sedurre Byron, era necessario deluderlo e offenderlo. Byron nutriva per Napoleone entusiasmo e invidia. Era venuto a sapere che quel banale francese aveva vissuto in intimità con l’imperatore. Gli inglesi si aspettavano degli aneddoti; infatti Hobhouse avrebbe scritto un libro sui Cento giorni dal quale Stendhal avrebbe in seguito tratto profitto”.

L’animo stendhaliano di Beyle, in quella curiosa contesa, accolse il nobile lord in modo gelido, come fosse il colpevole della prigionia di Sant’Elena inflitta all’imperatore. Beyle sapeva che per sedurre doveva ferire; e cosi Beyle offendendo non venne offeso. Byron si sarebbe mostrato disponibile, l’avrebbe intrattenuto con grande familiarità e riguardo, l’avrebbe frequentato per tutto il periodo della permanenza a Milano. Stendhal era presente, all’Opera, la sera in cui Polidori, medico e mezzano di Byron, che avrebbe poi pubblicato con il nome del nobile lord il racconto incompiuto “The Vampire”, essendo venuto a male parole con un ufficiale austriaco, fu condotto in prigione. Gli inglesi prestarono fede all’audace menzogna di Stendhal, che la sostenne in modo fervido e ironico: si bevvero i racconti della ritirata dalla Russia, le storie cosmicamente grottesche del “segretario” e dell’imperatore, “che era sempre stato presente là dove i grandi uomini e i grandi fatti potevano essere ricondotti al loro contrario; credettero che il solo torto di Napoleone fosse stato un’eccessiva bontà: che firmava decreti a catena, che faceva l’amore alla scappa e fuggi con tutte le dame di corte, senza togliersi la spada, dopo averne esaminato le nudità con la penna in mano senza quasi smettere di lavorare: il tutto durava appena un minuto. Credettero che in Russia Napoleone avesse crisi di follia e firmasse i decreti Pompeo; che Talleyrand scrivesse a Luigi XVIII chiamandolo ‘Sire’… Gli inglesi credettero a tutto”.

Ora tutto questo bendiddio di accadimenti quotidiani, esemplari vanterie, pettegolezzi destinati a diventare storia, stramberie universali, queste superbe palle diffuse per il mondo come una seminagione avventizia, a godimento di tutta la bella banda di posteri che hanno vagolabili identificazioni con Beyle, passò qual “documentazione”, a futura memoria, prevalentemente nella corrispondenza. Nelle tante lettere con le quali Beyle rappresenta se stesso come un che ha intrapreso e persegue una stupefacente carriera. A cominciare da quelle scritte durante la campagna d’Italia alla sorella Pauline, con cui il monumentale epistolario si apre al 18 ventoso dell’anno VIII (9 marzo 1800). Lettere che costituiscono la “Correspondance générale” di Stendhal, pubblicata chez Champion in sei volumi tra il 1997 e il 1999 e adesso in via di traduzione in italiano sotto il titolo “Il laboratorio di sé, Corrispondenza 1800-1806”, vol. I (a cura di Vito Sorbello, ed. Aragno, 756 pp., 35 euro). Un epistolario che è la cartografia dei tatticismi di Beyle, strategie che hanno il loro “cabinet” in lettere inviate a un amico di Grenoble, Edouard Mounier, della cui sorella il diciannovenne Henri Beyle è innamorato. Una lettera, o più lettere, per avviarsi al “gioco dell’oca” della vita dove, per conseguire un fine, anche il più nobile o banale, chiunque non esita a ricorre a turpi e ingannevoli sceneggiate. Figuriamoci lui, Beyle versus Stendhal, che nel corso della sua vita riuscì a trasfigurarsi in centinaia di sé, e per mezzo di contorte strategie mette in moto affinché Edouard Mounier, a cui bagna per vantarsi un profluvio di carrieristiche zuppe, informi la sorella Victorine che Henri è segretamente e perdutamente innamorato di lei.

Spera soprattutto che “in complicità” Edouard metta al corrente la sorella dei “successi” sociali, militari e mondani di Henri, a cui probabilmente Victorine Mounier neppure pensa. Durante la quaresima del 1802, a Grenoble, l’aveva ascoltata suonare Haydn al pianoforte. Victorine è il primo “fantasma amoroso” dei tanti, una vera folla, che lo accompagneranno per tutta la vita. Un “corteggiamento” fantasiosamente indiretto nel quale Beyle esprime una condizione amorosa interiore e soggettiva in cui, non amando in realtà nessuno, egli ama esclusivamente se stesso, il suo potere d’amare, la potenza idealista di amare non un’altra persona bensì solo e soltanto l’idea dell’amore. “Ho preso dei romanzi, mi son sembrati insulsi e tronfi invece che teneri; ho voluto leggere la ‘Nouvelle Héloïse’, ma la conosco a memoria. Ho passato tutta la giornata a fantasticare, e ora vado a teatro per distrarmi. Non è che lo stato in cui sono, questa sovrabbondanza di tenerezza, sia penoso, sarebbe la felicità se si avesse a chi dire: ‘Vi amo!’, ma qui non riesco a incontrare che mezze anime. Tutte le ragazze di qui mi annoiano, la loro tenerezza non è che moine e vezzi studiati; nulla di assolutamente franco, di naturale, di energico… Non posso scrivere che a te, lei mi ha forse dimenticato: ecco cosa mi rende malinconico. A forza di sogno, ho forse trovato un modo di scriverle; ma che penserà della mia lettera? Vi risponderà? Non ama un altro? Mi passa una follia per la testa: voglio andare in incognito nella città in cui vive, e lì saziarmi del piacere di vederla. Questo modo è romanzesco, ma mi darà molto piacere e non compromette nessuno. Non vedo perché resistervi. Mi metterei in poco tempo a economizzare a tal fine: lei sarebbe molto stupita se, passeggiando la sera nei giardini pubblici, al calar della notte, mi scorgesse tra gli alberi”.

La pantomima di tutta una vita che non può non essere perdonata a chi ha scritto “Le Rouge et le Noir”… E a chi ha aggiunto al mondo personaggi seducenti aggrovigliati a finzioni e inganni. Tipi come lui, come il signor me stesso Henri Beyle, a un tempo capaci di affascinare e sgomentare… Tali allo sciagurato e inquietante campione della dissimulazione di nome Julien Sorel… La pudica, delicata e passionale madame de Rênal, l’ammaliante Sanseverina, il torpido e imprevedibile Fabrizio Del Dongo, l’infervorato giustizialista Ferrante Palla…