Rebecca libri

Paesaggi alterati

Suffolk: Roger Deakin e W.G. Sebald

Nel 1999 la casa editrice Chatto & Windus, un tempo nome importante dell’editoria vittoriana e ora satellite di Random House, pubblicava Waterlog: A Swimmer’s Journey Through Britain (in italiano Diario d’acqua. Viaggio a nuoto attraverso la Gran Bretagna, EDT), il primo libro dell’ambientalista Roger Deakin. All’epoca Deakin aveva cinquantasei anni, dal 1968 abitava una fattoria semiabbandonata nel Suffolk e nei decenni precedenti aveva lavorato principalmente come autore e produttore di documentari di argomento vario, dalla musica rock al mondo delle corse di cavalli. Waterlog, ispirato al racconto del 1964 di John Cheever Il nuotatore, raccontava il viaggio compiuto da Deakin nel 1996 per i corsi d’acqua del Regno Unito (cito dalla quarta di copertina originale): «dal mare alle piscine naturali, dai fiumi e torrenti, laghetti, laghi, stagni, stabilimenti balneari, piscine e centri benessere, dalle paludi, dighe, fossati, acquedotti, cascate, dalle cave allagate ai canali» il libro raccontava il Paese da una prospettiva inedita mescolando «storia culturale, autobiografia, racconto di viaggio e storia naturale». Paradossalmente per un autore che aveva vissuto tutta la vita nel mezzo della campagna (raccontando, letteralmente, il passaggio delle stagioni nel proprio giardino: è il caso della serie di documentari The Garden per BBC Four), il party di lancio del libro era stato tenuto in una piscina nel pieno centro di Londra, l’Oasis Sport Centre di Tottenham Court Road, chiusa in un recinto di uffici e case popolari a pochi metri dalla via del commercio Oxford Street. Al di là delle ragioni commerciali la scelta sembrava giocare più o meno volontariamente con il concetto di paesaggio naturale e di sua rappresentazione letteraria, che alla fine del millennio si stava ricodificando.

Sebbene la pubblicazione di Waterlog sia generalmente considerata l’inizio del revival del nature writing britannico, Deakin ha almeno un precedente illustre nel W.G. Sebald de Gli anelli di Saturno. Pubblicato in tedesco nel 1995 e in inglese nel 1998, questo «libro ibrido – romanzo, racconto di viaggio, biografia, mito e memoir» (Roberta Silman sul New York Times) nasceva come una camminata per le stesse zone dell’East Anglia che Deakin aveva abitato per tutta la vita: il libro di Sebald comincia in un ospedale di Norwich per poi spostarsi verso sud lungo la costa del Suffolk, da Lowestoft a Sommerleyton fino a Southwold in quella che oggi è la Suffolk Coast National Nature Reserve. Nel corso di questa camminata Sebald divaga passando dal filosofo secentesco Thomas Browne alla storia del baco da seta alla pesca delle aringhe nel tentativo di dimostrare come «i poteri gemelli della natura e della storia annientino qualsiasi inadeguata difesa il genere umano possa preparare, inevitabilmente portando insignificanza, perdita e morte». Nonostante nel 2007 una mostra dedicata alle peregrinazioni di Sebald fosse stata intitolata Waterlog come il libro di Deakin, l’approccio dello scrittore tedesco poteva essere condiviso solo in parte dal naturalista, che infatti scriveva:

Apprezzo Sebald, come amo Thomas de Quincey, per le sue digressioni intrepide, per la portata assoluta della sua immaginazione curiosa e cosmopolita, per le sue capacità di associazione libera. Come abitante del Suffolk sono particolarmente affezionato a Gli anelli di Saturno, anche se la costa del Suffolk che Sebald evoca non ha niente a che vedere con il Suffolk che conosco. È un paesaggio trasformato da un particolare stato mentale, cupo ma coinvolgente.

Nell’idea di «paesaggio trasformato da un particolare stato mentale» espressa in questa citazione è contenuto uno dei punti principali del discorso sul nature writing contemporaneo, le cui coordinate sono state tracciate dall’amico di Deakin e suo esecutore letterario Robert Macfarlane in un articolo pubblicato sul «Guardian» nel 2003. Macfarlane, i cui libri sono stati tradotti in italiano da Einaudi, pone la data di fine del nature writing classico nel 1932 con la pubblicazione di Cold Comfort Farm della scrittrice Stella Gibson, una satira sui «romanzi rurali» di Thomas Hardy, Mary Webb e delle sorelle Brontë traboccanti di «ingenue descrizioni della “natura” e del “paesaggio”». In altre parole Macfarlane sostiene che, superata la soglia del tardo modernismo, il nature writing inglese sia declinato in conseguenza del progressivo indebolimento del concetto stesso di natura, reso inefficace, aggiungo parzialmente seguendo il suo ragionamento, da fattori di carattere storico (l’industrializzazione), sociale (l’aumento del turismo) e culturale (la frammentazione dell’esperienza nelle arti d’avanguardia, basti pensare alla differenza che intercorre tra un paesaggio ottocentesco e un paesaggio impressionista o cubista): come se natura e paesaggio, non potendo più essere innocenti, non potessero essere tout court.

 

Londra: Iain Sinclair, Peter Ackroyd e Will Self

Per questo, anche se Macfarlane non ne fa menzione nel suo articolo, credo che per trovare almeno una parte delle radici del nature writing contemporaneo sia necessario andare in un ambiente che poco ha a che vedere con l’idea di natura: la Londra degli anni 60, un panorama che in un articolo per il «Guardian» del 2006 Iain Sinclair descriveva così:

Si pensava, negli anni 60, che ci fosse qualcosa di nobile riguardo alle città: viverci, sperimentarne lo squallore (senza respirarlo, come un reporter distaccato), facendosi testimoni della fine dell’impero, dei barbari incrostati di acne che spingevano alle porte. Le cicatrici della guerra erano ancora visibili. Binari ferroviari troppo cresciuti come cistifellee rimosse in un paese del Terzo Mondo. Le strade erano monocrome, come la pelle umana: pesante, impolverata, cadente. Carnagione color di sego prodotta dalla carta di giornale riciclata. Gli uomini perdevano la testa in nuvole di fumo di pipa e le donne si proteggevano dietro a elmetti di capelli laccati, ciglia come trappole per mosche. La vita si conduceva all’interno, segregata. Se dovevi spostarti camminavi velocemente, senza vedere niente: galoppando come una spogliarellista tra un fidanzamento e l’altro. O come uno di quei banchieri della City, neri come una pinta di birra scura, nelle loro uniformi da scolari, fotografato da Robert Frank. Muovendosi come insetti tra le crepe di edifici fuligginosi. Trattenendo il terrore. Un giorno tutto sarebbe crollato.

Negli anni 60 Sinclair faceva parte di un movimento d’avanguardia poetica con base a Londra, il British Poetry Revival. Questo gruppo di scrittori influenzati dai beat e frequentato anche da Peter Ackroyd sperimentava un linguaggio di confine tra saggio, prosa e poesia: nel suo primo romanzo di successo, Lud Heat (1975), Sinclair esplorava «le misteriose connessioni cartografiche tra le sei chiese di Hawksmoor» a Spitalfields (quarta di copertina), fornendo la base per il primo romanzo di successo di Ackroyd, Hawksmoor (1985), incentrato sullo stesso tema. Per via di questo interesse “misterico” per il tessuto urbano londinese, entrambi questi autori sarebbero successivamente stati associati con le attività della misteriosa London Psychogeographical Association, un gruppo semiformale di intellettuali di origine situazionista che dagli anni 90 in poi avrebbero cominciato a firmarsi a nome Luther Blisset.

Per Sinclair e Ackroyd la svolta arriva all’inizio del nuovo millennio, in un momento che vede l’architettura di Londra trasformata radicalmente da una serie di nuovi imponenti landmarks (Millenium Dome nel 1999, Serpentine Gallery di Zaha Haid nel 2000, Millenium Bridge di Norman Foster ancora nel 2000, 30 St Mary Axe, sempre Foster, nel 2001). Come per contrastare questa improvvisa spinta alla modernizzazione capitalista, nel 2000 Ackroyd pubblica Londra: una biografia (in italiano per Ponte alle Grazie), il racconto in 850 pagine della storia segreta della capitale britannica dalla preistoria fino al presente. La volontà di trattare la città come un organismo vivente, tipica della psicogeografia, è presente nel riferimento alla biografia collettiva: l’idea è quella di una storia che racchiude tutte le storie o di una storia con infinite ramificazioni, divagazioni, détournements. Due anni più tardi, nel 2002, è la volta di Sinclair con London orbital (in italiano con Il Saggiatore), il racconto di una camminata di 120 miglia lungo l’autostrada M25 che circonda la capitale. London orbital è un libro difficile, scritto con una lingua poetica e imbevuto dell’avanguardismo militante che permea tutto il lavoro di Sinclair: il viaggio comincia dall’abbazia di Waltham Abbey, una delle chiese più antiche della regione e luogo di culto già nel settimo secolo, dove Sinclair trascorre il capodanno del 2000 in aperta polemica con la retorica delle celebrazioni per il nuovo millennio incarnate dal Millemium Dome, dove il libro si conclude. Nel suo attraversare campi devastati ed ex ospedali psichiatrici, i luoghi senza innocenza raccontati da Bram Stoker e da J.G. Ballard, gli alberghi anonimi e le sedi ermeticamente protette delle grandi multinazionali, Sinclair compone un panorama di frammenti della civiltà contemporanea, detriti di significato nei quali «una narrazione coerente non è più possibile», dove il traffico di automobili diventa «uno strumento per la meditazione» e «ciò che è troppo familiare si trasforma in un panorama alieno» (le citazioni sono tratte dal film del regista Chris Petit che accompagna il libro).

All’inizio degli anni 2000 un altro autore si aggiunge a Sinclair e Ackroyd come grande narratore della metropoli contemporanea: Will Self. Scrittore eclettico che si è sperimentato con la fantascienza, il racconto satirico e il reportage giornalistico (e non per niente portato in Italia da editori di volta in volta diversi: Fanucci, ISBN, Mondadori, Feltrinelli), negli anni 90 Self ha scritto per diverse riviste gli articoli raccolti in London: appunti da una metropoli (Mondadori, 2006). Successivamente e fino al 2008 ha tenuto per l’«Independent» una rubrica significativamente intitolata Psychogeography nella quale raccontava le proprie escursioni non solo nella capitale britannica ma anche per altri luoghi tra cui Istanbul, Liverpool, Chicago, Siena, l’India, il Brasile e l’Ohio: gli articoli sono stati raccolti nel 2007 in un libro dallo stesso titolo pubblicato da Bloomsbury Publishing. Come già Sinclair, di cui è vent’anni più giovane, anche Self ha individuato tra le sue principali fonti di ispirazione uno scrittore che non si è mai occupato direttamente di psicogeografia e territori affini, e che tuttavia ha profondamente influenzato il moderno nature writing: J.G. Ballard.

 

Paesaggi alterati: J.G. Ballard

Nato nella Shanghai britannica nel 1930, James Graham Ballard arriva nel Regno Unito alla fine della guerra nel 1945; dopo aver vissuto a Plymouth e Cambridge, e in seguito a una breve parentesi in Canada come pilota della Royal Air Force, dalla fine degli anni 50 si stabilisce permanentemente a Londra. Nel 1960 si trasferisce a Shepperton, un sobborgo a sud dell’aeroporto di Heathrow che farà da sfondo al suo romanzo più famoso, Crash: qui nel 1961 esordisce nella narrativa con il primo romanzo della cosiddetta “tetralogia degli elementi” (Il vento dal nulla, Il mondo sommerso, Terra bruciata Deserto di cristallo), in Italia tutta edita per Feltrinelli. Questi quattro romanzi dalla struttura simile raccontano un mondo che deve fare i conti con immani catastrofi climatiche, e nell’originale inglese l’accento dei titoli è posto proprio sul concetto di “mondo” (The Drowned World, The Burning WorldThe Crystal World) cioè sulla rappresentazione di un paesaggio, fisico e psichico, naturale e artificiale, alle soglie dell’apocalisse.

Di questi romanzi quello più interessante per il nostro discorso è Il mondo sommerso, pubblicato originariamente nel 1962. Il libro racconta di un futuro non troppo lontano (ma lontano abbastanza perché i suoi protagonisti non si ricordino della vita prima della catastrofe) in cui la temperatura della Terra è salita fuori controllo, provocando un’inondazione planetaria che ha sommerso campagne, paesi e città sostituendoli con una giungla primigenia popolata di iguane e insetti giganti. Per Ballard, che prima di dedicarsi alla scrittura ha studiato psichiatria, questo panorama è essenzialmente un paesaggio dell’anima, una manifestazione dell’inconscio collettivo junghiano che porta gli abitanti della Terra a una regressione verso un «tempo archeopsichico» che precede la civiltà. Quello che interessa maggiormente a noi tuttavia è un altro aspetto. Mentre il protagonista del romanzo, il biologo Kerans, è troppo giovane per ricordarsi della Terra prima delle inondazioni, il suo collega Bodkin è nato a Londra e ha ancora ricordi vaghi della città sommersa sopra la quale si trova il suo laboratorio galleggiante. La sua ossessione è quella di navigare per le lagune che ricorpono la capitale per riportarne alla luce la fisionomia originale, la città sottostante che è anche la città segreta, invisibile: lo stesso intento della psicogeografia. Quando l’alter ego negativo di Kerans, lo spettrale Strangman, prosciuga la laguna riportando alla luce una sezione del centro cittadino che va dal quartiere unversitario di Bloomsbury a Leicester Square, la sensazione che coglie Kerans è di orrore e sconcerto. La città sommersa è quella reale, mentre quella portata alla luce dall’opera prometeica di Strangman è un abominio; specularmente, la natura che ha preso il controllo del pianeta è una natura mostruosa, innaturale, che porta alla disperazione e alla morte. E tuttavia è stranamente in sintonia con l’anima di Kerans e dei suoi compagni.

Come in Ballard il paesaggio sia privo di innocenza, e proprio per questo un paesaggio autentico e conforme alle leggi profonde della psiche, è ancora più evidente nel suo romanzo più famoso, Crash (1973). Giocando sottilmente con il rapporto tra realtà e fiction, Crash è il racconto in prima persona di un narratore chiamato James Ballard che al ritorno da un appuntamento con l’amante si trova coinvolto in un terribile incidente automobilistico poco distante dall’aeroporto di Heathrow; qui conosce il sinistro scienziato Robert Vaughan, un epigono di Strangman ossessionato dal connubio tra tecnologia, sesso e morte, per il quale la commistione inquietante di corpi umani e lamiere «forma la chiave per una nuova sessualità nata da una tecnologia perversa». Al di là del significato psicologico assunto dalla vicenda, quello che interessa il nostro discorso sono i paesaggi descritti da Ballard: l’area suburbana di Shepperton con le sue superstrade che costeggiano l’aeroporto diventa il paradigma di un mondo dove la natura ha cessato di esistere, un panorama nel quale bellezza e morte si mescolano irrimediabilmente e in cui il «rumore dei clacson dei veicoli intrappolati nell’autostrada come un coro disperato» anticipa il «traffico come strumento per la meditazione» di Sinclair. Il significato di questa visione apocalittica è reso palese da un famoso poema in prosa pubblicato da Ballard nel 1984 su una rivista di fantascienza francese:

Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la verità dentro di noi, di scacciare la notte, di trascendere la morte, di incantare le autostrade, di propiziarci gli uccelli, di assicurarsi la fiducia dei folli.

Credo nelle mie ossessioni, nella bellezza degli scontri d’auto, nella pace delle foreste sommerse, negli orgasmi delle spiagge deserte, nell’eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero dei parcheggi multipiano, nella poesia degli alberghi abbandonati.

Questa dichiarazione d’amore e di fede quasi religiosa per «i cimiteri di automobili, il mistero dei parcheggi multipiano, la poesia degli alberghi abbandonati» è il miglior ponte possibile per portarci dalla descrizione paesaggistica classica al nature writing nell’epoca dell’antropocene.

 

Dopo la natura: Robert Macfarlane e l’antropocene

Torniamo al lancio di Waterlog nella piscina di Tottenham Court Road a Londra e ricordiamoci che il filo conduttore del libro di Deakin erano i corsi d’acqua, quelli naturali e quelli creati dall’uomo allo stesso modo. Il wild swimming che Waterlog inaugurava non era una fuga dalla civiltà e un rifugio nella natura incontaminata, tutt’altro: il paesaggio raccontato da Deakin non era “ingenuo”, per riprendere la critica fatta al nature writing ottocentesco da Stella Gibson. Al contrario era un paesaggio profondamente antropizzato, una geografia alternativa tanto alle razionalizzazioni delle mappe geografiche ufficiali che al mito di una natura incontaminata e benevola nei confronti dell’uomo, un’illusione che due film prodotti nel Regno Unito pochi anni dopo e a distanza di poco tempo l’uno dall’altro si preoccupavano di sfatare: mi riferisco a Grizzly Man di Werner Herzog (2006), la vera storia del naturalista Timothy Treadwell che viene divorato dagli orsi dopo aver trascorso anni tra di loro, e Into the Wild di Sean Penn (2007), la vera storia del giovane avventuriero Christopher McCandless che muore nel 1992 in Alaska dopo aver lasciato la civiltà per cercare sé stesso nella natura incontaminata.

Queste tre opere (il libro di Deakin, il documentario di Herzog, il film di Penn) hanno diversi aspetti in comune: l’elemento biografico o autobiografico, il richiamo alla realtà e la mescolanza di generi narrativi diversi. Ma soprattutto condividono tra loro l’assunto fondamentale che quella che chiamiamo “natura” sia in realtà un concetto complesso e perturbante, un’entità non umana e non completamente sottomissibile all’umano, o che intrattiene con l’umano un rapporto non pacificato. Questi tre lavori esemplificano perfettamente una sensibilità nei confronti della natura mutata nell’epoca dell’antropocene, un concetto coniato nel 1999 nell’ambito della geologia per indicare il periodo della storia della Terra in cui l’intervento umano è diventato tanto massiccio da costituire un fattore di trasformazione semipermanente del pianeta. Si tratta dunque di un processo duplice: da un lato la natura scompare come elemento autonomo rispetto alla presenza umana, ponendo fine alla dicotomia postmoderna della natura/cultura (Lévi-Strauss nel 1958, ma anche Frederic Jameson quando scriveva che «il postmodernismo è ciò che ci si trova di fronte allorché il processo di modernizzazione si è compiuto e la natura è svanita per sempre»); dall’altro la natura si riafferma proprio come oggetto perturbante, non completamente sottomettibile alla colonizzazione umana: un altro radicale, un luogo di significati non umani, che mortifica la pretesa di un mondo plasmato a immagine e somiglianza dell’uomo.

Come scrive Robert Macfarlane in un lungo articolo recentemente pubblicato sul «Guardian», negli ultimi anni il concetto di antropocene è stato affrontato in letteratura da diverse angolazioni; per rimanere nel Regno Unito vale la pena ricordare la storica della scienza Andrea Wulf e il suo The Invention of Nature, una biografia atipica di Alexander Von Humboldt e della nascita del concetto di ecologia; pochi anni prima, nel 2013, il filosofo di origine britannica Timothy Morton aveva formulato una delle teorie più interessanti della “natura dopo la natura”, innestando sulla base di un realismo speculativo in chiave ecologista il concetto di iperoggetto, quelle entità capaci di «trascendere la specificità spaziotemporale» perché troppo estese sia nel tempo che nello spazio. Ma è stata la letteratura, quella di fiction e quella di non-fiction e le molte sfumature che si collocano tra questi due poli, a restituire la dimensione più intima di questo passaggio verso un’idea nuova e meno rassicurante di natura: basti pensare a Io e Mabel di Helen McDonald (portato in Italia da Einaudi quest’anno), il racconto autobiografico di come la scrittrice ha superato il trauma della morte del padre tramite il rapporto con un falco; o Loney (in Italia con Bompiani), un originale romanzo dell’orrore in cui la costa selvaggia del Lancashire è il vero protagonista della discesa dei personaggi in un mondo di aberrazione e di paradossale salvezza.

Queste scritture si approcciano al panorama naturale come Sinclair e Ackroyd si approcciavano a quello metropolitano: senza innocenza, tracciando sentieri di senso in un paesaggio di per sé profondamente estraneo e asignificante; e si approcciano a questa “natura dopo la natura” con uno spirito che non si discosta molto dalla fantasia apocalittica di Ballard che vedeva «il familiare trasformato in un panorama alieno», il quotidiano che si manifesta come una forma contemporanea del perturbante. A tracciare questo collegamento è lo stesso Macfarlane quando scrive:

L’idea dell’antropocene pone a tutti noi delle domande difficili. Temporalmente, ci richiede la capacità di immaginarci abitanti non soltanto di una vita umana o di una generazione, ma anche di un “tempo profondo” – le epoche vertiginosamente profonde della storia della Terra che si estendono prima e dopo il tempo presente.

Il richiamo del “tempo profondo” era quello che spingeva Kerans verso le zone più calde del pianeta e dunque verso la conoscenza e l’autodistruzione. Ma è anche la dimensione in cui esistono gli iperoggetti di Timothy Morton, quella in cui lo strato superficiale della crosta terrestre è completamente ricoperto del carbone depositatosi dai tempi della Rivoluzione Industriale e in cui le particelle radioattive trasportate dal vento in seguito agli esperimenti nucleari aleggiano, invisibili, su qualunque panorama. Sono davanti agli occhi, eppure non si possono vedere. E delineano l’idea di una natura in cui l’uomo convive con altre entità organiche e inorganiche in un tutt’uno troppo interconesso per essere scisso in parti autonome: una natura che è profondamente perturbante perché dice all’uomo, per la prima volta, che non è più al centro del progetto, il punto di vista stabile e razionale da cui si osserva e si rappresenta il panorama, ma soltanto un altro elemento all’interno del paesaggio.