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Invidia, rabbia e fascismo: le cose feroci secondo Zerocalcare

Fino a cinque anni fa sarebbe stato praticamente impossibile dire di un fumettista italiano che è “uno di quei personaggi che non hanno bisogno di presentazioni”. Eppure, davanti a Michele Rech, in arte Zerocalcare, l’espressione funziona alla perfezione. Il fumettista di Rebibbia, infatti, negli ultimi anni è stato capace di provocare delle cose quasi totalmente inedite per il mondo del fumetto, sicuramente per quello italiano.

Decine di migliaia di copie vendute, una candidatura — totalmente inedita — al Premio Strega, file letteralmente chilometriche di lettori fuori dalle presentazioni, nottate intere a fare dediche e disegni. Può piacere o meno, ma Zerocalcare con i suoi fumetti ha provocato un vero e proprio smottamento nell’intera industria editoriale, con reazioni a catena che stanno facendo un gran bene a tutta la categoria.

Partiamo dalle basi: cosa sono le cose feroci?
«Le cose feroci sono tutte quelle cose che ci levano l’empatia, la pietas, il senso della soliderietà con il prossimo», risponde Zerocalcare appena riusciamo a spiegare al controllore che se mi trovo in classe business con un biglietto standard è perché quella è veramente un’intervista. «Sono quelle che ci fanno calpestare gli altri e i loro sentimenti nel tentativo di cercare di salvare noi stessi. Ecco, queste sono le cose feroci dei nostri tempi».

Che nomi hanno?
Sui giornali hanno il nome di invida sociale, della guerra tra poveri, di quel senso di esclusione e emarginazione che si prova nel restare indietro mentre gli altri vanno avanti. Mi sembra che in questo momento la cifra di molte delle nostre vite è propri questa: non essere dove ci aspettavamo di essere.

Che cosa ci ha portato a vivere sempre di più da soli insieme?
Senza voler fare analisi spicciole, anche perché, te lo dico subito, non credo di avere gli strumenti e le conoscenze per fare analisi che si pretendono generali. Io ti parlo della mia esperienza e di quella delle persone che ho attorno. Bene, io mi ricordo che quando ero ragazzino avevo davanti a me una prospettiva con delle tappe di vita che vedevo anche nelle vite dei miei genitori e dei miei amici più grandi. Tutti loro prevedevano per me le stesse tappe che avevano scandito la loro vita, quindi liceo, poi università e poi il lavoro che, per quanto potesse essere instabile, mi avrebbe dato un posto nel mondo.

E invece?
Invece la nostra generazione è stata la prima ad essere cresciuta con un orizzonte d’attesa che poi, al momento dell’affacciarsi nel mondo del lavoro, è stato totalmente disatteso. Siamo arrivati nel preciso momento in cui stava iniziando a crollare tutto e molti di noi non hanno trovato nulla di tutto ciò.

Come l’hai vissuta?
Per un momento come un tradimento dato dallo smarrimento di trovarsi con delle aspettative che non corrispondevano alla realtà. Nel frattempo sono passati quindici anni e ci siamo abituati a vivere in questa condizione, proprio come dicevi tu, di essere da soli insieme. Per quanto siamo in tantissimi a vivere questo disagio non è che siamo stati in grado di inventarci delle soluzioni collettive per uscirne. Non ce le ha proposte nessuno e noi non siamo stati capaci di crearcele da soli. L’unica cosa che siamo riusciti a fare è guardare ai pochi ce l’avevano fatta, e l’abbiamo fatto o con invidia o tentando di imitarlo, cercando sempre di tenerci stretto quel poco che riuscivamo a conquistare, combattendo gomito a gomito con gli altri che volevano superarci.

Noi nati all’inizio degli anni Ottanta siamo diventati maggiorenni nelle strade di Genova, nel luglio del 2001. Eravamo tanti ad essere cresciuti tra centri sociali e associazionismo, ma dov’è finito quello spirito di comunità? È bastato un colpo di pistola per distruggere tutto?
Dal mio punto di vista di persona interna al mondo dei centri sociali, direi che proprio quello è il mondo che ha provato a tenere più duro, a resistere, anche se con gli anni si è fatto sempre più difficile, perché qualcosa è cambiato.

Cosa?
Per esempio, se negli anni Novanta fosse successo quel che è successo quest’anno a Roma con lo sgombero dei migranti, sono certo che si sarebbe organizzata un’assemblea cittadina che avrebbe visto al tavolo i centri sociali, le associazioni, anche di stampo cattolico, gli scout, gli arci. Nel frattempo quel tessuto sociale è stato letteralmente spazzato via. Perché in Italia purtroppo questo tipo di vita sociale non esiste più, o quando esiste è sempre più marginale. I centri sociali, per esempio, si ritrovano a non avere più interlocutori nella società civile per fare cose insieme. Tutto quel movimento eterogeneo che a Genova ha portato un milione di persone si è disciolto.

Che fine ha fatto?
Me lo domando anche io. Quando ci fu quella storia degli eritrei in piazza Indipendenza mi svegliai la mattina presto con messaggi e foto su Whatsapp di quello che stava succedendo. La prima cosa che ho fatto non è stata aspettare una convocazione o che altro. No, ho preso la macchina e ci sono andato, convinto di trovarci metà Roma. E invece non c’era nessuno. C’era qualche persona di qualche ONG, qualcuno dei centri sociali, ma di fatto non era nessuno. Io non l’avevo nemmeno messo in considerazione quando sono uscito, però dobbiamo farci i conti con questa cosa.

Farci i conti vuol dire anche farsi delle domande su di noi. Perché abbiamo fallito? Per stanchezza, frustrazione, paura…
Io non lo so quali siano le cause. Di certo ho l’impressione che tante persone che conosco abbiano dato veramente tanto in termini di generosità e di impegno. Quelle persone per inseguire queste cose hanno rifiutato lavori, mandato in vacca carriere, sono restate al palo e ora a trentacinque vivono un inferno, spesso con denunce – e non certo per aver rubato alle vecchiette – e con vite rovinate per generosità. Quindi personalmente credo che sì, qualcosa abbiamo certamente sbagliato, magari siamo stati poco inclusivi, non siamo riusciti a far passare alcune cose, però penso anche che il mondo in cui sono cresciuto ce l’abbia messa veramente tutta per cercare di resistere.

E dall’altra parte della barricata intanto cosa hanno fatto?
Ho l’impressione che abbiano fatto una guerra, mi sembra che abbiano scientificamente cercato di atomizzare la nostra parte di società, rendendola sempre più precaria, favorendo forme contrattuali che ti costringono a lottare da solo senza associarti con gli altri. È stato sistematico, quindi se vuoi il nostro errore è stato non essere stati capaci di rispondere e di difenderci.

Effettivamente la frammentazione sembra avere colpito soprattutto una parte, quella che chiamerei della sinistra critica, mentre in altri settori della società è vero forse il contrario. Dal Movimento 5 stelle, che è per l’appunto un movimento di aggregazione popolare, fino ai vertici e alle élite, che nel frattempo si sono alleate e strutturate molto meglio. Perché la sinistra invece è naufragata così?
Perché non siamo mai stati capaci di sfuggire dall’accusa di buonismo, perché la gente ha vissuto il tentativo di costruire reti di solidarietà dal basso non come una cosa che serve a tutti, perché tutti possono ritrovarsi per strada in questo mondo, bensì come una specie di cosa caritatevole e terzomondista à la Madre Teresa di Calcutta. C’è anche un altro elemento da considerare: quando la gente si ritrova con le pezze al culo non vuole fare la carità agli altri, senza rendersi conto che è l’unica cosa che li può tutelare quando toccherà a loro di stare con le pezze al culo.

Da Genova , che per noi è una specie di anno Zero, sono passati quasi vent’anni e alla nostra generazione se n’è aggiunta un’altra. In tanti, più titolati di noi due, iniziano a parlare di classi al posto che di generazioni. Cosa ne pensi? Potrebbe essere una svolta? Alla fine il considerarla sempre una cosa generazionale forse non ci ha limitato nel riuscire a unire tutte le tessere di questo puzzle a sinistra?
Sicuramente la lettura di una società divisa in classi è una visione molto più efficace di tantissime altre che ci hanno propinato negli ultimi decenni. Anche se per me l’importante è che non la prendiamo e la riusiamo come cinquant’anni fa, perché nel frattempo è cambiato tutto, si è fatto tutto più fluido e certe analisi non si possono più fare come prima.

Per esempio?
Prendi i consumi. Una volta le classi avevano consumi radicalmente diversi, i ricchi non compravano le stesse coe dei poveri. Ora invece succede sempre più stesso il contrario: vogliamo le stesse cose, anche se ovviamente il loro costo ha un impatto radicalmente diverso a seconda della tua classe di provenienza e richiedono dei sacrifici diversi, però mi sembra che una novità sostanziale sia proprio che aspiriamo a consumare le stesse cose, a comprare gli stessi oggetti, persino a usare le stesse droghe. Dopodiché la questione di classe è ancora centrale nell’avere o no prospettive, basta saperla declinare in modo non anacronistico, adattandola ai cambiamenti che la società ha attraversato.

I nostri genitori sono quelli han fatto il ’68 e molti di noi sono cresciuti con il dogma del pacifismo, della paura di passare dalla parte del torto se si rispondeva alla violenza, del — come scrivi tu in Macerie Prime — “piuttosto fatti arrestare”. Secondo te quanto ci siamo fregati con questo atteggiamento?
Sì, il tabù della violenza è frutto degli anni Settanta, degli anni di piombo, un tabù che ci siamo portati dietro fino ad oggi e che tutti i tentativi che abbiamo fatto per ragionare su quali siano le forme di reazione possibili, almeno fino a Genova, a qualche cosa han portato. Certo, Genova è stata la pietra tombale. Alcuni di noi da quella esperienza hanno tratto solo terrore e voglia di allontanarsi da qualsiasi movimento di piazza per moltissimi anni. Noi non siamo stati capaci di uscire da questo loop, ma se vai a vedere alcune delle manifestazioni che si sono svolte a Roma tra il ’14 e ’15.

Per esempio?
Penso al 14 dicembre e al 15 ottobre, che sicuramente sono due date molto diverse,ma hanno segnato dei momenti importanti, in cui molti giovani sono scesi in piazza. Ragazzini di 15 e 16 anni, estranei a noi che, per la prima volta, scendevano in strada e lo facevano senza probabilmente nemmeno riconoscersi dei centri sociali, e lo facevano senza paura, senza il terrore in testa di quello che era successo a Genova. Questi fatti potevano fare ben sperare.

Però non c’è stato un grande seguito a quell’impegno, no?
Sì, è vero, probabilmente perché è stata una cosa confusa, confusionaria, che non è mai riuscita a darsi una forma veramente politica, però è stato un segnale molto incoraggiante.

Tornando alla nostra microgenerazione, noi abbiamo avuto dei nonni che hanno combattuto una guerra civile e dei genitori che, dopo aver provato a fare la rivoluzione, ci hanno invece inculcato i valori del pacifismo ad ogni costo, fino a quel “piuttosto fatti arrestare” che fai dire a tua mamma prima che tu parta per il G8. C’è un modo di non tradire né i primi né i secondi?
Per quanto riguarda, la mia famiglia ha attraversato oltre che il ’68 anche il ’77, che ha avuto altre forme e che secondo me è stato il trauma vero che ci siamo portati dietro. Nel caso particolare di mia madre devo dire che dopo quel fatto di Genova, dopo aver visto quel che è successo, se n’è pentita anche lei e non mi ha più detto “piuttosto fatti arrestare”. Io continuo a pensare una cosa che è quasi indicibile in Italia, ovvero che la violenza ha tante forme diverse ed è molto ottuso pensare che tirare un petardo sia un atto di violenza, mentre invece il contesto di violenza continua in cui viviamo non lo sia.

Che cosa intendi con “il contesto della violenza in cui viviamo”?
Non credo che condannare una intera generazione al precariato o privare migliaia di lavoratori dei diritti fondamentali sia un atto pacifico. Credo che si debba approcciare l’argomento senza dogmatismi o pregiudizi. Chiariamo, io non sono certo uno che pensa che si debba per forza fare a schiaffi, anzi, se si può evitare è certamente meglio, però anche quello è uno strumento e va analizzato in quanto strumento.

A proposito di strumenti e tattiche, come mai la nostra generazione non ha mai pensato di mettere in pratica altre armi di contrattacco rispetto allo sfruttamento, come scioperi, sabotaggi, infiltrazioni, tutte tattiche che hanno sempre fatto parte dei movimenti di liberazione e di guerriglia? Alla fine i precari sono dovunque, avremmo un’arma potentissima in mano…
Secondo me non ci abbiamo mai pensato perché in questo senso siamo molto figli del ’77 e le nostre organizzazione politiche sono la figliazione di quello che c’era un tempo. Rispetto ad altri paesi credo che dal punto di vista dell’attivismo scontiamo una grave mancanza di fantasia. Non riusciamo a immaginarci cose nuove o alternative, ma al contrario tendiamo a riproporre i soliti schemi, e credo che questo sia uno dei grandi limiti dei movimenti italiani. Certo, è anche vero che anche quando le forme di sabotaggio sono state messe in pratica — penso per esempio ad alcuni episodi della battaglia contro la TAV — queste sono state represse con estrema durezza. C’è gente che si è fatta dei mesi, se non addirittura un anno di carcere per aver sabotato un compressore di un cantiere. Pene spropositate e accuse agghiaccianti.

Pene spropositate soprattutto se pensiamo a quelle inflitte per reati contro il patrimonio, per esempio?
Esatto, io ci penso sempre a sta cosa: intanto che ci invitano continuamente al buon senso, alla non violenza, al sacrificio e via dicendo, quelli che stanno dall’altra parte vanno avanti con lo schiacciasassi.

È il risultato di una contro lotta di classe?
Eh, sì.

Tornando al discorso padri-figli: spesso parlando del conflitto generazionale tiro fuori un’immagine che mi sembra molto efficace, quella della guerra civile al pranzo della domenica. Sostanzialmente ogni volta che andiamo a mangiare dai nostri genitori ci troviamo davanti, contemporaneamente, alla nostra unica ancora di salvezza, ma anche al nostro aguzzino. Che ne pensi?
Io ho sempre cercato di non vederla in quella chiave, nel senso che i loro diritti non hanno tolto diritti a me e io credo che i diritti vadano sempre allargati, più che ridotti…

Sì, assolutamente, noi c’eravamo a fare le manifestazione negli anni ’90 e primi Duemila per difendere robe come l’articolo 18, mentre loro quando c’erano da difendere i diritti dei più giovani non si sono mossi…
Sì, chiaro. È oggettivamente avvilente. Una soluzione non ce l’ho ovviamente. Per un certo periodo ho pensato che la soluzione, man mano che fossimo andati avanti con il tempo, sarebbe nata spontaneamente anche soltanto perché saremmo diventati tantissimi a non avere una pensione e nessun diritto. Quindi, pensavo, diventeremo un tema sociale così grosso che qualcuno prima o poi dovrà porselo il problema e farci i conti.

Ma invece?
Eh, mi pare che più si va avanti con il tempo, più viene fuori proprio quella contro lotta di classe di cui parlavamo prima, e che mi sembra sempre più evidente come, non tanto i nostri genitori ovviamente, ma le classi dominanti, sempre più ristrette, sono tranquillamente disposte a veder condannare una larga parte della popolazione a questa sorta di non vita senza farsi troppi problemi. Anche perché ormai credo che l’abbiano capito che quella parte di popolazione può essere larga quanto vuole ma tanto non si sa organizzare. Insomma, sono molto meno ottimista di prima.

Negli ultimi anni, soprattutto in alcuni aspetti della nostra vita, questa guerra civile la riproponiamo anche internamente a noi, come se fossimo contemporaneamente sfruttati e sfruttatori, esattamente come siamo sempre sia lavoratori che consumatori. Pensa per esempio a Airbnb, che ci è molto comoda quando andiamo in vacanza perché possiamo permetterci di andare nei centri città senza spendere un patrimonio, ma che in realtà come fenomeno impoverisce i quartieri dove diventa generalizzato. Che ne pensi?
Allora, onestamente ti dico: non lo so. Nel senso che io non vado in vacanza, per esempio, e cose come Uber, Deliveroo e via dicendo a me mi sembrano roba da fighetti o da erasmus e non le ho mai vissute sulla mia pelle. Però ti confesso che mi è capitato di pensarci, in particolare ad Airbnb, proprio stanotte. Giuro. E il problema che mi sono posto è proprio questo: come si approccia a una cosa che contemporaneamente depreda e impoverisce i territori, ma è anche spesso per alcuni — e molti ne conosco — rischia di essere l’unica piccola entrata che hanno? La soluzione non ce l’ho, confesso che non ci ho riflettuto abbastanza. In questo senso, quando dico che ho bisogno degli intellettuali, intendo proprio questo. Io ho bisogno di qualcuno che problematizzi questi argomenti, che mi aiuti a capirci qualcosa, perché io faccio un altro lavoro e non ho gli strumenti per capire queste dinamiche. Vorrei degli spunti diversi sia da quelli che mi dicono che l’innovazione è tutta bellissima e sia da quelli che ne fanno un discorso super ideologico ma slegato dalla realtà.

Hai citato una figura di cui credo che tutti noi sentiamo la mancanza, gli intellettuali. Tra l’altro mentre lo dicevi pensavo che se chiedessi a cento ragazzi di indicarmi la figura di un intellettuale sono sicuro che in molti farebbero il tuo nome…
Eh eh, il che è il disastro sociale, obiettivamente.

Ma è bastato un ventennio di Berlusconi, che ha sostanzialmente trasformato la parola intellettuale in un insulto per distruggere tutta la categoria? Che cosa è successo? Perchè i nostri punti di riferimento o sono morti, o stanno morendo? Insomma, Chomsky ha mille anni ed è uno dei pochi ancora vivi…
Sì, stanno crepando, non si sono riprodotti e nell’accezione ormai comune è effettivamente diventato un insulto. Nel mio piccolo spesso quando leggo in giro alcune notizie percepisco che queste mi mettono a disagio, percepisco la violenza del discorso dominante, ma non so articolare queste sensazioni, non sono capace. Per questo ho bisogno di altri che lo sappiano fare.

Tipo? Chi hai in mente?
Mah, uno devo dire che negli ultimi anni Ascanio Celestini è riuscito spesso, almeno per me, a esprimere punti di vista che avevano per un valore importante, perché mi davano una lettura diversa da quelle che sento dovunque e che ormai si ripete all’infinito senza contraddittorio. E chiaro che però il suo punto di vista di Celestini nel dibattito pubblico è totalmente inesistente, ma ci servirebbe anche solo per ricordarci che i punti di vista e le interpretazioni della realtà possono essere messe in discussione.

Come vivi la responsabilità del fatto che in molti, soprattutto giovanissimi, ti considerino un punto di riferimento, anche intellettuale?
La vivo male, nel senso: io ho alcuni argomenti che conosco perfettamente, e sono quei soliti cinque, su quello mi posso esprimere con sicurezza, ma sul resto io ho veramente bisogno di stimoli. È difficile farsi un’opinione vera sulle cose. O le vivi tu direttamente, o se no sei costretto a informarti ma le fonti sono sempre le stesse, dicono tutti la stessa cosa e è diventato proprio difficile capirci qualcosa. Io per esempio ho una serie di persone che chiamo o con cui parlo quando ho bisogno di leggere la realtà. Spesso fanno lavoro sulla carta molto meno intellettuali di me, tipo gli archivisti nei supermercati, ma su quelle cose sono molto più bravi di me. Io ti giuro che prendo appunti.

Però tu hai un linguaggio, che è quello del fumetto, che rispetto a quello dei cosiddetti intellettuali considerato noiosissimo e inutile, è fresco e arriva al pubblico. Hai in progetto di lavorare con qualcun altro e di mettere insieme le competenze?
Sì, ci ho pensato. È successo per esempio che alcuni giornali mi chiedessero di andare negli Stati Uniti durante la campagna elettorale per le Presidenziali. Ma io degli USA non ne so nulla, avrei dovuto studiare un anno. E quindi dico di no. Però sì, mi piacerebbe. C’è una persona, un giornalista, a cui l’ho chiesto molte volte e che conosco molto bene, si chiama Guido Caldiron e si occupa della nuova destra, dei populismi, di società securitaria. Mi piacerebbe molto fare un lavoro di questo tipo, andare insieme a lui perché lui sa tirare fuori i temi, la ciccia, cosa che io faccio fatica a fare. Verrebbe fuori un prodotto ibrido che secondo me potrebbe essere figo, in parte inchiesta, in parte fumetto, integrare le due cose.

Infatti, anche perchè la tua capacità di leggere e raccontare le emozioni, per esempio, è una cosa che manca troppo spesso dall’altra parte.
Sì, è vero, ti ripeto, mi piacerebbe un sacco. È che lui è pigro.

A proposito della destra radicale che hai appena citato, come vivi da persona che si è sempre impegnata attivamente nell’antifascismo, fatti come quelli che sono accaduti pochi giorni fa a Como?
La sto vivendo male, è evidente. Io credo che ci siano due cose distinte: da una parte un sentimento popolare sempre più diffuso fatto di rabbia, di invidia sociale e via dicendo, che è molto profondo ed è un problema enorme. Anche perchè poi ci sono tante forze politiche che soffiano su questo fuoco, che passano mesi a parlare di migranti e rifugiati in chiave sempre negativa, come se fossero invasori. In questo contesto poi è ovvio che, dopo che hai fatto terrorismo psicologico sulla popolazione, se inizi a dire che vuoi dare a queste persone delle opportunità la gente ti azzanna. In Italia, a Roma in primis, c’è un serio problema abitativo, è chiaro che se poi questa gente disperata sente che “ai miganti gli danno la villa” rischia di scoppiare il pogrom e questo problema riguarda il fatto che interi territori italiani sono abbandonati a se stessi da decenni. Poi c’è chiaramente anche il problema del neofascismo. Qui il problema credo che sia soprattutto il fatto che i giornali non li raccontano ma lasciano che siano loro a raccontarsi, gli danno la dignitià degli interlocutori. Sembrano il PCI degli anni Cinquanta, basta che davi un sacco di pasta ai poveri per far passare che ti stavi occupando della povertà in Italia.

Come siamo arrivati a questo punto?
Abbiamo passato gli ultimi vent’anni a dire che questi erano il problema e tutti ci davano dei matti. Ora che sono visibili quello che diciamo è sì che questi sono un problema, ma non sono certo irresistibili, ci si può opporre a questi qua. E invece dalla narrazione giornalistica sembra che questi siano milioni, quando in realtà sono pochi, marginali e limitate. E gli si può rispondere. Certo che se pensiamo di risolverla con il DDL Fiano siamo fuori strada.

Perché?
Perché se pensiamo che il problema sia un meme di Mussolini o la foto di Anna Frank usata dai tifosi della Lazio — entrambe cose assolutamente ripugnanti — siamo fuori strada totalmente. Il problema vero è che questi si permettono di impedire l’assegnazione di case popolari a cittadini italiani assegnatari di diritto soltanto perché hanno la pelle nera, o di intimidire associazioni dentro i loro stessi luoghi di assemblea. Però quelle organizzazioni non vengono mai messe in discussione, perché il problema è solo quello folkloristico dei meme.

Ma perché la sinistra italiana sta combattendo queste battagline di retroguardia come la DDL Fiano e non si occupa di affrontare di petto la questione?
Siamo arrivati a questo punto perché negli ultimi vent’anni abbiamo lasciato che si potesse dire che tutto sommato si può essere fascisti, che i partigiani e i repubblichini erano la stessa cosa, che quando si parla di idee ognuno può dire la sua. Ma un’idea che sostiene che le altre idee siano da cancellare come la possiamo considerare un’idea? A un certo punto queste cose hanno un effetto nella società, e poi si arriva a non sapere più come gestirle. E noi ci siamo quasi purtroppo.

 

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