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Albino Luciani. Le sorprese di Dio (Piero Lazzarin, EMP, 2012)

di EMP
Fonte: Rebeccalibri

Introduzione

Albino Luciani è stato davvero una «sorpresa di Dio», come ben esprimono il titolo e i contenuti di questa accurata e appassionata pubblicazione. Lo è stato in moltissimi, e diversi, momenti della sua vita e non solo in occasione dell’imprevista ma straordinaria vicenda finale che lo ha portato ad essere, per appena 33 giorni, vicario di Cristo.
Si può, anzi, affermare che un certo senso di meraviglia e di stupore – generato dall’accogliere e dal contemplare l’opera di Dio che, in tanti e imperscrutabili modi, agisce provvidenzialmente nella storia degli uomini e della sua Chiesa – abbia sempre accompagnato l’esistenza di Albino Luciani contribuendo a delinearne i tratti di semplicità, limpidezza e soavità mai disgiunti, peraltro, da un carattere che sapeva essere anche molto deciso e fermo. Sempre in integra obbedienza e fedeltà al Signore, da lui tanto amato e continuamente servito.
Il ricordo di Albino Luciani è tuttora vivissimo e caro ed è una memoria colma di gratitudine. Risuona sovente sia nella Chiesa universale che, in special modo, nella sua terra natale e nei vari luoghi del nostro Veneto in cui ha esercitato il suo ministero sacerdotale ed episcopale.
La sua figura, in particolare, continua a riecheggiare a Venezia, che l’ha avuto come indimenticato Patriarca per quasi 9 anni. Anche per me essere in questo momento sulla Cattedra di San Marco – ed averlo così come eminente predecessore – ha rappresentato e rappresenta tuttora una vera «sorpresa» di Dio che ha voluto toccare e segnare in profondità la mia vita.
È chiaro che tutti noi, probabilmente, non riusciamo ancor’oggi a cogliere fino in fondo la grandezza della «sorpresa» e la portata del regalo che Dio stesso ha voluto offrirci chiamando Albino Luciani sul soglio di Pietro per un mese e poco più. Un tempo umanamente brevissimo e, si direbbe, pressoché irrilevante. Eppure possiamo esserne certi: il Signore non si sbaglia mai. E allora, anche se fatichiamo a capire tutto e a comprendere il «perché» ha fatto questo, non ci mancano tuttavia – se riflettiamo con attenzione – gli elementi per intuire almeno qualcosa e accendere qualche «luce».
Anche la lettura di questo libro – che ripercorre l’intera vita di Albino Luciani dando, opportunamente, adeguato spazio a ciò che lui ha fatto e detto – ci aiuta di più a penetrare il mistero e a comprendere appieno la bella «sorpresa» che, in tal modo, Dio ha riservato alla sua Chiesa e al mondo intero.

✠ Francesco Moraglia
Patriarca

 

La notizia che non ti aspetti

Oggi 29 settembre, intorno alle ore 5.30, il segretario particolare del Papa, il reverendo John Magee, non avendo trovato il Santo Padre nella Cappella dell’appartamento privato, come al solito, lo ha cercato nella sua camera e lo ha trovato morto nel letto, con la luce accesa, come se fosse ancora immerso nella lettura. Il medico, dottor Renato Buzzonetti, immediatamente accorso, ne ha constatato il decesso, avvenuto presumibilmente verso le ore 23 di ieri e ha diagnosticato «un’improvvisa morte dovuta a infarto acuto del miocardio».

(Sala Stampa della Santa Sede)

 

Capitolo 1

I trentatr. giorni del Papa del sorriso

Incredulità, stupore, sgomento, amarezza… queste le reazioni che ti prendevano alla gola quella mattina del 29 settembre 1978, a mano a mano che le agenzie nazionali e internazionali battevano e radio e telegiornali rilanciavano in incalzanti e drammatiche edizioni straordinarie, l’incredibile notizia: papa Luciani era morto. Nulla di eccezionale in sé. Anche i papi muoiono e poi, morto uno, se ne fa un altro, come sentenzia la saggezza popolare per dare ragione dell’ineluttabile accadere degli eventi umani. Tuttavia, incredulità e sgomento in quel caso erano più che giustificati. Giovanni Paolo I, il pontefice defunto, sedeva sulla cattedra di Pietro da soli trentatré giorni, mai nessuno era durato così poco al vertice della chiesa di Roma.
Era stato eletto il 26 agosto precedente in un veloce conclave (un paio di giorni) che doveva scegliere il successore di Paolo VI, il grande papa che aveva portato a termine il concilio Vaticano II, avviato da Giovanni XXIII, e guidato la chiesa nella difficile stagione postconciliare. Periodo, quest’ultimo, esaltante per le tante e importanti novità messe in atto allo scopo di far emergere una chiesa rinnovata nella fede, negli slanci evangelici, nella carità e nell’attenzione agli altri. Esaltante, ma non privo di rischi, di equivoci, di avventate fughe in avanti, che avevano obbligato papa Montini a tirare più volte il freno, a mettere paletti per evitare improvvidi deragliamenti, suscitando malumori e delusioni. E la partita non era ancora chiusa.
Per questo, aveva suscitato sorpresa che a guidare la barca di Pietro in un mare tutt’altro che placato, fosse stato scelto un cardinale poco conosciuto, dall’aria dimessa e schiva, più da curato di campagna, o di montagna, dalla quale proveniva, che da autorevole principe della chiesa e impavido nocchiero. Una scelta targata evidentemente «Spirito Santo», visto che i calcoli umani avrebbero portato a scegliere in altre direzioni.
Trentatré giorni, dunque, percorsi dal nuovo pontefice sulla scia dei suoi immediati predecessori, Paolo VI e Giovanni XXIII, dei quali aveva voluto prendere il nome, fondendoli irritualmente in un Giovanni Paolo I, accolto con curiosità e simpatia.
Trentatré giorni, indossati con coraggio ogni mattina, assieme alla bianca veste, che non pareva tagliata sulla sua misura.
Trentatré non inutili giorni, illuminati dal suo sorriso timido ma aperto e sincero, scaldati dalla simpatia e da quello stile pastorale, da buon parroco di campagna appunto, che lo portava a tramutare le udienze del mercoledì in vivaci lezioni di catechismo, con tanto di bambini intorno, per i quali (e per tutti) riduceva in briciole il pane della dottrina cristiana, presentando le grandi lezioni della fede e le evangeliche virtù con un dire semplice, immediato, colloquiale, ricco di esempi e venato di piacevole ironia, che è frutto di vasta e ben assimilata cultura. Il parlare, e scrivere, semplice e chiaro è dono, infatti, di scienza e intelligenza. Quell’intelligenza interiore, che gli ha fatto dire un giorno (udienza generale del 27 settembre) che «Dio ci è Padre ma anche Madre». E non si è trattato di una battuta, detta così per sorprendere, ma di una profonda verità di Dio…
Trentatré giorni di faticoso ma sereno rodaggio, spesi nell’imparare a vivere una missione di servizio importante e piena di responsabilità, forse neppure sognata, e nella quale stava mandando segnali, gravidi di lusinghiere promesse.
Non c’era nulla, proprio nulla, apparentemente, che lasciasse intravedere un’interruzione così repentina e drammatica della sua nuova esperienza umana e pastorale. Neppure l’età: aveva solo sessantasei anni; da qui l’incredulità che aveva tenuto tutti con il fiato sospeso.
Radio e tv, intanto, impietosi e in un concitato succedersi di edizioni straordinarie, arricchivano di particolari la laconica notizia iniziale, e di testimonianze che non lasciavano spazio a dubbi di sorta. Il papa era morto, quella notte, probabilmente d’infarto. Il segretario particolare, reverendo John Magee, non avendolo visto nella cappella dell’appartamento, era andato in camera sua e l’aveva trovato steso sul letto, con la luce accesa e con un libro ancora in mano.
L’incredulità cedeva quindi il posto allo sgomento, al dolore, a tanti comprensibili interrogativi e, in seguito, anche a impietose e ardite illazioni, tendenti a dare alla vicenda i colori foschi e inquietanti dell’intrigo e del complotto. Insomma, secondo alcune cervellotiche ricostruzioni, papa Luciani sarebbe stato vittima di intrighi di curia, avvelenato, come ai tempi dei Borgia. Quelle ricostruzioni fecero presa nella fantasia della gente, e ancor oggi trovano assertori convinti. Tutto in quei giorni pareva probabile, fuorché la più naturale e ovvia conclusione: il cuore del papa aveva ceduto, schiacciato dalla mole di responsabilità che lo attendeva.
L’eco dell’incredibile evento si è così radicata nella memoria di chi quei giorni li ha vissuti, che ancor oggi, quando ne parli, tutti ricordano esattamente dov’erano quando hanno appreso la notizia. Io, per esempio, mi stavo recando al lavoro e me l’ha comunicata un passante con la radiolina appiccicata all’orecchio.
– Dicono che è morto il papa, ma chissà se è vero – mi disse scuotendo incredulo la testa.
Avevo affrettato il passo per raggiungere la redazione del «Messaggero di sant’Antonio» e comunicare ai colleghi quanto sentito. La notizia mi aveva preceduto e aveva già seminato sgomento e sconforto, perché papa Luciani, da cardinale, era per noi uno di casa, addirittura un collega. Quando era patriarca di Venezia aveva collaborato alla nostra rivista, scrivendo immaginarie lettere a illustrissimi personaggi del passato veramente esistiti o anche solo creati dalla fantasia di letterati. Lo scopo era di intrattenersi con loro sulle vicende del loro tempo, confrontandole con quelle del nostro, di solito assai simili pur nella diversità degli scenari, per far emergere l’identico bisogno dell’uomo di agganciare la propria vita a Dio e al vangelo, per non vederla intristire nella meschinità e nell’egoismo senza fine e senza costrutto.
Un’invenzione letteraria originale e sapiente, supportata da una prosa vivace e intrigante, dalla quale emergeva una cultura incredibilmente vasta, che spaziava dalla teologia alla letteratura inglese, sorprendente in un vescovo.
Le lettere agli illustrissimi avevano riscosso subito ammirazione e grande successo, soprattutto quando furono raccolte in un volume, Illustrissimi, appunto.
Con l’illustrissimo collega, che ci onorava della sua amcizia e stima, diventato sommo pontefice, avevamo fissato un incontro, che sarebbe stato un grande momento di gioia, di festa e di riconoscenza.
E invece, eccoci costretti a cambiare programmi, a predisporci in fretta per andare a Roma, nella basilica di San Pietro a rendergli l’estremo saluto, accompagnati da tanti rimpianti.

 

Parte seconda

L’infanzia, dura ma felice

Posso assicurarvi che durante l’anno dell’invasione [1917] e anche dopo, ho veramente patito la fame.

(Conversazione con i bellunesi, 3 settembre 1978)

In te [Pinocchio] fanciullo riconoscevo me stesso, nel tuo ambiente il mio ambiente. Quante volte correvi in mezzo al bosco, attraverso i campi, sulla spiaggia, sulle strade! E con te correvano la Volpe e il Gatto, il cane Medoro, i ragazzi della battaglia dei libri. Parevano le mie corse, i miei compagni, le strade e i campi del mio paese.
Andavi a vedere i carrozzoni arrivati in piazza; anch’io. Nicchiavi, torcevi la bocca, mettevi la testa sotto le coperte prima di prendere il bicchiere colla medicina amara; anch’io. La fetta di pane imburrata da tutte e due le parti; il confetto con dentro il rosolio; la pallina di zucchero e, in certe occasioni, perfino un uovo, perfino una pera, perfino le bucce della pera, rappresentavano un «tetto» radioso per te, goloso e pieno di fame; lo stesso era di me.
Anch’io, andando e tornando da scuola, venivo coinvolto nelle battaglie: a base di palle di neve nella stagione invernale; a base di cazzotti e generi affini in tutte le stagioni dell’anno; un po’ incassavo, un po’ davo, cercando di pareggiare entrate e uscite e di non piagnucolare con quelli di casa, che, se mi fossi lagnato, mi avrebbero, forse, dato il resto!

(Lettera a Pinocchio)

Fonte: Rebeccalibri
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