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Charlotte Brontë, una donna che non immaginate

di Elisabetta Rasy
Fonte: Domenica – Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2016

L’ultimo film dal romanzo Jane Eyre è stato fatto nel 2011 da Cary Fukunaga, il regista della serie iniziale di True Detective, il primo risale al 1910, un cortometraggio muto diretto dal pioniere del cinema Theodore Marston. In mezzo un numero considerevole di altre trasposizioni cinematografiche, tra cui una, la più celebre, con Orson Wells del 1944, e da noi quella di Zeffirelli del 1996, oltre a una nutrita serie di adattamenti per la televisione in vari Paesi europei. Ma Charlotte Brontë, la sua autrice, non ne sarebbe affatto stupita: quando scrisse Jane Eyre, nel 1846, a trent’anni, era convinta di scrivere un’opera rivoluzionaria e di aver inventato un’eroina di un tipo nuovo affidata al futuro, molto diversa dalle protagoniste dei romanzi scritti dagli uomini, create «dalla loro stessa fantasia», artificiali «come la rosa del mio cappello». E diversa anche dai personaggi femminili usciti dalla penna di illustri colleghe, per esempio Jane Austen, che Charlotte non amava molto. Se Orgoglio e pregiudizio è, come Jane Eyre, un altro romanzo evergreen che gli contende il primato delle versioni cinematografiche e televisive e che sfida audacemente i secoli, le due protagoniste non potrebbero essere più diverse: la Elizabeth Bennett di Austen è una ragazza intraprendente che naviga intelligentemente nei valori della società del suo tempo: denaro, stato sociale, matrimonio. L’istitutrice Jane, invece, mette in campo valori nuovi: lavoro soprattutto e forza della passione, proponendo al lettore un’immagine di inedita indipendenza femminile. In tutti i suoi quattro romanzi, Charlotte dà voce a molte idee, ma una è quella portante: le donne non sono come gli uomini se le immaginano. Lo fa dire esplicitamente dalla protagonista di un’altra opera, Shirley: «Se gli uomini potessero vederci come realmente siamo, sarebbero alquanto sorpresi».
Una verità innegabile alla metà dell’Ottocento, ma tutt’altro che superata all’inizio del terzo millennio. Anche per questo l’Inghilterra festeggia con convinzione il bicentenario (21 aprile) della nascita della intraprendente signorina Brontë, che tale – signorina – rimase fino a un anno prima della morte, quando, ormai priva delle sorelle Emily e Anne, accettò un tardivo matrimonio con un uomo che faceva lo stesso mestiere del padre, il curato di campagna. Tra le tante iniziative per ricordarla, una mostra alla National Portrait Gallery di Londra, con manoscritti e ritratti, e una esposizione di oggetti personali e cimeli famigliari nella casa museo Brontë Parsonage, ad Haworth, nello Yorkshire, dove la scrittrice visse quasi tutta la vita. Mentre una nuova biografia di Charlotte a opera della studiosa Lyndall Gordon (Una vita appassionata) viene pubblicata in Italia dall’editore Fazi, che in occasione del duecentesimo compleanno ripubblica anche Il professore, dopo aver riedito qualche mese fa Shirley.
La bibliografia sulla più anziana e nota delle sorelle Brontë (benché il vero capolavoro, Cime tempestose, l’abbia scritto Emily) è sterminata, a partire dalla prima biografia scritta poco dopo la sua morte da un’altra intraprendente scrittrice sua contemporanea, Elizabeth Gaskell, legata a lei da una benevola amicizia. Ma la signora Gaskell aveva a cuore soprattutto l’onore vittoriano e cercava di difendere la figura di Charlotte dall’immagine non sempre lusinghiera che ne avevano dato gli scrittori del suo tempo. Il critico e poeta Matthew Arnold, per esempio, l’aveva descritta come «nient’altro altro che fame, ribellione e rabbia», e anche William Thackeray, che pure la stimava, decise di non poter essere suo amico: «Il fuoco e la furia che ardono quella piccola donna, la collera che infiamma il suo cuore non fanno per me». Per questo la prima biografa creò l’icona destinata a entrare nella mitologia Brontë, quella di una «vita di desolazione», di una donna «passata per sofferenze tali da averla privata di ogni scintilla di allegria». In realtà – e su questo insiste il racconto biografico di Lyndall Gordon – se è vero che la vita di Charlotte fu segnata da gravi sofferenze – morte precoce della madre, perdita continua di familiari amati, problemi di denaro e di solitudine – lei non ne fu piegata e vinta: era una persona tutt’altro che desolata e invece molto appassionata e determinata a emergere, ad affermarsi, a trasformare le proprie sofferenze in materia d’ispirazione. Soprattutto decisa a dedicarsi a un lavoro considerato poco adatto a una donna. All’inizio dei suoi esperimenti letterari aveva cercato la protezione del poeta laureato Robert Southey, ma lui le aveva scritto perentoriamente: «Signora, la letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna». Lei gli aveva risposto con l’apparente ossequio che un tipo del genere si aspettava dalle signore, ma con sotterranea ironia che un occhio meno conformista non poteva fraintendere: «Mi sono sforzata di assolvere pienamente non solo tutti i doveri di una donna, ma anche di interessarmi profondamente a essi. Non sempre ho successo, perché talvolta, mentre insegno o lavoro di cucito, preferirei leggere o scrivere, ma cerco di reprimermi…».
Comunque quando decise di pubblicare scelse lo pseudonimo maschile Currer Bell, cognome che, con altri nomi maschili, assunsero anche le sorelle Emily e Anne per firmare i loro libri, essendo tutte e tre convinte che le autrici vengono «spesso guardate con pregiudizio» e che «i critici si servono per condannarle, dell’arma del loro essere donne, e per lodarle di un’adulazione che non è vera lode». Ma anche quando il velo dello pseudonimo cadde, Charlotte, malgrado le accuse di sfacciataggine, continuò per la sua strada, raccontando cosa si prova a essere un’istitutrice colta e povera in una casa di ricchi ignoranti e maleducati, come si patisce a non poter esercitare pubblicamente la propria intelligenza, quanto è frustrante non poter ambire a un lavoro all’altezza delle proprie capacità e anche di quanta passione siano capaci le donne seppure respinte da chi amano, come era successo a lei travolta dal desiderio per un professore che aveva conosciuto durante un periodo giovanile di studio a Bruxelles. Fedele alla sua nuova eroina: la donna che lavora e che si costruisce la sua strada, non bella ma tenace e soprattutto in rivolta contro le convenzioni dell’epoca.
Dopo la sua morte il padre e il vedovo se ne spartirono l’eredità, il padre facendo con i suoi cimeli piccoli souvenir da vendere, il marito (che si era velocemente risposato) nascondendo le lettere in cui il suo spirito ribelle veniva allo scoperto. Ma il patrimonio lasciato da Charlotte è riuscito eludere la stretta sorveglianza dei suoi volenterosi custodi, e a circolare nei luoghi più imprevisti. Per esempio recentemente in Pakistan: dove la Brontë Society ha tradotto la sua guida in urdu per venire incontro al crescente interesse delle donne pakistane, che trovano la loro condizione e i loro desideri molto simili a quelli espressi da Miss Brontë nelle sue opere.

 

Lyndall Gordon, Una vita appassionata. Vita di Charlotte Bronte, trad. it. di Nicola Vincenzoni, Fazi 2016, pagg. 504, € 18.

Fonte: Domenica – Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2016
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