Rebecca libri

Cosa leggono quelli che leggono per lavoro?

di Valentina Pigmei

Wislawa Szymborska le chiamava «letture facoltative», per distinguerle da quelle obbligatorie; e ci teneva a definirsi «una lettrice amatoriale, su cui non gravi l’imperativo di un’incessante valutazione». Sono quelle letture – per alcuni rigorosamente classici, per altri graphic novel, per altri ancora audiolibri – che ti fanno tornare la voglia di leggere, dopo che per tutta la settimana, o tutto l’anno, non hai fatto altro che… leggere.

Mestiere mitizzato e unanimemente invidiato («che fortuna, leggi per lavoro!»), quello del professionista della lettura è in realtà più simile a un arduo barcamenarsi tra bozze, libri elettronici, testi letti con scadenze brevissime, quarte di copertina impossibili, schede di lettura di libri interminabili: insomma parole, parole, parole.

E si sa che dopo un po’ le parole perdono di senso ed è meglio fare una passeggiata o distrarsi in una qualche maniera. Eppure la lettura rimane paradossalmente il passatempo preferito dei lettori di professione. Ma allora come fare a ritrovare il piacere perduto? Se la porno-star riesce a fare l’amore con il suo fidanzato e goderne, anche questi lettori coatti riusciranno in qualche modo a godere della lettura?

Secondo Jessica Ferri di LitHub è molto difficile, perché il lettore professionista è una persona affetta da burnout (sindrome patologica di natura stressogena che, tra le altre cose, genera cinismo e deterioramento delle emozioni), uno che oramai fatica a perdersi in un romanzo senza soffermarsi ossessivamente sui dettagli.

Le scalfitture di Barthes

La Ferri racconta, non senza una certa autoindulgenza, di aver tentato invano di calarsi nella lettura di Persuasione di Jane Austen in metropolitana: niente da fare, l’abitudine a leggere in un certo modo le impediva di abbandonarsi. Immagino Roland Barthes sorridere e consigliarle una cura intensiva di classici. Perché in fondo, scriveva il semiologo francese nel Piacere del testo, «quello che gusto in un racconto non è il suo contenuto né la sua struttura, ma piuttosto le scalfitture che impongo al suo bell’involucro: corro, salto, alzo la testa, mi reimmergo».

Avendo letto moltissimo per professione so, con buona pace di Barthes, che esistono vari tipi di letture professionali, tutte abbastanza patologiche: quella ipnotica e “ginecologica” del correttore di bozze o del revisore di traduzione, che si concentra sul refuso o sul calco linguistico; un’altra più “proiettiva” e adrenalinica, ovvero quella dell’editor o del lettore di manoscritti (la velocità in questi casi è spesso data dai tempi stretti imposti dagli agenti letterari); e poi esiste una lettura lenta, che Barthes avrebbe chiamato “feticista”, quella del critico letterario o del maestro di scrittura creativa.

Come tornare bambini

Si dice che a Enrico Bistazzoni, professione redattore editoriale, non sia mai scappato un refuso. Per più di un decennio alla Fazi Editore, oggi Bistazzoni è freelance e legge per lavoro – dal 1998, quando ha cominciato – circa 40 libri l’anno. Difficile pensare che la sera, quando finisce di lavorare, gli rimanga voglia di leggere: «E invece sì, eccome» dice a pagina99. «Per me leggere non è solo un piacere; è una fuga, una vacanza. Quando leggi per mestiere, che si tratti di correzioni di bozze o schede di lettura, non c’è vero piacere. Ma quando finisco e ritaglio quella mezzora solo per me, allora leggere è un’altra cosa, e l’abbino spesso ad altri riti altrettanto piacevoli, come il tè della mattina. Con la lettura è come con una bella donna: se ti piace non ti concentri sui particolari, ma sulla percezione complessiva».

Guido Vitiello, bibliopatologo di Internazionale e professore alla Sapienza, mi ha detto: «Leggere romanzi, e goderne, non è facile per chi si sia esercitato troppo a lungo non a sospendere l’incredulità ma a coltivarla con tenacia. Quando sviluppi un’attitudine critica, alleni il muscolo sbagliato. È un po’ come disimparare l’automatismo di addormentarsi. Ai lettori, soprattutto gli accademici, che mi scrivono di non riuscire più a leggere romanzi, consiglio di leggere scrittori come Dickens e Simenon; oppure anche bei libri per ragazzi, perché fanno tornare bambini».

Ognuno ha i suoi metodi e rituali, ma molti dei professionisti della lettura che ho interrogato mi hanno confessato di essere alla ricerca dell’innocenza: «Se ti piace davvero un libro è come tornare bambino»; «Rileggo libri che amavo da piccolo»; «Rileggere un libro che si ha amato da bambini è cercare cosa ti aveva tenuto sveglio tutta una notte»; «Rileggo Jules Verne ai miei figli e sono felice».

«Come tutti gli addetti ai lavori» dice Martina Donati, editor di Newton Compton «ho avuto un terribile rifiuto per la lettura, anche perché i ritmi a cui ti abitua questo mestiere sono frenetici, mentre la lettura che fai per te ha bisogno di tempi larghi e pochi retropensieri. La mia testa correva troppo veloce, più delle parole: la drammatica abitudine di cercare di indovinare cosa possa succedere prima ancora di averlo letto, e non farsi sorprendere da un romanzo. Comunque dopo numerosi tentativi, come leggere solo libri di filosofia antispecista, oppure solo racconti, troppo brevi per permettermi di perdere la concentrazione, di recente ho ritrovato il piacere per la lettura capendo cosa va bene per me: l’ascolto. Ascoltare un audiolibro è fra i piaceri più puri che abbia provato negli ultimi anni.»

Solo fumetti e graphic novel

Agli antipodi di Newton Compton c’è Einaudi. Eppure lo stress dell’editor è simile. Francesco Guglieri, che lavora alla narrativa straniera, spiega che per lui chi fa questo lavoro è uno che ha imparato – come gli atleti – a variare e modificare il tipo di lettura in base alle circostanze: lenta, lentissima, veloce, a seconda di quello che devi fare. «Per fortuna leggere in una lingua straniera crea comunque una sorta di filtro tra te, il tuo mondo interiore, la tua lingua, e questa cosa fuori che dopo un po’ inizi a sentire come una massa informe e incombente di linguaggi, di storie, di libri. Ho letto anche tanti manoscritti italiani e lì era come lavorare in una centrale nucleare senza tuta protettiva». E continua: «Dopo una giornata passata a leggere non è scontato che venga voglia ancora di leggere. Fino a un po’ di tempo fa il mio modo di decomprimermi era leggere fumetti e graphic novel».

Leonardo Luccone, agente letterario ed editor con Oblique, racconta di non aver mai perso il piacere della lettura. «Lasciamo stare gli americani: loro quando lavorano, “lavorano”. Certo, quando faccio una valutazione professionale leggo con il libro appoggiato sulla scrivania e mi rilasso leggermente di meno, vado più lento e sono meno prestante. Ma è vero anche che spesso, soprattutto quando devi fare sgrossature di pile e pile di manoscritti, la lettura si fa eccitata, frenetica, perché so che lì potrebbe esserci qualcosa di bello, una nuova avventura. In generale, quando leggo, non distinguo troppo tra piacere e lavoro, faccio questo perché mi piace e accidentalmente è il mio lavoro».

«Anche io mi sento fortunata e credo di non aver mai perso la gioia della lettura» dice Cristina Gerosa, direttore editoriale di Iperborea. «Però vivo di sensi di colpa, soprattutto quando mi metto a leggere il romanzo italiano che mi piace invece dei libri che dovrei leggere per lavoro. Mi salva però la mia insonnia, di notte posso leggere davvero ciò che voglio senza remore.» Se, come diceva Barthes, la scrittura è la fase somma della lettura, allora lo scrittore è l’affetto da burnout per eccellenza.

«È vero, noi leggiamo in modo diverso» ammette Luca Ricci, autore di I difetti fondamentali (Rizzoli). «Gli scrittori, in quanto tali, non possono mai separarsi dalla loro vera natura, da se stessi, e anche nei rari casi in cui fingono o s’illudono di leggere per diletto, in realtà una parte di loro sta continuando incessantemente a valutare le scelte lessicali, a soppesare i registri, a ponderare  il ritmo. Personalmente soffro di una sorta di anemia della lettura: mi interrompo in continuazione, talvolta perché mi annoio, soprattutto con quelle storie piene di colpi di scena che vorrebbero solo intrattenerti; altre volte perché mi entusiasmo, e allora sono costretto a fermarmi e riflettere.»

Ma leggere non è, come scrive Julian Barnes, «la capacità di una maggioranza e l’arte di una minoranza»? Forse è meglio rassegnarsi alle “malattie” del lettore professionista, come fa Marco Cassini, editore romano (minimum fax, Sur) e autore del delizioso Refusi. Diario di un editore incorreggibile (Laterza): qui Cassini racconta della sua convivenza con vere e proprie forme di stress da lettura (curate da lui stesso con letture «che non abbiano un diretto interesse lavorativo»), vari tipi di ansia (soprattutto per non aver letto abbastanza) e infinite varietà di sensi di colpa (la peggiore delle quali deriva dal dover leggere il dattiloscritto di un amico o di un parente). Meglio non pensarci troppo. E continuare a leggere.

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