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Deborah Treisman: vita da editor al “New Yorker”

di Ennio Ranaboldo

Ci racconti la sua educazione in Inghilterra e come è diventata editor di narrativa.

I miei genitori sono entrambi inglesi, sebbene mio padre sia cresciuto in Sudafrica e la mia nonna materna fosse francese. Insegnavano a Oxford, dove sono nata, e lì ho vissuto fino ai sette anni. Quando divorziarono, e dopo un anno in California, mia madre e il mio patrigno furono assunti dalla University of British Columbia, così ho vissuto in Canada per qualche anno; ho poi studiato a Berkeley, dove mi sono laureata in letterature comparate. I miei genitori erano professori universitari, e lo stesso la mia sorella maggiore e mio fratello; io volevo fare qualcosa di diverso ma che avesse in qualche modo sempre a che fare con la letteratura. A Berkeley, ho lavorato part time per la “Threepenny Review”, ma dopo sei mesi mi sono trasferita a New York per un tirocinio da Harper’s. Da lì sono poi approdata alla “New York Review of Books”, e poi a un trimestrale di arte e letteratura, “Grand Street”, che dirigevo occupandomi di tutto quello che finiva nel giornale, narrativa, saggistica e poesia. Dopo quattro anni, nel 1997, fui assunta come vice editor di narrativa al “New Yorker” e, cinque anni dopo, sono diventata editor.

L’articolo del “New York Times” che annunciava la sua nomina diceva: “Cambia il guardiano della letteratura al ‘New Yorker’: per decenni, l’editor della narrativa del ‘New Yorker’ ha controllato il varco di accesso alla gloria letteraria”. È ancora così oggi? E com’è cambiato nel tempo il suo lavoro?

Per uno scrittore non ancora pubblicato, il “New Yorker” è certamente un accesso importante al pubblico. Il giornale raggiunge più di un milione di lettori e le pagine web sono viste da un numero ancora più grande. Gli scrittori esordienti pubblicati dal giornale riescono spesso a firmare contratti con gli editori a pochi giorni dall’uscita del loro racconto. Il modo di lavorare e le mie responsabilità sono molto cambiate nel tempo. Oltre al racconto settimanale, produciamo molte altre cose: domande e risposte con gli autori, podcast, blog, interventi speciali per il web e per la nostra edizione digitale. Organizziamo anche un festival annuale, con eventi che coinvolgono tutte le arti, la politica, la tecnologia e altro ancora. Questo detto, la mia missione non è però cambiata: è ed è sempre stata trovare, curare e pubblicare le cose migliori che vengono scritte.

Ci racconti qualcosa della sua routine quotidiana al giornale.

Ci sono altre tre persone nella mia redazione, e tutte lavorano anche sulla scrittura non narrativa (io, per esempio, curo anche il teatro), e gli scrittori Hilton Als e John Lahr. Riceviamo un enorme numero di scritti, e leggiamo costantemente: tutto quello che sembra meritevole di essere preso sul serio viene fatto circolare in redazione. Una volta alla settimana ci incontriamo per discuterne. In alcuni casi ci sono ovvi sì e altrettanto ovvi no. Altre volte, ci sono racconti che non funzionano del tutto ma che potrebbero migliorare con revisione e riscrittura. In questi casi, un redattore suggerisce dei cambiamenti, o propone specifiche modifiche allo scrittore. Siccome c’è sempre così tanto da fare in ufficio – racconti da correggere, conversazioni con gli scrittori, podcast da preparare, riunioni a cui partecipare, discussioni con i colleghi del web per qualche progetto, e con gli art editor per le immagini e le illustrazioni che accompagnano i racconti, discussioni con i fact-checker e i revisori dei testi che lavorano su ogni pezzo, iniziative speciali o eventi pubblici da programmare, e potrei continuare a lungo – tendo a concentrare la lettura al mattino, da casa. Mi alzo di solito alle 5.30, così da poter leggere prima che si sveglino i bambini e ho poi ancora un po’ di tempo quando vanno a scuola.

Quali sono i cambiamenti più importanti che ha introdotto al giornale, e quali le sfide per essere rilevanti e produrre qualità, sempre al più alto livello possibile?

Non credo che la rilevanza sia una preoccupazione, per la narrativa. Quella migliore sarà sempre rilevante, venti o duecento anni dopo essere stata scritta. Shakespeare sembra spesso molto rilevante in questo periodo! La maggior parte dei cambiamenti che ho perseguito hanno a che fare con le nuove tecnologie: i podcast non sarebbero stati possibili nel 1997, semplicemente non esistevano. Le interviste con gli scrittori che completano i racconti pubblicati ogni settimana non fanno parte del giornale cartaceo, ma è un piacere averle sul sito ed espandono, illuminandola, l’interazione tra i racconti e i lettori. Credo di aver anche cercato di ampliare la gamma della narrativa che pubblichiamo, e in tutte le direzioni. Ed è probabilmente giusto dire che ho pubblicato più lavori non americani di quanto non accadesse in passato; sia racconti in inglese di autori stranieri emigrati negli Stati Uniti che racconti in traduzione.

Una parola sulle traduzioni e sul suo stesso lavoro di traduttrice.

Ho tradotto occasionalmente dal francese: un certo numero di racconti per il giornale; un libro di teoria letteraria, subito dopo la laurea; saggi e poesie di tanto in tanto. Ma non sono mai riuscita a trovare il tempo per intraprendere progetti più ambiziosi (ho persino dovuto rinunciare alla traduzione di un romanzo in cui mi ero impegnata perché stava prendendo troppo tempo). Per me è un enorme piacere ospitare voci diverse sul giornale: la letteratura è globale per definizione, e non c’è ragione per limitare noi stessi ed i nostri lettori a una sola parte del mondo.

Qual è stata la sua interazione più ardua, o più soddisfacente, con un autore del “New Yorker”?

Non ho molte storie negative da raccontare. Nella maggior parte dei casi, gli scrittori – per quanto vedo – apprezzano il processo di revisione di un loro racconto precedente la pubblicazione sul giornale. Ricordo però, all’inizio del mio lavoro al “New Yorker” – nel 1999 – che ero alle prese con un estratto da Ravelstein, il romanzo di Saul Bellow. Affinché avesse il gusto e il movimento di una narrazione compiuta, dovetti mettere insieme pagine estrapolate da sezioni diverse del manoscritto. Sono cresciuta leggendo Bellow, e sentivo che non avevo il diritto di manipolare il suo lavoro in quel modo; così, gli mandai il testo rielaborato con qualche trepidazione. Dopo qualche giorno senza notizie, mi decisi a chiamarlo. Quando rispose al telefono, dissi nervosamente: “Mr. Bellow, mi chiedevo se avesse avuto occasione di dare un’occhiata al montaggio e vedere se quelle giustapposizioni hanno senso per lei”. E lui disse: “Bene, mi ha convinto!”. E quello fu tutto: non voleva cambiare nulla.

Ci può dire qualcosa sugli scrittori contemporanei di cui apprezza maggiormente il talento e il potenziale?

Ce ne sono così tanti! Temo che se citassi qualche nome, correrei il rischio di dimenticarne altri e di offendere qualcuno. Ma si può certamente cominciare dall’antologia che pubblicammo nel 2010, 20 Under 40: Stories from The New Yorker; quel libro fu messo insieme sulla base del nostro “Fiction Issue” e di alcune serie estive: conteneva i racconti di venti scrittori sotto i quarant’anni che ritenevamo allora tra i più promettenti.

Mai tentata lei stessa dalla scrittura narrativa?

No, non ho alcun desiderio di scrivere narrativa. Penso di essere di gran lunga al meglio quando lavoro con il materiale grezzo di qualcun altro, migliorandolo, di quanto sarei producendone di mio. C’è però un mio libro in uscita negli Stati Uniti, un progetto a cui ho lavorato per anni. È l’autobiografia del direttore di museo e curatore Walter Hopps, scomparso nel 2005.

Scelga per noi alcuni classici la cui lettura raccomanderebbe a giovani tra i 13 ed i 18 anni.

La mia figlia più grande ha dodici anni e non vuole leggere assolutamente nulla di ciò che le consiglio! Credo comunque che la mia lista comprenderebbe gli stessi libri che ho amato molto e con cui sono cresciuta: Jane EyreLolitaIl sole sorgerà ancora, i Nove racconti di Salinger, Se una notte d’inverno un viaggiatoreRumore bianco di Don DeLillo e Il dono di Humboldt di Saul Bellow.

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