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Giovanni Arpino, l’irregolare

di Giuliano Malatesta

In occasione della nuova edizione del suo romanzo d’esordio, scritto in 20 giorni a 23 anni, un ritratto dello scrittore e giornalista sportivo.

«Mai una lacrima, rischia di annacquare l’inchiostro». Inutile stare a piagnucolare sulle sventure, si rischia solo di perdere tempo. Anche perché, come scrisse nell’incipit di Passo D’addio, «la vita o è stile o è errore». Che gran personaggio che era Giovanni Arpino. Giornalista, scrittore, autore di prosa, ironico, mai banale, distante anni luce dai vezzi di certi letterati italiani. Sosteneva di appartenere alla razza degli anarchici-borghesi, «moderni, europei, con retaggi risorgimentali e un pessimismo della ragione correggibile solo attraverso il dovere». Ma era impossibile imbrigliarlo dentro una definizione, professione in cui gli italiani esercitano da tempo la loro maestria. Era «uno che viveva senza scarpe» disse una volta la moglie Caterina, conosciuta ai tempi del liceo, lasciando intravedere quella sua capacità di essere libero: dalle consorterie letterarie, anche quelle più raffinate, dall’invadenza della politica, «quasi ogni sera all’Einaudi si svolgeva la riunione di cellula. Vi partecipavano tutti tranne il sottoscritto», e più in generale dalla vita. Forse è anche per questo che nell’ultimo decennio si è fatto fatica addirittura a trovarlo tra gli scaffali di una libreria, nonostante sia stato uno tra i migliori scrittori del secondo Novecento. «Non riesco a trovare nemmeno un nome di scrittore contemporaneo da mettere vicino ad Arpino», sentenziò Guido Piovene. A suo modo era un irregolare, come per motivi diversi lo sono stati Luciano Bianciardi o il suo amico Gian Carlo Fusco, che una volta regalò ad Arpino il volume Quando l’Italia tollerava, impreziosito da una geniale dedica: «A Giovanni, che non ci veniva, perché la fidanzava aveva. Da Gian Carlo, che invece ci viveva, perché fuori nessuno gliela dava».

Fortunatamente negli ultimi anni il mondo dell’editoria sembra aver avuto un sussulto di dignità. Ha iniziato la casa editrice Lindau, con la pubblicazione, tra le altre cose, delle opere brevi di Arpino, come Racconti di Vent’anni, e ha proseguito Ponte alla Grazie, pubblicando lo scorso anno La Suora Giovane, il testo che nel ’59 gli diede la notorietà e che Montale salutò con un elzeviro sul Corriere come «un capolavoro del suo genere». Il libro raccontava, sulla sfondo di una Torino brumosa e invernale, una ambigua e scandalosa relazione tra Antonio Mathis, disilluso impiegato quarantenne e perfetto prototipo dell’uomo senza qualità, e la giovane novizia Serena. Ora è la volta di Minimum Fax, che nella nuova veste grafica della collana Minimum Classics ha appena dato alle stampe Sei stato felice, Giovanni, l’opera prima dello scrittore uscita nel ’52 da Einaudi nella prestigiosa collana I Gettoni guidata da Vittorini, che mandò in stampa le bozze praticamente senza ritocchi, nonostante il suo appellativo di “torturatore”, che gli era stato affibbiato per via della sua spiccata attitudine a metter pesantemente mano ai testi. «Il mio gettone d’esordio è picaresco, anarchico, corsaro», dirà in seguito Arpino, che lo scrisse in 20 giorni in una lurida bettola di via Pré, cuore antico genovese, dove «il sole del buon Dio non dà i suoi raggi». Un testo che ha il sapore di fine gioventù ma non ancora di età adulta, dove si respira l’aria salmastra di porto, si incontrano marinai e puttane, ci si sbronza, si parla di ribellione e si pensa a Hemingway. «Perché Genova? Pavese non era andato più in là di Savona, bisognava pure decidersi a conquistare nuove frontiere».

La Liguria però è una fugace parentesi. La maggior parte delle sue storie hanno come epicentro Torino, considerata “città-patria”, dove era arrivato a diciotto anni, per iscriversi alla facoltà di Lettere. Era nato a Pola, quasi per sbaglio, aveva vissuto un’adolescenza tra bauli, vagoni e caserme, inseguendo il padre Tomaso, Capitano di fanteria, e alla maggiore età era approdato sotto la Mole, «con uno di quegli accelerati ormai entrati nella leggenda delle strade ferrate: cavalli 8, uomini 40». Poi l’università di Lettere, la laurea sul poeta russo Esenin e l’arrivo in via Biancamano, dove rifiutò l’offerta di Vittorini di fare da lettore. «Preferivo scrivere che giudicare i manoscritti altrui». Qualche anno dopo arriverà anche il Premio Strega, con L’Ombra delle colline, il suo libro più autobiografico. «La letteratura di Giovanni Arpino discende dalla cronaca, è la cronaca a fornire i temi, evita le fughe nei secoli passati, affronta la condizione umana del suo tempo e ne dà una testimonianza poetica sulla pagina – ha scritto il critico Bruno Quaranta, autore del bellissimo Stile Arpino. Una vita torinese – era uno scrittore borghese che raccontava una città borghese ma che era sensibilissimo alle condizioni sociali altre». Forse non abbastanza per Palmiro Togliatti, che nel ’62 ordinò ai suoi sottoposti di stroncare il romanzo Una Nuvola d’ira, tragico racconto di un triangolo amoroso, perché a suo dire non rifletteva la condizione operaia del tempo.

Alla popolarità di Giovanni Arpino contribuì anche la sua attività di giornalista sportivo. Arrivò a La Stampa nel ’69, chiamato da Ronchey, dopo un primo tentativo non andato in porto alla fine dei Cinquanta con l’allora direttore Giulio De Benedetti. «Ma avevo alle spalle un romanzo, e quindi fama di intellettuale. Vocabolo che una mente dialettale traduce con poeta, artista. E artista, in torinese, significa, borsaiolo, baro, lestofante. Forse De Benedetti vedeva in me un dissapore di aggettivi». Scrive Gianni Mura nella prefazione di Sei stato felice, Giovanni che Arpino, caso rarissimo, aveva compiuto il percorso inverso: «prima famoso narratore, poi cronista sportivo. Per questo era interessante non dico studiarlo ma vedere come si sarebbe comportato». Benissimo, almeno a giudicare da Azzurro Tenebra, forse uno dei migliori romanzi sportivi che siano stati mai scritti nel nostro Paese, racconto tragicomico della disfatta della nazionale italiana ai Mondiali del ’74. Varrebbe la pena leggerlo anche solo per le lunghe conversazioni a bordo campo tra Arpino e il Vecio, al secolo Enzo Bearzot.

E se tutto questo non bastasse, bisognerebbe dire grazie a Arpino per il fatto di averci fatto conoscere un altro grande malinconico, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, che nei primi anni Settanta viveva da esule in Europa, fuggito da un Paese dove, negli anni del regime di Videla, si proibivano alla radio le canzoni del grande Carlos Gardel, nonostante non fosse mai stato un attivista, mentre i militari argentini usavano la sua musica per nascondere le urla dei prigionieri che venivano torturati. I due diventarono amici, andarono anche allo stadio insieme, e Soriano nel tempo scrisse ad Arpino una serie di lettere, raccolte nel bel saggio Bracconieri di storie, a cura di Massimo Novelli. «Querido Giovanni, nel leggerti – si legge in una di queste lettere – sento che i miei personaggi sono di una banalità che sfiora la stupidità. Lo stesso mi capita di fronte a Fitzgerald a Nathanael West o a Caldwell». Lunga vita agli irregolari.

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