Rebecca libri

Il libro dell’amore (Sandro Carotta, Terra Santa, 2020)

di Sandro Carotta
Fonte: Rebeccalibri

INTRODUZIONE

«Commentare il Cantico – scriveva Paul Beauchamp – è rispondere alla sfida principale di tutte le Scritture bibliche. Felice l’esegeta che qui riuscirà a far brillare qualche luce». Dopo queste autorevoli parole è evidente che provo un certo timore mentre sto per accingermi a rileggere il Cantico dei Cantici. A ragione qualcuno ha scritto che è un testo che va più goduto che commentato. L’intento di queste pagine è però modesto: noi vorremmo solamente aprire una riflessione sull’amore, che certamente non potrà essere esaustiva in queste pagine e che dovrà compiersi forzatamente nel cuore e nella vita di chi avrà la pazienza di accompagnarci.
Il Cantico ci ricorda essenzialmente tre cose. Anzitutto che l’amore non è una eccedenza ma una dimensione costitutiva per l’uomo. Senza l’amore la vita umana appare come una realtà oscura e priva di significato. Ma il Cantico ci ricorda altresì che l’amore si articola e cresce all’interno della relazione, la quale conosce le sue fatiche e i suoi aridi deserti come pure le sue stagioni primaverili e i suoi raccolti abbondanti. Non da ultimo, il Cantico ci immette in un clima di grande gratuità, di libertà e desiderio. A gente troppo calcolatrice, che misura persino i tempi della preghiera e degli affetti, il Cantico è un invito a saper essere liberi e creativi, a saper desiderare e cercare, ad abbandonarsi all’Amore che continuamente chiama e invita. Ma c’è un quarto aspetto, a noi caro, ed è che il Cantico dei Cantici è un segno eloquente che Dio esiste. Pascal diceva: «Se esiste l’amore, esiste Dio». Questo ci porta a concludere che solo dove c’è l’amore l’Immensità appare, che solo nell’amore ritroviamo l’uomo nella sua compiuta bellezza.
Sandro Carotta osb

 

OUVERTURE

In questo canto nuziale che è il Cantico dei Cantici
è l’amore che si esprime ovunque.
E se si vuole giungere alla comprensione
di quanto può esservi letto, bisogna amare.
Altrimenti si ascolta o si legge invano
questo poema amoroso:
senza amore non si giunge a niente;
un cuore freddo non può cogliere nulla
di questa parola di fuoco.
Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), Cantica.

Il Cantico dei Cantici (Šîr Haššîrîm) è un piccolo libretto, composto di solo otto capitoli (nelle nostre Bibbie), 117 versetti e 1.250 parole. È stato scritto, con molta probabilità, dopo l’esilio di Babilonia (VI sec. a. C.). La Bibbia CEI, prima della nuova traduzione (2009), l’ha diviso in cinque poemi, che non si presentano conclusi in se stessi, ma che si richiamano tra loro continuamente. Torneremo sul numero cinque, anche per il suo valore simbolico.

L’autore

La tradizione ha attribuito il Cantico a Salomone, come pare
confermare il suo incipit: «Cantico dei Cantici, di Salomone» (Ct 1,1). Come è risaputo, è una pia fraus. A questo famoso sovrano, definito da Laurent Cohen «principe di sapienza e di pace», sono attribuiti pure il libro dei Proverbi e il Qohelet, e non a caso. Difatti questi tre libri, secondo la tradizione ebraica, rappresentano le tre grandi stagioni della vita. Il Cantico dei Cantici celebra l’amore come inizio e promessa. Nella giovinezza, l’éros è la grande forza che tutto orienta, attrae e seduce. Quando si diviene adulti non si rinnegano certo gli amori giovanili, ma il loro incanto appare più sfumato, meno ingenuo e sprovveduto. È la fase pacata e riflessiva della maturità, quella del libro dei Proverbi. Nella vecchiaia, infine, si parla della vanità della vita. È il tempo del Qohelet. Ma il Cantico, a differenza del Qohelet, giunge al superamento della vanità estrema, la morte: «Forte come la morte è l’amore, / tenace come il regno dei morti è la passione, / le sue vampe sono vampe di fuoco, / una fiamma divina» (Ct 8,6).

Le molte chiavi del Cantico

Le interpretazioni date al Cantico sono tantissime e diversissime. Usando una metafora potremmo dire che il Cantico è una casa che può aprirsi attraverso molte chiavi. Abbiamo anzitutto la chiave dell’éros. Questa chiave, pur importante, rischia talvolta di forzare il testo, facendo vedere allusioni erotiche dove non ci sono. In una sua rilettura del Cantico, Guido Ceronetti osservava: «La lettura in chiave erotica del Ct è la più sicura, ma non ha senso se il letto degli amori non è rischiarato da una piccola lampada che illumini, attraverso quei trasparenti amori, il Nascosto». Il Cantico celebra l’amore umano ma allo stesso istante rimanda alla sua Sorgente. Solo allora l’amore giunge a manifestare, nella sua trasparenza, il Nascosto (Dio). Abbiamo poi la chiave funebre nell’immagine della cella vinaria (cf. Ct 2,4) che, nella cultura del tempo, era la sala del banchetto funerario. Avremmo così nel Cantico la tensione tra éros e thànatos. Questa tensione, dinamica e feconda, ci orienta alla terza chiave, quella pasquale. Amare significa passare incessantemente dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14). C’è infine una quarta chiave, quella allegorica (la più utilizzata, sia dalla tradizione ebraica sia da quella cristiana). Il Cantico rappresenterebbe la storia d’amore tra Dio e Israele, tra Cristo e la Chiesa.

Il Pentateuco dell’amore

Abbiamo detto che il Cantico presenta al suo interno cinque poemi. Il numero cinque richiama il Pentateuco, il quale rimanda all’impegno dell’Alleanza, ma richiama pure il Salterio, anch’esso diviso in cinque libri (in questo caso possiamo parlare di Pentateuco orante). Con il Cantico, allora, abbiamo quello che potremmo chiamare il Pentateuco dell’amore. Prima però di inoltrarci nelle sue pagine, cerchiamo di chiarire sinteticamente cosa intendiamo per “amore” e per “amare”.

I volti dell’amore

La lingua greca conosce ben quattro termini per definire l’amore. C’è storghé, che esprime l’amore verso i consanguinei; poi c’è eros, il quale evidenzia la passionalità dell’amore; con filia l’amore ha i tratti dell’amicizia; infine, con agape abbiamo l’amore libero, gratuito e totale.

Nella lingua ebraica il termine “amore” si traduce con ahavàh e “amare” con ’aheb; l’amore è per Dio, per i fratelli, per le creature e per la Legge. Troviamo poi una serie di vocaboli che declinano l’amore nelle sue mille sfumature: hesed, che descrive la passione e la compassione; ’emet, che indica la fedeltà e la verità; raham, che evoca il seno materno, e quindi la tenerezza.

Una dimensione costitutiva

Quando parliamo di amore non dobbiamo intenderlo come una virtus («forza») ma come una dimensione costitutiva della persona. Amare non è anzitutto un problema etico ma antropologico perché l’uomo è strutturato per amare ed essere amato. L’etica deve solo mantenere sul piano della prassi questa verità. In altre parole: l’essere è fondamento del dover essere. All’amore, quindi, nessuno può rinunciare.

L’amore, inoltre, è vita, gioia di vivere, pienezza, e realizzazione. Non basta allora esistere per dire che si vive, bisogna trovare la gioia dell’esistenza. Questa gioia viene dall’amore. L’A.T. ha una immagine eloquente, al riguardo, là dove afferma che Dio ha promesso a Israele una «terra dove scorre latte e miele». Erich Fromm, nel libro L’arte di amare, riprendendo questa immagine diceva che il latte rappresenta la cura della vita, mentre il miele la sua dolcezza, la felicità di sentirsi vivi. Dio ci vuole quindi sani e felici, vivi e beati.

L’amore, infine, si articola sempre come dono e accoglienza del dono, offerta e ospitalità. Ma cosa intendiamo per “dono”? Cosa significa donare? L’abbiamo già detto, ma lo ribadiamo: donare significa dare se stessi. Questo perché l’amore non è una modalità dell’avere ma dell’essere. La modalità dell’avere può coprire la persona di molte cose senza però amarla; la modalità dell’essere, invece, può donare anche senza dare niente (sul piano delle cose). Pensiamo, ad esempio, a un sorriso. Sul piano dell’avere è ben poca cosa, sul piano dell’essere può esprimere moltissimo. L’amore, non da ultimo, si esprime anche come accoglienza. Dire “grazie” non è un forse un altro modo per dire “ti amo”?

L’amore tra uomo e donna

Per il Cantico, e lo vedremo nella lettura esegetica, l’amore vero è monogamico. «Siano pure sessanta le mogli del re, / ottante le concubine, / innumerevoli le ragazze! / Ma unica è la mia colomba, il mio tutto» (Ct 6,8-9). L’amata vale ben più dell’harem salomonico. Con il Cantico c’è un ritorno sulla via monogamica stabilita da Dio al principio della Creazione (cf. Gen 2,24), via che era stata deviata da Lamec (cf. Gen 4,19) e che ha avuto il suo apogeo negativo con Salomone (cf. 1Re 11,1).

L’amore, inoltre, trasfigura la natura, la vita. La natura primaverile del Cantico è il grande fondale della narrazione. Per cantare l’amore ci si serve perciò della geografia, della botanica e della mineralogia.

L’amore, ancora, esalta la persona. Uomo e donna sono l’uno di fronte all’altra in pari dignità e bellezza. Se la donna orientale era umiliata, il Cantico la valorizza: è una regina. All’interno di questa relazione il matrimonio ha valore in se stesso, secondariamente in vista dei figli.

Non da ultimo, l’amore che ci presenta il Cantico è immortale. Esige però fedeltà e rifiuto di ogni seduzione. «Tieni pure, Salomone, i mille pezzi d’argento» – leggiamo nell’epilogo finale (Ct 8,12).

Le intuizioni di Dietrich Bonhoeffer

Il Cantico è un poema che canta l’amore terreno. Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) l’ha intuito con grande chiaroveggenza: «Del Cantico dei Cantici – leggiamo nelle Lettere dal carcere – ti scriverò in Italia. In effetti lo vorrei leggere come un cantico di amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”»8. E in una lettera del 20 maggio 1944 osserva:

È però il pericolo di ogni forte amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo dire questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in un certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto; uno di questi temi contrappuntistici, che hanno piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno; anche nella Bibbia c’è il Cantico dei Cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sessuale, ardente di quello di cui esso parla (cf. Ct 7,6); è davvero bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore.

Dio chiede il primato dell’amore, certamente. Usando l’immagine
di Bonhoeffer, Egli è il cantus firmus, l’amore per eccellenza,
nel quale è possibile e doveroso vivere altri amori e nel
quale tutti gli amori trovano pienezza e compimento.

I protagonisti

Protagonisti principali sono la sposa e lo sposo, lei e lui, l’amata e l’amato. Ma è interessante che a iniziare il Cantico sia la donna e sia ancora la donna a terminarlo (cf. Ct 1,2; 8,14). Cosa significa? Colei che è uscita per ultima dalle mani del Creatore intona l’inno di giubilo a nome di tutta la Creazione. A lei, stando alla tradizione ebraica, Dio avrebbe rivelato il segreto della Creazione stessa: l’amore. Per questo lo intona invitando a unirsi alla sua voce non solo l’uomo ma quanti la circondano, e persino la natura. L’amore perciò è una realtà che concerne l’individuo, la coppia, ma anche il corpo sociale (avremo le figlie di Gerusalemme) e la natura (nei suoi colori, profumi e aromi). Dal soggetto passiamo così alla società e alla Creazione. Un tripudio universale, cosmico.

Accanto alla donna, all’amata, troviamo l’amato, come dicevamo, il «mio amato» (dôdî lî). Il termine torna ben 33 volte e quasi sempre sulle labbra della donna. Questo vezzeggiativo esprime l’intimità e la confidenza tipiche degli innamorati. La Volgata l’ha tradotto con dilectus. Vi è poi un altro appellativo: «Amore dell’anima mia» (Ct 1,7). È noto che il termine nefeš, tradotto sovente con «anima», può essere inteso anche come «respiro», quindi con ciò che permette alla persona di vivere. Applicato al linguaggio dell’amore, l’amato è il respiro dell’amata (e viceversa). Nefeš è strettamente congiunto anche ad atteggiamenti vitali, quali il desiderio, la domanda e la richiesta. L’amato, per l’amata, è il suo desiderio più ardente, ciò che unifica l’intero suo essere.

Un giardino di simboli

Canto d’amore, il nostro poema è colmo di simboli, metafore, rimandi, allusioni. Da questo giardino lussureggiante e variegato vediamo emergere anzitutto il simbolo del corpo. In primis il corpo umano. Scrive Gianfranco Ravasi: «Non c’è, infatti, libro biblico che segua così intensamente il simbolismo somatico in tutti i suoi meandri, i suoi segreti e in tutta la sua apparenza come il Ct»12. Ecco allora la descrizione del volto nei suoi elementi: gli occhi (Ct 1,15), le labbra (Ct 4,3), la bocca (Ct 1,2), i denti (Ct 4,2). C’è poi la descrizione del corpo in tutta la sua bellezza (Ct 2,9), un corpo che abbraccia (Ct 2,6), danza (Ct 7,1) e stringe (Ct 2,6).

Attorno alla coppia abbiamo poi il corpo sociale, la città, con le piazze, le mura, le case (Ct 3,4), le porte (Ct 5,2), le torri (Ct 4,4). Sono pure evocati gli interni: abbiamo allora le travi, i soffitti, le pareti (Ct 1,16-17), i divani (Ct 1,2), i letti (Ct 3,1). Sulla strada si incontrano le donne (Ct 1,8), le ragazze (Ct 1,3), i giovani (Ct 1,6), gli amici (Ct 1,7) e persino i re e le regine (Ct 1,4.12).

Vi è, non da ultimo, il corpo della creazione, che ha la sua cifra riassuntiva nel giardino (Ct 4,12). Ma troviamo anche la vigna, le viti (Ct 1,2.4), e una variegata fioritura di gigli (Ct 2,1), narcisi (Ct 2,1), accanto a meli (Ct 7,9), melograni (Ct 4,3) e mandragore (Ct 7,14). Vi sono inoltre monti e colline (Ct 8,14), rupi (Ct 2,14) e valli (Ct 6,11). All’interno di questo paesaggio ci sono colombe (Ct 1,15), greggi di pecore e capre (Ct 4,2), leoni e leopardi (Ct 4,8), corvi e volpi (Ct 5,11; 2,15).

Il decimo canto ovvero le sillabe in fiore

Per i Padri di Israele dieci sono i canti intonati a Dio nella storia dell’umanità:

• il primo fu quello di Adamo, quando gli fu perdonato il peccato e venne lo Shabbàt a proteggerlo. In quell’occasione egli disse: «Salmo. Canto. Per il giorno di Sabato. “È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo”» (Sal 92,1-2).

• Il secondo fu elevato da Mosè e dal popolo mentre Dio apriva per loro il mare Rosso: «Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore» (Es 15,1).

• Il terzo fu il canto che il popolo di Israele rivolse a Dio quando gli fu dato il pozzo di acqua nel deserto, come è scritto: «Allora Israele cantò questo canto: “Sgorga, o pozzo, cantatelo!”» (Nm 21,17).

• Il quarto fu quello pronunciato da Mosè alla vigilia della sua morte: «Udite, o cieli: io voglio parlare» (Dt 32,1).

• Il quinto fu intonato da Giosuè nella guerra di conquista: «Giosuè parlò al Signore» (Gs 10,12).

• Il sesto fu la lode che Debora e Barak elevarono a Dio dopo la sconfitta di Sisara: «In quel giorno Debora, con Barak, figlio di Abinoam, elevò questo canto» (Gdc 5,1).

• Il settimo fu quello di Anna, la sterile divenuta madre: «Allora Anna pregò così» (1Sam 2,1).

• L’ottavo fu una lode riconoscente del re Davide per tutti i prodigi operati da Dio in suo favore: «Al maestro di coro. Di Davide, servo del Signore, che rivolse al Signore le parole di questo canto» (Sal 18,1).

• Il nono canto, il più eccelso fra tutti, fu composto da Salomone ed è il Cantico dei Cantici.

• Il decimo canto sarà elevato dai figli di Israele quando saranno finalmente redenti, come è detto: «Voi innalzerete il vostro canto come nella notte in cui si celebra una festa» (Is 30,29).
***
Per noi cristiani il canto di vittoria si è già innalzato nell’evento della Risurrezione di Cristo. Al mattino di Pasqua, nota l’evangelista Giovanni, Maria di Magdala si recò al sepolcro dove era stato deposto il corpo del Maestro (cf. Gv 20,1ss). Quel sepolcro era in un giardino. Là ella incontra Gesù ma lo scambia per un giardiniere. E difatti, Gesù risorto è il giardiniere/Sposo sceso nel suo giardino per incontrare la sorella/Sposa e inebriarla del suo amore (cf. Ct 5,1). Ora è davanti a Maria, la nuova umanità, e bussa (cf. Ct 5,2) affinché ella apra lo sguardo alla fede e lo riconosca. Nel giardino risuonano grida di gioia e di allegria, la voce dello Sposo e della Sposa, la «voce di coloro che cantano: “Rendete grazie al Signore degli eserciti, perché il suo amore è per sempre» (Ger 33,11).

Quando Adamo peccò,
Dio salì al primo cielo
allontanandosi dalla terra e dagli uomini.
Quando peccò Caino,
salì al secondo cielo.
Con la generazione di Enoc
salì al terzo,
con quella del diluvio al quarto,
con la generazione di Babele al quinto,
con la schiavitù d’Egitto
salì al sesto cielo e al settimo cielo,
l’ultimo e il più lontano dalla terra.
Dio però ritornò sulla terra
il giorno in cui fu donato il Cantico dei Cantici a Israele.

Fonte: Rebeccalibri
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