Jurgen Habermas:quale compito per il filosofo?
Che fine hanno fattole teorie marxiste? Qual è il compito del filosofo? È possibile fondare una
morale della comunità? Gli uomini sono destinati a scontrarsi o c’è una possibilità per la
pace?
Queste le domande a cui cerca di dare una risposta uno dei filosofi più interessanti di oggi.
Jurgen Habermas è uno dei più importanti e noti pensatori tedeschi della Germania postbellica, e si
pone come continuatore ed innovatore di Marx (di cui è pure connazionale!) e del Marxismo
occidentale (ignorando quello leninista e sovietico).
Il suo lungo e complesso itinerario filosofico e politico, sostenuto da una ricchissima produzione
letteraria e filosofica inizia anzitutto con una revisione del Marxismo nella sua prima opera
significativa: Teoria e prassi nella società tecnologica, in cui Habermas prende anzitutto coscienza
di come sia mutata la società tecnologicamente avanzata rispetto ai tempi dell’Ottocento di Marx,
portando molto avanti il connubio di scienza e tecnica con una razionalizzazione radicale dei
processi produttivi e una compenetrazione fra Stato e società molto profonda e variegata.
In questa società, tecnologicamente così evoluta, ha acquistato sempre più importanza il linguaggio,
che è diventato anche uno strumento di dominio e di potere sociale (basti pensare alla stampa e ai
mass media, a cominciare dall’allora incipiente TV), che esige un profondo affinamento degli
strumenti critici dell’interpretazione e del discernimento. E così.
Habermas ha posto le premesse per la sua opera più significativa e complessa: la Teoria dell’agire
comunicativo del 1981. Habermas riconosce anzitutto i meriti del capitalismo: le conquiste politiche
democratiche e la ricchezza prodotta nella sfera della produzione reale. Ma ci sono pure gli aspetti
negativi: il denaro e il potere producono il consumismo, la burocratizzazione delle condizioni di
vita. Si arriva così a un contrasto di fondo tra l’agire strumentale o stato o sistema, con il suo
formidabile apparato e la sua organizzazione economica; e l’agire comunicativo o l’insieme dei
valori che ognuno di noi vive e che costituiscono il mondo della vita.
Il conflitto principale perciò, ai nostri tempi, nelle società capitalistiche avanzate, non è più un
conflitto di classe, ma un conflitto derivante dal processo in atto di «colonizzazione» da parte del
«sistema» nei confronti del «mondo della vita», anche se Habermas non propone precisi programmi
politici.
Nella sua opera successiva Discorso filosofico della modernità, il filosofo tedesco prende atto del
fatto che l’uomo moderno, essendosi liberato dalla religione, che costituiva precedentemente il
mezzo principale di unione tra gli individui, non è abbastanza cresciuto per rigenerare la potenza
religiosa dell’unificazione umana mediante la ragione, non riuscendo ad andare oltre la filosofia del
soggetto individualistico ed impantanandosi nel soggettivismo più radicale, fino a rifiutare la
ragione nelle varie forme del cosiddetto pensiero postmoderno.
Per questo motivo di fondo Habermas propone il suo messaggio dell’intersoggettività comunicativa,
basata sui «mondi della vita», costituiti dalle tradizioni culturali comunitarie, sulla integrazione dei
gruppi tramite norme e valori condivisi da tutti e la socializzazione delle generazioni che si
susseguono.
È un vivo e convinto richiamo alla dimensione comunitaria dell’uomo, nell’era della
globalizzazione mondiale, di Internet e della comunicazione, che non deve essere solo «virtuale»,
ma diventare reale coscientizzazione di tutti gli uomini, nella Dantesca «aiuola che ci fa tanto
feroci», secondo l’augurio già formulato dal grande poeta Ugo Foscolo: «questa bella d’erbe
famiglia e d’animali».
L’ultimo saggio Ancora una volta: sul rapporto tra teoria e prassi, Habermas espone qual è il ruolo
attuale della filosofia, e distingue le tre funzioni del filosofo come «esperto scientifico», come
«mediatore terapeutico», come «intellettuale pubblico». In qualità di esperto scientifico, il filosofo
viene interpellato in situazioni, in cui si presentano problemi di metodo e di critica della scienza, e
soprattutto questioni concernenti l’impiego di nuove tecnologie. Ma ci si trova di fronte, allora, alla
tensione irriducibile tra le competenze specifiche che si richiedono in queste sedi di filosofia
applicata, e la «libera mentalità filosofica», per sua natura insofferente alle costrizioni dei saperi
specializzati. Come mediatore terapeutico, il filosofo non sperimenta questa tensione, ma si trova di
fronte a una impasse ben più grave. Per fornire chiarimenti e consolazione agli esseri umani infelici
e bisognosi di orientamento, infatti, dovrebbe disporre di una visione del mondo ben strutturata o di
una «copertura metafisica»; ma questo non è possibile, perché la filosofia è libera pratica di
elaborazione problematica, e dunque rifugge da visioni salvifiche quanto da ipotesi cliniche (in altri
termini: resta sempre il sospetto che lo psichiatra e il prete offrano terapie più efficaci). Infine, il
ruolo più adatto per il filosofo è quello dell’intellettuale pubblico, che «prende parte a pubblici
processi di autointesa delle società moderne» e che, avvalendosi dell’autorità che gli proviene dalla
sua pretesa di neutralità ai singoli interessi, offre all’epoca il dono dell’autocoscienza critica. Come
si vede, a dispetto del suo dichiarato kantismo e anti-platonismo, Habermas è qui piuttosto platonico
e hegeliano.
Ma si vede anche bene, allora, che quel che a Habermas non piace nella metafisica e nella teoria
non è la mozione a favore della realtà e dell’oggettività, ma la componente che paralizza il pensiero,
ossia la componente antifilosofica. La filosofia, dice Habermas, è per sua natura pluralistica (o
plurilinguistica), e anarchica; il suo «miglior retaggio» consiste nell’essere «pensiero non fissato».
Difficile dargli torto: ma davvero pluralismo e anarchismo intellettuale implicano antimetafisica e e
primato della pratica?
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