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L’uomo di carta (Franco Ferrarotti, Marietti 1820, 2019)

di Franco Ferrarotti

Seminare a mano è un saluto

Il gesto del seminare è un ampio gesto di saluto alla terra, un atto di fiducia in ciò che non è ancora.

La terra va arata lentamente. L’aratura è una ferita. Bisogna dare tempo alla terra di rimarginare le proprie ferite. Il lungo inverno provvede a questo.

Credo di iniziare solo ora a comprendere, lentamente, la lezione di mio padre, il tacito rimprovero trasmesso dal suo sguardo. Il rimprovero riguardava la cultura meramente libresca: la cultura, come capitale privato, come alibi rispetto all’esperienza. Posso dire che mio padre non disprezzava il sapere. Disprezzava e diffidava del sapere puramente intellettuale, puramente logico: il ragionare degli avvocati e dei contabili. Apprezzava ciò che si conosce attraverso l’esperienza diretta, sensibile: ciò che si sa per averlo “toccato con mano”, palpato, visto, accarezzato, premuto contro il palmo della mano, stretto fra le dita, odorato immergendovi il naso fino a lacrimare.

La sua cultura era dunque la coltura dei campi, conosciuti con le diuturne, lente camminate in lungo e in largo, nel pieno del sole del meriggio agostano o ai primi chiarori delle fredde albe invernali o ancora, sul tardi, quando calano, silenziose, le ombre discrete della sera e la campagna sembra prepararsi, in una sinfonia in sordina di brusii e di sussurri, alla pausa notturna, ma inquietante, popolata di fantasmi e fuochi fatui. La campagna era dunque un mondo, la campagna di una volta, della mia infanzia e della mia adolescenza: non solo un modo per campare, per ottenere i mezzi di sostentamento, i frutti, il raccolto da un autunno all’altro. Era un mondo con le sue regole non scritte, le sue tradizioni raramente tradite, un mondo armonioso e insieme drammatico, prevedibile e sorprendente.

Penso a quante cose conosco senza averle toccate, viste nella loro specificità, soppesate, sperimentate sulla pelle. Non posso dire di conoscerle veramente. Posso solo dire di averne sentito parlare. Conosco solo ciò di cui sono esperto per averlo esperito.

È vero. Come i nonni e i bisnonni, mio padre dormiva con il fucile appoggiato alla testiera del letto.

L’infanzia, isola misteriosa

Domande sorgono nella notte ad accompagnare, testarde, l’insonnia del vegliardo. Perché non torno volentieri in Piemonte? Perché mi pesa rivedere le risaie fumanti sotto il crudele sole agostano? Perché non mi piace, mi rifiuto di guardare i campi del granturco dopo la raccolta, quando gli stonchi smozzati puntano il cielo come moncherini impotenti?

Lo so bene che all’infanzia non si torna volentieri. Ma so anche che all’infanzia non si sfugge. Solo letterati, vittime di metafore ingannevoli, possono illudersi di non essere mai stati bambini.

«Io non sono mai stato bambino», scrive Papini in Un uomo finito.

«Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell’innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell’universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento».

Così afferma il «maledetto toscano» Giovanni Papini. Ma il tono è troppo compiaciuto per non tradire un’intima insicurezza. Gli sono grato per un suo libretto dal titolo inquietante: Il sacco dell’orco. Aveva parlato all’immaginazione di un ragazzino, povero e solitario, quale ero. Sono misteriose, certamente inaspettate le consonanze che emergono fra spiriti in qualche modo, benché lontani e diversi, psicologicamente consanguinei. Per esempio, gli autodidatti, «accademici di nulla accademia», avrebbe detto Giordano Bruno. Per cominciare, un’insoddisfazione profonda per la situazione in cui versano e un desiderio bruciante di trasformarla. Ma come? E in che cosa? E con quali mezzi?

Nella mia infanzia c’è l’ombra del padre. Ora che è morto da più di mezzo secolo, me lo sento vicino. Lo rivaluto. Gli voglio tutto il bene che nell’infanzia mi sono rifiutato di dirgli. Lui odiava i libri. Per me erano il solo rifugio – un rifugio delizioso e pieno di sorprese – su cui potevo contare, al quale potevo tornare a man salva, sempre, come chi possegga la chiave segreta di un giardino meraviglioso.

Si danno padri dolcissimi, portati più alla carezza che alla sberla. Non è stato il mio caso. Mio padre era il padre. Non un amico. Per mio padre io ero un menagramo, nato nell’anno sbagliato e in un momento disgraziato. Quanto alla situazione familiare, politica, economica e sociale, il 1926 era l’anno della «quota novanta», l’anno, per mio padre, delle ambizioni sbagliate e degli investimenti fallimentari. Un disastro. Le terre avíte in vendita. I boschi, da secoli possesso familiare, sul mercato.

Tutti sanno che ci fu un’epoca, protostorica se non preistorica, in cui il coito era considerato poco più di un esercizio atletico. Il coito, dunque, come una pratica, se pur frequente, non necessaria, del tutto irrilevante, quasi un distratto vellicarsi, un prurito. Non si intuiva il nesso fra coito e procreazione. L’uomo contava poco. Era l’età delle madri, della Grande Dea, regina del matriarcato. Il diritto materno, quello studiato e teorizzato come Mutterrecht da Jakob Bachofen, regnava sovrano. Solo più tardi i padri vennero a fare duramente valere il principio di realtà contro il principio del piacere, la disciplina del dovere contro l’estro del capriccio. I padri divennero essenziali per la costruzione, nell’individuo, del Super-ego teorizzato da Freud; ma secoli prima Agostino da Tagaste, poi vescovo di Ippona, aveva già ampiamente parlato, se pure nel linguaggio edificante del credente, di un Ego superior, in perpetua lotta con l’Ego inferior.

La rivolta contro i padri è una costante storica. Non è solo Kronos, o Saturno, che procrea i figli e poi li divora. In tempi recenti, Marshall McLuhan raccomanda di aprire e usare l’emisfero destro del cervello, non abusare del sinistro, che è quello razionale, logico-formale, cartesiano, freddo. L’emisfero destro è quello emotivo, caldo, materno. Non è un caso che la protesta studentesca e giovanile su scala mondiale del ’68 sia stata paradossalmente una rivolta contro l’autoritarismo dei padri, in alcune culture incarnati dai professori e dai curatori d’anime.

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