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María Zambrano e la sua «ragione poetica»

di Carlo Ferrucci

È possibile innamorarsi di una signora spagnola di ottantacinque anni (tanti ne aveva la signora in questione all’epoca del nostro primo incontro)? Provare, imbattendosi in lei, un vero colpo di fulmine?
La risposta è sì. Purché la signora si chiami María Zambrano e il ruffia… pardόn, l’intermediario si chiami Giacomo Leopardi. Perché, quando un quarto di secolo fa mi sono innamorato di María scorgendo in una libreria di Madrid la copertina del suo Filosofía y poesía, avevo appena pubblicato un libro sul pensiero poetante di Leopardi. E mi è venuto spontaneo, di conseguenza, immaginare sul momento che fosse stato quest’ultimo a guidare il mio sguardo su un’opera di argomento praticamente identico, invitandomi a dedicare alla sua autrice lo stesso appassionato interesse con cui mi ero immerso nello studio dello Zibaldone, delle Operette morali e dei Canti.
E così è stato. Per più di vent’anni, prima da studioso e subito dopo anche da traduttore, ho dedicato buona parte del mio tempo a far l’amore, un vero corpo a corpo, con le pagine di María, sempre seducenti e molto spesso non facili. Seducenti anche perché non facili, nella misura in cui già lo studioso ma poi soprattutto il traduttore vive il proprio lavoro – analogo anche in questo alla conquista amorosa – come una sfida che quanto più è impegnativa, coinvolgente, tanto più lo attrae.
È risaputo, d’altra parte, che in amore non sono tutte rose e fiori. Nel caso del mio amore per María Zambrano, le spine, le difficoltà – seducenti, ma pur sempre difficoltà – sono dipese in particolare dalla grande importanza rivestita nelle sue opere dalla «ragione poetica». È questa una forma di conoscenza, diciamo così, bifronte, partecipe cioè nello stesso tempo dell’esigenza di chiarezza propria del discorso filosofico e del linguaggio evocativo, metaforico, spesso opaco fino all’ermetismo, proprio della poesia.
La Zambrano è convinta che la filosofia contemporanea, necessariamente post-razionalista – che, attenzione, non significa irrazionalista – debba attingere in misura pregnante a queste potenzialità lirico-simboliche dei percorsi del pensiero. Pur ammirando e amando le pagine che a tale visione si ispirano, il traduttore scopre però che in italiano molti dei termini a cui essa ricorre non solo hanno, com’è ovvio, un altro suono, e quindi una diversa efficacia espressiva, ma trasmettono anche un significato che non corrisponde pienamente a quello originario.
Si tratta del medesimo inconveniente che si verifica nella poesia in senso stretto e che ha indotto illustri filosofi e linguisti, oltre agli stessi poeti (a cominciare da Dante), ad affermare che tradurre “bene” – «perfettamente» – un testo poetico è impresa (quasi) impossibile.
Per restare a María Zambrano e alla sua «ragione poetica», pensiamo ad esempio a una parola, «entrañas», tra le più ricorrenti e qualificanti della sua scrittura. Letteralmente, questa parola vuol dire «viscere», e in italiano non si può tradurre che così. Solo che il termine spagnolo ha un significato più ampio e, come dire?, più immateriale e più “nobile” dell’italiano «viscere»; è «una metafora» – scrive la Zambrano – «che capta il sentire irriducibile, primario, dell’uomo nella sua vita, la sua condizione di vivente». Per «captare» a loro volta questo più ampio significato della parola-metafora «entrañas», il traduttore – e il lettore italiano con lui – devono riuscire a cogliere e a valorizzare le sue risonanze nel contesto – la frase, la pagina, il capitolo, al limite l’intera opera – che ad essa fa da cornice.
È lecito sostenere che la visione di María Zambrano, apparentemente disomogenea, si presenta invece come una forma sostanzialmente organica di esistenzialismo estetico. I diversi momenti e aspetti della sua visione, infatti, ruotano tutti intorno a due affermazioni, fondanti e ricorrenti fino al postumo Los sueños y el tiempo, che proprio a un esistenzialismo caratterizzato in senso estetico, incentrato cioè sulla riflessione intorno all’esperienza dell’arte, ci inducono a pensare.
La prima di queste affermazioni è che la condizione umana è contraddistinta dal «sentire originario», ossia dalla sempre rinascente percezione della nostra creaturale fragilità e incompiutezza. La seconda, strettamente connessa con la precedente, è che il compito primario del pensiero non consiste, come troppo spesso si è ritenuto, nell’erigere sopra e contro questa nostra insuperabile creaturalità un muro di impassibili astrazioni, ma nel rivelarne le manifestazioni e i linguaggi con un massimo di aderenza alle sue pieghe e alle sue movenze più nascoste.
Da queste due convinzioni fondamentali discende, da un lato, l’ininterrotto dialogo che la Zambrano intrattiene con l’arte, da sempre in prima linea a suo giudizio nel dar voce e figura a quel determinante identificarsi dell’essere col sentire; dall’altro, l’intrecciarsi di tale dialogo con penetranti riflessioni sugli inizi e il compito della filosofia, sulla storia, sulla religione, sul sacro. Ma di qui anche, e inseparabilmente, il ricorso della nostra pensatrice, un ricorso sempre più marcato via via che il ripercorrimento critico della storia del pensiero europeo gliene confermava la necessità, a una simbologia del mondo e dell’uomo, delle sue viscere e del suo sangue, affidata a un linguaggio lirico-evocativo concitato e febbrile, insieme coinvolgente e spiazzante, speculativamente impuro, come sempre coinvolgente e speculativamente spiazzata e spiazzante le risulta essere quella nostra creaturalità di fondo.

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