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“Oltre il clericalismo” (Francesco Peloso, Città Nuova, 2020)

di "Oltre il clericalismo" (Francesco Peloso, Città Nuova, 2020)
Fonte: Città Nuova

Introduzione
La Chiesa e i segni dei tempi (e della cronaca)

Una fotografia è destinata a restare nell’immaginario collettivo: papa Francesco che si rivolge al mondo in una piazza San Pietro deserta e bagnata dalla pioggia, mentre in lontananza risuonano inquietanti le sirene delle ambulanze. Il 27 marzo del 2020, quando ancora in Italia e nel mondo infuriava la pandemia da Covid-19, Bergoglio ha trovato il modo di parlare a un’umanità impaurita e chiusa in casa, ne ha rappresentato i sentimenti, raccolto le angosce, il bisogno di una protezione che, improvvisamente, i grandi totem dell’epoca – tecnologia, scienza, medicina, Stato – non sembravano più in grado di assicurare. Francesco tuttavia non ha mai ceduto, anche nei momenti più drammatici della pandemia, alla tentazione di contrapporre fede e tecnoscienza, spiritualità e appartenenza a una comunità di cittadini regolata dalle leggi.
Anzi, i numerosi interventi pronunciati in quei mesi dal papa a sostegno di medici, infermieri, forze di sicurezza, governanti, popolazioni colpite dalla crisi, oltre a un normale contributo di solidarietà verso chi si trovava in prima linea o doveva prendere decisioni non semplici, rappresentavano l’espressione di una fiducia nelle possibilità offerte dalle conoscenze, nei cittadini capaci di affrontare e superare un frangente tanto difficile quanto inedito.
Sono le persone comuni, diceva quel 27 marzo il papa, che «stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo». Il più importante leader religioso del pianeta non cercava effimere rivincite contro la modernità facendo leva su un clima oggettivamente da incubo che avvolgeva Paesi, città, regioni. Al contrario, raccoglieva lo spirito del proprio tempo, lo sollevava dalla semplice cronaca e lo faceva diventare storia, fede, visione del mondo.
D’altro canto, anche quella preghiera, quella benedizione urbi et orbi nella piazza deserta (mentre era piena e partecipe la piazza virtuale composta da chi, sul proprio televisore, su un computer o un tablet, seguiva la scena) si componeva di una miscela inscindibile di rivoluzione tecnologica e riti e luoghi antichi, carichi di simboli e di tradizione. A fare la differenza, ancora una volta, è stato il messaggio di Francesco, che si è trovato a dover fronteggiare un passaggio complesso e nuovo del tempo che abbiamo attraversato.
La crisi suscitata dal coronavirus sembrava riassumere in sé i nodi irrisolti di una stagione già al centro del magistero di papa Francesco a partire dall’enciclica Laudato si’ in avanti. Dalla crisi infatti, emergeva l’urgenza di costruire una maggiore e più ampia collaborazione solidale fra le nazioni, di non abbandonare i più deboli al loro destino, di occuparsi del bene comune – di cui la salute è parte integrante – prima che del profitto, di condividere conoscenze e risorse, di dare vita a un nuovo e più equilibrato rapporto fra consumi ed ecosistemi valorizzando la biodiversità e la sostenibilità ecologica dello sviluppo industriale, di allargare i criteri di giustizia sociale e la tutela dei diritti fondamentali nel governo dei processi di globalizzazione economica perché, appunto, «nessuno si salva da solo».
Oltre a questi principi e indicazioni, va sottolineato però anche un altro aspetto. La Chiesa, che attraverso il suo papa e tanti vescovi e organizzazioni nel mondo non ha perso la voce durante la pandemia, ha di fatto riaffermato, in tal modo, anche la propria autonomia istituzionale rispetto alle autorità politiche, è riuscita a mantenere una porta aperta alla collaborazione con i governi ma anche alla possibile critica verso le scelte compiute dai diversi leader politici in momenti in cui sono state prese decisioni drastiche, in un senso o nell’altro, per la vita di milioni di cittadini in molti Paesi diversi. Un ritorno all’antico? Al contrario, un’interpretazione forte del proprio ruolo nella contemporaneità rappresentata in modo specifico e autorevole dal papa.
In parte si è trattato certamente di un recupero di centralità e funzione – inatteso e insperato – della Chiesa-istituzione, con i suoi vescovi, i suoi preti, i suoi missionari; in parte la sfida dovrà però essere raccolta, per non rischiare di rivelarsi effimera, da tutto il popolo di Dio. Di certo, se i laici impegnati nelle parrocchie, nelle associazioni, nella vita civile, vorranno cominciare davvero a sentirsi alla pari con il clero, dovranno presumibilmente proporre la loro leadership dentro la Chiesa e le sue strutture non più nella veste di eterni comprimari o, nel caso delle donne, come custodi silenziose e accondiscendenti di un non meglio identificato genio femminile, ma assumendo in pieno la propria responsabilità anche in campo teologico e spirituale. D’altro canto, nessuna riforma della Chiesa sarà possibile in termini puramente teorici o metodologici. Non basterà insomma modificare all’infinito le regole di partecipazione e di voto all’assemblea sinodale, magari ampliando gli spazi per laiche e laici, se un simile percorso non sarà accompagnato da una visione differente rispetto al passato del rapporto del cristianesimo con la storia.
In questa prospettiva, va ricordato che, alla crisi generata dal Covid-19, se n’è aggiunta e quasi sovrapposta, fra il maggio e il giugno del 2020, un’altra, gravissima, questa volta negli Stati Uniti, esplosa in seguito alla violenta uccisione di un cittadino afroamericano, George Floyd, da parte della polizia di Minneapolis, nello Stato del Minnesota. La ribellione della popolazione nera in America ha sollevato nel Paese e in buona parte dell’Occidente il tema, decisivo per l’avvenire delle democrazie, del razzismo quale virus strisciante e insidioso presente in molte società. La Chiesa cattolica, come il resto della galassia cristiana americana, si è divisa sulla lettura degli eventi, a riprova che il cristianesimo dovrà necessariamente trovare una propria direzione di marcia a partire dal confronto aperto con la realtà, da cui discenderà anche una visione spirituale, una concezione di Chiesa, un’idea di società. In tale prospettiva, papa Francesco aveva, ancora una volta, visto giusto e con largo anticipo, individuando in Donald Trump – nella sua candidatura da potente outsider alla Casa Bianca – e nel suo accattivante slogan, America first («prima l’America»), un elemento di rottura e di conflitto violento nella precaria composizione sociale degli Stati Uniti e nelle relazioni internazionali di Washington col resto del mondo, e non certo un fattore di unione e fraternità.
In sintonia con Francesco, diversi dei più autorevoli esponenti dell’episcopato Usa si sono espressi a favore delle proteste del Black lives matter, “le vite dei neri contano”, denunciando il razzismo non solo come fenomeno sociale deprecabile e ingiusto, ma quale tratto fondante della stessa storia americana che aveva limitato o negato a una parte considerevole degli americani, quelli di colore, la possibilità di poter godere pienamente della libertà, delle opportunità, dei diritti pure inscritti nel dna costitutivo del Paese.
La figura di Martin Luther King, già evocata da papa Francesco come riferimento etico e storico durante il viaggio compiuto negli Stati Uniti del 2015, veniva chiamata in causa da alcuni rappresentanti della Chiesa cattolica nei giorni in cui il conflitto divampava per le strade delle città americane, quale “interprete” autorevole delle proteste; il leader del movimento dei diritti civili spiegava infatti che la rivolta è, in definitiva, il linguaggio di coloro che non vengono ascoltati. La strada maestra restava quella della non violenza, ma in ogni caso la ribellione andava compresa e “ascoltata”, appunto, nelle sue ragioni di fondo. Il rifiuto della violenza come dell’ingiustizia e di ogni forma di razzismo venivano riaffermati in quei giorni da Bergoglio. E, ancora una volta, il papa finiva per rivolgersi, con la sua presa di posizione, a un mondo in cui si mescolavano credenti e non credenti, cattolici e protestanti e seguaci di altre fedi; Francesco assecondava così una trasversalità che esprimeva la ricchezza del messaggio evangelico come la capacità del cattolicesimo di superare i propri confini, di uscire dalle consuetudini di un clericalismo magari “per bene”, educato, ma poco incline a collocarsi dalla parte dei più deboli. Non tutta la Chiesa statunitense sceglieva però di sollevare la questione in termini tanto netti, molti vescovi preferivano un profilo più basso, altri tacevano in evidente dissenso con le proteste. La Chiesa cattolica, emergeva dal drammatico scenario americano, si componeva ormai di due comunità sempre più lontane per scala di valori e visione del mondo ma entrambe comprese fra le braccia del colonnato di piazza San Pietro.
È in questo mondo complesso e drammatico, in cui si alternano e intrecciano sfide epocali, che si è dunque sviluppata la proposta di papa Francesco da quando è stato eletto papa il 13 marzo del 2013. Molte delle promesse e delle premesse del pontificato rimangono indubbiamente incompiute, ma forse la scelta di Bergoglio è stata quella di rimettere la nave in cammino con tutte le sue evidenti contraddizioni, spetterà alle donne e agli uomini che si riconoscono nella Chiesa di Roma, nella sua presenza nel mondo, costruire nuove strade.

Fonte: Città Nuova
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