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Una bottiglia nell’oceano (Cinzia Capitanio, Paoline, 2020)

di Una bottiglia nell’oceano. (Cinzia Capitanio, Paoline, 2020)
Fonte: Paoline

Capitolo 1

Guerra di fango

– Non mollano… Mi stanno seguendo… Devo riuscire a superare il crinale prima che mi siano addosso. Non posso fermarmi adesso… Ce la devo fare! Ancora un piccolo sforzo e sarò al sicuro.
I pensieri correvano veloci accompagnando ogni suo passo.
Il pendio si faceva sempre più ripido, ma le sue gambe giovani e allenate non sentivano la fatica. Ogni tanto si fermava per annusare l’aria e ascoltare. Nel bosco non bastavano gli occhi, bisognava usare anche il naso e le orecchie: era una cosa che aveva imparato da suo padre.
L’aria fresca di primavera profumava di umidità e di funghi. Poco distante doveva esserci una tana di lepri perché ne avvertì l’odore selvatico.
Qua e là un uccello lanciava richiami ai quali un altro rispondeva in un misterioso dialogo. Più in basso, invece, si udiva lo schioccare dei rami secchi e il tonfo ritmato di passi pesanti.
Sorrise tra sé. Aumentò il passo scegliendo con attenzione, per non fare rumore, i tratti di bosco dove
il muschio aveva formato un morbido e silenzioso tappeto.
Una lepre gli attraversò la strada facendolo sussultare. L’animale si fermò per un attimo e lo guardò con i suoi occhi liquidi. Teneva le orecchie ritte, in attesa di un qualche movimento. Poi si voltò e riprese a correre tra
la boscaglia.
Si rammaricò di non aver avuto con sé il vecchio fucile da caccia. Da quando suo padre era partito, era l’unico della famiglia che sapeva usarlo con precisione. Non avrebbe mancato il bersaglio e avrebbe potuto portare a casa una cena da signori. Sbuffò e riprese a camminare in fretta. Voleva raggiungere la radura prima che gli fossero addosso.
Fece appena in tempo a nascondersi dietro il rifugio che aveva preparato, quando udì le loro voci. Cercavano di parlare sottovoce ma, nel silenzio del bosco, era come se stessero gridando.
– Siete sicuri che sia venuto da questa parte? – chiese uno di loro. – Magari se n’è tornato a casa e adesso se ne sta bello comodo davanti al focolare…
– Smettila di lagnarti e chiudi il becco! – lo apostrofò una voce che riconobbe subito.
Attese che i loro passi si facessero più vicini. Emise dei profondi respiri per calmare il battito del cuore. Non poteva sbagliare. Era rimasto da solo contro tutti.
Sfilò la borraccia di legno che teneva sempre nella sacca e bevve qualche sorso d’acqua. Poi infilò le mani nel terreno fangoso a causa del disgelo. La neve si era sciolta solo da poco per lasciare il posto ai bucaneve e alle primule gialle.
Con destrezza preparò una decina di bombe. L’ultima palla di fango se la spalmò sulla faccia per mimetizzarsi meglio con la barriera di rami che si era creato con ingegno. L’aveva studiata bene perché fosse invisibile agli occhi degli altri: da lontano sembrava solo un ammasso di sterpaglia.
– Fermiamoci un attimo… – sbuffò una voce lamentosa.
– La prossima volta resta a casa! Sei una lagna!
La voce irata di Carlo era inconfondibile. Doveva essere molto arrabbiato: lo stava seguendo senza successo da più di un’ora. Se lo avesse afferrato adesso, lui se la sarebbe vista brutta.
Senza farsi prendere dall’ansia calcolò, in base alla provenienza delle voci, la distanza che avevano rispetto al suo nascondiglio. Erano rimasti solo in tre e il sole stava tramontando. Probabilmente gli altri avevano cambiato strada o erano tornati indietro.
– Posso farcela – si disse facendosi coraggio.
Afferrò due bombe di fango e si preparò all’attacco. Tese il corpo in modo da essere pronto. Si sporse con la testa quel tanto che gli permise di capire se erano in linea di tiro e, quando ne fu certo, balzò in piedi senza fare rumore.
Le prime due palle andarono subito a segno, così come quelle che le seguirono.
Ciapà! Ciapà! Presi! – gridò. – Siete morti!
Alle esclamazioni di sorpresa seguirono imprecazioni di rabbia. Attilio e Giacomo si limitarono a brontolare cercando di togliersi di dosso il fango. Carlo, invece, non appena capì da dove erano partiti quei proiettili, si lanciò verso di lui. Saltò con un balzo la barricata di rami e gli fu sopra.
Emilio si sentì sopraffatto dal peso dell’altro e cercò inutilmente di liberarsi. Dall’alto gli piombò un pugno in faccia che lo stordì. Per fortuna Attilio e Giacomo reagirono e andarono in suo soccorso tirando indietro Carlo.
– Non sei leale! – urlò Emilio non appena riuscì a mettersi in piedi. – Le regole non erano queste! Vi ho presi e ho vinto. Perché mi hai colpito, razza di somaro che non sei altro?
– Lascia perdere se non vuoi prenderle ancora – gli suggerì Giacomo mentre, con l’aiuto del compagno, tirava la giacca di Carlo, ancora furente.
Aveva qualche anno in più degli altri e un corpo decisamente robusto. Non era facile trattenerlo e i due compari stavano faticando non poco per convincerlo
a tornare a casa. Era abituato a imporre il suo volere con la forza, e la sconfitta che aveva appena subito gli bruciava. Tutti i ragazzini della contrada avevano paura di lui e dei suoi attacchi di collera. Aveva già rotto più di un naso e scheggiato a qualcuno un dente. Scontrarsi con lui non era conveniente, così come cercare di sfidarlo.
Emilio non sarebbe mai riuscito a contrastarlo fisicamente perché era molto più gracile di lui. Se Carlo poteva essere paragonato a un toro, lui poteva benissimo guadagnarsi il ruolo di un cerbiatto. Proprio per questa ragione aveva puntato il tutto e per tutto sulla sua furbizia.
Giocavano spesso alla guerra e non capitava mai che qualcuno riuscisse a vincere l’esercito di Carlo. Anche per questo, tutti volevano allearsi con lui, invece di far parte della squadra avversaria. Di solito i nomi dei malcapitati venivano estratti a sorte.
Quella volta, invece, Emilio si era proposto di sfidarlo apertamente. Nessuno dei ragazzini della contrada, però, si era messo al suo fianco, così era diventata la guerra di uno contro tutti.
Per giorni aveva studiato il percorso che avrebbe compiuto nel bosco e il modo in cui avrebbe teso l’agguato. Era un piano ben congegnato che, per la prima volta, aveva sconfitto Carlo.
– Sei un perdente – gli gridò l’avversario schiumando rabbia dalla bocca. – Sei un cretino di un bòcia che deve ricorrere a degli imbrogli per vincere!
– Io non ho imbrogliato! – trovò il coraggio
di rispondergli Emilio, spinto dalla rabbia che provava per quel nomignolo che gli appioppava sempre. Bòcia era l’appellativo con cui gli adulti si rivolgevano ai bambini e lui non sopportava più di essere chiamato così.
– Bisogna saper perdere, caro mio. La verità è che sono più furbo di te! – buttò fuori furibondo stringendo i pugni.
Con un impeto d’ira Carlo riuscì a liberarsi dalle braccia che avevano cercato di trattenerlo e si lanciò contro l’avversario. Emilio non aspettò che gli piombasse di nuovo addosso e cominciò a correre per sfuggirgli. La strada adesso era in discesa e mantenere l’equilibrio nel fango e nel muschio scivoloso non era facile. Inciampò diverse volte, ma il suo fisico agile gli permise di riprendere subito la corsa senza cadere.
Per Carlo, invece, la faccenda fu più complessa. Il corpo robusto gli impediva di essere abbastanza pronto a evitare i rami degli alberi o le buche tra le radici. Cadde molte volte e si rialzò con una rabbia che sembrava diventare più violenta a ogni passo.
Emilio non si voltò indietro. Continuò a correre fino a quando, uscito dal bosco, non raggiunse la contrada dove viveva. Percorse con passo lesto il viottolo che lo conduceva a casa e, dopo essere entrato, con forza chiuse dietro di sé la porta di legno. Vi appoggiò la schiena chiudendo gli occhi per il sollievo. Era riuscito a evitare di essere raggiunto.
Sbirciò dalla finestra e vide che Carlo e i suoi compari stavano scendendo a fatica lungo il sentiero che portava alla contrada. Erano piuttosto lontani, ma Emilio riuscì
a notare che Carlo zoppicava vistosamente. Per quella sera non avrebbe avuto da temere qualche vendetta.
Solo quando si girò, si rese conto che molti occhi lo stavano guardando. Senza accorgersene doveva aver fatto tardi, perché tutta la famiglia era già riunita intorno al tavolo per cenare. Percepì il profumo della polenta calda e del formaggio, ma non ebbe il tempo per pensare al crampo di fame che gli strinse lo stomaco.
– È l’orco! – gridò la piccola Betina scoppiando a piangere disperata.
La mamma la sollevò dal seggiolone di legno dove l’aveva messa per imboccarla.
– Non spaventarti – le disse baciandole le guanciotte paffute. – È solo quello sciocco di tuo fratello…
– Va’ a lavarti la faccia! – gli intimò Elena, la sorella maggiore. – Ma come ti sei conciato?
Emilio si era scordato di avere ancora il viso imbrattato di fango.
– Esci subito e torna solo quando avrai un aspetto decente! – gli sibilò la madre, che era riuscita a far cessare i singhiozzi della piccolina.
Lui non discusse e uscì di nuovo all’aperto. Se avesse tentato di lavarsi con l’acqua del catino, di sicuro avrebbe preso una sonora sberla. Per portarla in casa sua madre e sua sorella andavano tutti i giorni fino alla grande fontana. Riempivano i secchi e ripercorrevano la strada reggendoli con il bìgolo, un arnese di legno che, appoggiato al collo e alle spalle, permetteva di sostenerne il peso.
Anche a lui, spesso, veniva chiesto di fare quel viaggio faticoso, perciò sapeva bene quanto fosse preziosa l’acqua che avevano in casa.
Si diresse a passo lesto verso la fontana. Il sole era tramontato e ora il buio stava scendendo fra le case della contrada. Non gli piaceva andare in giro a quell’ora, soprattutto perché avrebbe dovuto percorrere un breve tratto di bosco prima di raggiungere la vasca di pietra.
Fu solo grazie al suo udito sensibile che riuscì a fermarsi prima di essere visibile agli occhi di Carlo e degli altri ragazzi della banda. Anche le loro madri dovevano averli obbligati a ripulirsi dal fango e ora erano tutti lì, intorno alla vasca.
– Quel bòcia me la pagherà – stava dicendo Carlo con un tono di voce ancora alterato dalla rabbia. – Guarda come ci ha conciati con il suo scherzo…
Seguirono imprecazioni e parolacce che chiarirono a Emilio un facile concetto: era meglio che non lo vedessero.
Si nascose dietro ad alcuni alberi e aspettò che finissero di lavarsi. Quando percorsero il sentiero vicino al punto in cui si era appostato, trattenne il respiro per paura di essere visto. Fu allora che udì alcuni frammenti del discorso che stavano facendo.
– Sono proprio dei pezzenti… Mia madre dice che non riusciranno a sopravvivere a un altro inverno. Finora tutti li hanno aiutati, ma non si può andare avanti così… – disse una voce.
– Sì, sono proprio degli straccioni. Chissà che fine avrà fatto il padre. Da quando è andato in America ha mandato solo una cartolina. Sembra che anche là non sia riuscito a trovare fortuna. Un poveraccio, ecco cos’è. Un poveraccio…
Emilio non sentì altro. Le lacrime gli scesero lungo le guance tracciando caldi rivoli nel fango che gli ricopriva la faccia.
Era della sua famiglia che stavano parlando.
Non c’era dubbio.

Fonte: Paoline
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