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Tradurre i russi: intervista a Paolo Nori

Nella Grande Russia portatile, lei racconta che la lingua russa è nata prima parlata che scritta, al contrario, per esempio dell’italiano.

Credo che quasi tutte le lingue nascano come lingue parlate, anche l’italiano, che era, da quel che mi ricordo di quel che ci hanno insegnato a scuola, la lingua dei fiorentini colti.

Solo che, la maggior parte dei nostri avi, i miei quattro nonni, per esempio, nei primi anni della loro vita non parlavano italiano: la loro lingua madre non era l’italiano; nel caso dei miei nonni, era il dialetto parmigiano.

In Russia, invece, non ci sono dialetti, e il russo letterario, quello in cui scrivono Puškin Gogol’ Turgenev Dostoevskij Tolstoj e tutti gli altri, è la lingua del popolo, parlata da secoli da tutti i russi, da Saratov a Pietroburgo; a questa lingua Puškin, con l’Evgenij Onegin, dà dignità letteraria, e questa è una lingua prima parlata e poi scritta (i russi hanno l’alfabeto solo nel IX secolo dopo Cristo: la missione di evangelizzazione di Cirillo e Metodio è dell’862). Questo strumento così potente, così comprensibile, così diretto, così tenero e così volgare contemporaneamente, ha prodotto una letteratura, la letteratura russa dell’Otto e del Novecento, che, come dice Giorgio Manganelli, se ci passi vicino, ti toglie il fiato: «non esistono disintossicanti per Gogol’, – scrive Manganelli – ed è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore, che la prima lettura della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, o della Steppa di Cechov. Così accade – conclude – che, periodicamente, nella vita, veniamo accolti da un attacco di “leggere i russi”». Manganelli ne parla come di una malattia. Non succede a tutti, ma chi viene colpito non se lo dimentica.

In che senso è stato Puškin a dare dignità letteraria al russo?

La lingua delle persone colte, nei primi dell’Ottocento, in Russia, era il francese. Puškin si lamenta del fatto che il russo scritto, nel 1820, non si può leggere, è ampolloso e lontanissimo alla lingua parlata, che è la lingua dei servi della gleba, come la njanja di Puškin, la sua nutrice, la sua bambinaia, Arina Rodionovna, una signora che non aveva neanche il cognome perché era una schiava, praticamente, e questa signora è il tramite tra questa lingua compresa dalla stragrande maggioranza dei russi e il grande talento di Puškin; il quale Puškin, negli anni 20 dell’ottocento, comincia a scrivere, con questa lingua così semplice e così potente, un memorabile romanzo in versi, l’Evgenij Onegin, che è un po’ l’inizio della letteratura russa moderna.

Nella Grande Russia portatile faccio un esempio: se leggo l’inizio dell’Evgenij Onegin a un bambino russo di cinque anni, che non è ancora andato a scuola, lui capisce tutto perfettamente; se leggo a un bambino italiano di cinque anni un’opera italiana dell’ottocento, come Il cinque maggio di Manzoni, che è del 1821, «Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore, orba di tanto spiro», cosa capisce?, mi chiedo. E racconto di quando ho fatto la prova con mia figlia, quando aveva cinque anni, le ho recitato l’inizio del Cinque maggio e le ho chiesto cosa significava e lei è rimasta un po’ a pensarci e poi ha detto «Eh, che lui era lì, immobile, che giocava a memory respirando».

Nella Grande Russia portatile (Salani) lei racconta di come, in metropolitana, leggano tutti, e di come i russi si fidino più dei libri che dei giornali.

Nel 1991, quando sono arrivato, in metropolitana c’erano due cose stupefacenti: non rideva nessuno e leggevano tutti dei libri. Non giornali, libri. Non ci credevano, i russi, ai giornali, nel 1991. Credevano ai libri. Credevano che ci fosse più verità in libri magari proibiti per decenni, come il Maestro e Margherita di Bulgakov, che nell’editoriale della Pravda. Son strani, i russi. Questo succedeva nel 1991, quando sono arrivato io; oggi, non so. Oggi ho l’impressione che non sia più così e che il ruolo della letteratura nella Russia contemporanea sia inferiore a quello dei due secoli precedenti. Non so perché, forse perché con l’apertura alle leggi del mercato gli scrittori russi hanno lo stesso problema che abbiamo noi, di vender dei libri. Quando leggo per esempio Boris Akunin, uno scrittore molto bravo, vivente, autore di gialli storici, a me sembra un po’ di leggere il primo Lucarelli: Akunin ha preso uno schema occidentale e ha costruito dei manufatti molto ben organizzati ma che non sembrano molto diversi dai manufatti che troviamo nella nostre librerie nella sezione letteratura italiana; mentre, non so, le opere di Tolstoj, o di Dostoevskij, o di Čechov, o di Lermontov, o di Gogol’, non le si può confondere con nessun’altra letteratura, sono russe.

E che rapporto c’è tra la Russia di Putin e la letteratura?

Dipenderà probabilmente da un mio limite, ma io faccio fatica a muovermi, nella contemporaneità, e a dar dei giudizi che non mi sembrino superficiali. Nel libro ci sono una decina di pagine dedicate al rapporto tra scrittori e potere, a partire da una celebre telefonata tra Stalin e Pasternak. Oggi, non saprei indicare una vicenda altrettanto esemplare, e altrettanto chiara, con testimonianze univoche che raccontino cos’è successo; l’unica cosa che forse posso aggiungere, sul rapporto tra potere e  letteratura, che credo valga anche nel caso di Putin e degli scrittori contemporanei, è quel che diceva Iosif Brodskij, che «chi critica una malattia o un male, per il solo fatto di farlo si sente buono, si sente nel giusto. È un errore di valutazione molto grave e piuttosto diffuso in questa professione, e non credo sia sano. E c’è anche un problema di vanità: quando un’intera nazione ti ammira, puoi dimenticare piuttosto in fretta qual è il tuo vero lavoro. Il tuo vero lavoro è scrivere bene».

Ecco, credo che questa sia la cosa davvero difficile, per uno scrittore: scrivere delle cose belle. Il fatto che uno come Brodskij, che è stato processato e condannato per parassitismo, mandato ai lavori forzati e poi cacciato dalla Russia, abbia la consapevolezza che il suo dovere sia scrivere bene, è una cosa commovente, per me.

Da traduttore, come si fa ad aderire a una lingua e al contempo a mantenersi aperti alle migliori possibilità di traduzione nella lingua destinataria?

In generale, bisognerebbe produrre sul lettore italiano lo stesso effetto che il testo originale produce sul lettore russo. Ivi compreso il suono, la vitalità, la dicibilità, della lingua. È un mestiere difficile. Se il libro che traduci è bello, o molto bello, questo ti aiuta. È così sicura, la voce di Gogol’ nella prima parte delle Anime morte, o quella di Venedikt Erofeev in Mosca-Petuškì, la guida che hai è così precisa, che fai fatica, a sbagliare.

Che risposta le sembra ci sia al suo lavoro da traduttore?

Buona. Ho cominciato a tradurre circa quindici anni fa e credo che tutti i libri che ho tradotto siano andati bene, anche Mosca-Petuškì di Erofeev, che, tra gli autori che ho tradotto, è forse il meno conosciuto, in Italia. La letteratura russa, in generale, mi sembra abbia ancora un’ottima reputazione, per il lettore italiano.

Da traduttore com’è il suo rapporto con le case editrici?

Ottima, in generale. Siamo, sia io che le redattrici e i redattori con i quali ho lavorato, maniaci della stessa cosa, e di solito tra maniaci ci si intende. Ho incontrato redattori che mi hanno insegnato un sacco di cose. Il lavoro del redattore è un lavoro bellissimo e delicatissimo, secondo me, perché va a toccare degli aspetti molto intimi. L’attenzione per la categoria dei traduttori è aumentata, in questi ultimi anni, anche se ci sono ancora casi di editori, anche grandi, che nelle bibliografie o nelle segnalazioni non mettono il nome del traduttore. Ma lo stesso libro, con due traduzioni diverse, son due libri diversi.

Un’ultima domanda: se dovesse consigliare ai lettori de ilLibraio.it tre romanzi russi meno celebri, quali sceglierebbe?

Il demone meschino di Sologub (Garzanti, traduzione di Pietro Zveteremich), I signori Golovlëv di Saltykov-Scedrin (Quodlibet, traduzione di Ettore Lo Gatto) e Necropoli di Chodasievič (Adelphi, traduzione di Nilo Pucci).

 

La grande Russia portatile. Viaggio sentimentale nel paese degli zar, dei soviet, dei nuovi ricchi e nella più bella letteratura del mondo | Nori, Paolo | Salani | 2018 | 177 pagine | 14,90 euro