Dai margini nasce la scrittura. Intervista a Rabih Alameddine
Alle porte del mattino mi accovacciavo dietro la finestra e osservavo tanatofili adolescenti muniti di semiautomatiche scorrazzare a zig-zag come scarafaggi. Il chiaro di luna su canne di fucili usati mentre nebulose di fiamme coloravano il cielo indaco, vedevo stelle che ammiccavano con incredulità alla tracotanza sottostante. […] Mi sedevo accanto alla finestra con le faccende domestiche ancora da sbrigare. Guardavo la mia città, la mia necropoli, arrostire e sbriciolarsi.
Così Aaliya Saleh, il personaggio che costituisce l’universo narrativo de La traduttrice, romanzo dello scrittore libanese Rabih Alameddine pubblicato nel 2013 in Italia da Bompiani nella traduzione di Licia Vighi, descrive i suoi risvegli nella Beirut sconvolta dalla Guerra civile.
Sono personaggi che vivono i margini con sguardi inaddomesticabili, i protagonisti dei romanzi di Alameddine, nato in Giordania da genitori libanesi nel 1959, una vita tra Kuwait, Libano e Inghilterra che ora si divide tra San Francisco e Beirut. Sono outsider quelli che popolano le pagine dei suoi romanzi. Creature che attraversano con lessici non conformi i perimetri ristretti di società che non li riconoscono e che li espellono.
Cosi è Sarah Nour El Din, altro meraviglioso ritratto femminile e voce narrante di Io, la divina, ultimo romanzo di Alameddine pubblicato in Italia quest’anno sempre da Bompiani, costruito di soli capitoli primi, e così è il caleidoscopio di voci narranti e punti di vista multipli che compone Koolaids, uscito nel 1998 in cui l’autore crea – in una costante sovrapposizione di piani temporali – la Beirut straziata e feroce degli anni della Guerra civile e la San Francisco degli anni ’80 all’inizio dell’epidemia di Aids. Così è Aaliya, protagonista de La traduttrice, divorziata settantenne dai capelli blu che, ritirata nel suo appartamento di Beirut ovest, traduce in solitudine i romanzi che l’hanno formata e che rappresentano l’unica realtà all’interno della quale non si senta reclusa e esiliata. Traduzioni che nessuno ha mai letto e che nessuno pubblicherà mai.
Lo stile della scrittura di Alameddine rispecchia questa frammentazione, questa complessità e difformità di sguardo e di pensiero. E, così come per l’esperienza personale dell’autore, la diaspora – la costante indagine giocata nel dialogo tra appartenenza e perdita, abbandono e riconoscimento – diviene punto focale dello scrivere e l’alterità si fa concetto fondante di questa narrativa.
È un’indagine sull’altro, quella che muove le parole della scrittura di Alameddine. Lo straniero che abitiamo e quello sociale, il migrante, il fuori-luogo, colui che rappresenta e che vive il crinale, impossibilitato a trovare per la propria esperienza una chiara appartenenza e una definizione sociale.
Dallo sguardo di questo margine nasce un’opera complessa e personaggi indimenticabili.
Ne abbiamo parlato insieme qui.
Per iniziare, mi piacerebbe approfondire un aspetto della struttura narrativa dei suoi romanzi. Userei, per descrivere ciò di cui vorrei parlare, il termine di frammentazione. Koolaids, in cui la narrazione va avanti e indietro tra la Beirut negli anni della guerra civile e la San Francisco degli anni Ottanta allo scoppio dell’epidemia di Aids, è costruito come un mosaico di voci multiple e differenti punti di vista, voci di diversi personaggi che raccontano i loro ricordi più intimi. Io, la divina è il racconto in prima persona in soli capitoli primi della vita di una donna anti-conformista appartenente a una famiglia drusa libanese. Un costante nuovo inizio nel tentativo di comprendere la complessità della propria vita. In Il cantore di storie (Hakawati)la composizione narrativa è costruita in piccole storie inquadrate nella storia libanese e si collega, in qualche modo, alla tradizione orale nella cultura araba e a Le mille e una notte.
Così funziona la mia mente. Salta da una cosa all’altra, costruendo collegamenti che vanno avanti e indietro sul piano temporale. Quando ho iniziato a scrivere Koolaids quello era l’unico modo in cui potevo scriverlo, l’unico modo in cui potevo raccontare quella storia. Più in generale, riflettendo sulla complessità della struttura narrativa di alcuni miei romanzi, credo forse che una narrativa lineare semplicemente mi annoi. Non mi annoia in assoluto, per esempio ho appena finito di leggere La brava terroristadi Doris Lessing – che ha una struttura assolutamente lineare – e l’ho trovato meraviglioso. Quindi posso dire che mentre scrivo, o per quanto riguarda i miei romanzi, non sono mai riuscito a trovarmi a mio agio in una struttura narrativa lineare. Mi annoia nel momento in cui sono io a scrivere. Per quanto riguarda il termine che usi frammentazione, all’inizio di Koolaids c’è una citazione da Calvino a riguardo.
I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell’epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta. (Italo Calvino, Se una notte di inverno un viaggiatore)
Per la struttura narrativa deIl cantore di storie (Hakawati), quello che avevo in mente era qualcosa di più simile al processo con cui si realizza un tappeto. Una composizione fatta di trama e ordito. I fili narrativi si intrecciano gli uni agli altri portando al disegno finale. Creato da un’intersezione di fili e nodi.
In Koolaids questo continuo cambio di voci narrative e di punti di vista sulla storia, riesce nel tentativo ultimo di creare un grande affresco corale. Ogni punto di vista fornisce un tassello che permette di raccontare la complessità del disegno narrativo e del contesto storico. Allora mi è venuto alla mente un semplice parallelo. Durante la guerra civile libanese ogni fazione, ogni gruppo coinvolto nella guerra, aveva una propria “narrazione”. I “fatti” e la “Storia”, come concetti, sono diventati un paesaggio ambiguo e la “verità storica” si è frammentata in una molteplicità di storie, versioni, punti di vista in costante conflitto uno con l’altro. La struttura narrativa di questo romanzo è influenzata dalla tua esperienza personale in questo contesto politico e sociale?
Certo, assolutamente. Durante la guerra civile libanese, ogni organo di stampa legato alla miriade di fazioni opposte coinvolte nel conflitto aveva la sua personale narrazione dei fatti. La sua personale versione della realtà storica e della “verità”. Miriadi di diversi punti di vista. Questa cosa accadeva non solo per gli organi di stampa delle diverse milizie ma anche tra le persone, tra i civili. Ogni quartiere, ogni gruppo, ogni singolo aveva il suo personale racconto, la sua personale versione su ciò che stava succedendo. Dal punto di vista di indagine sullo storytelling era una cosa mostruosa, in certo senso, ma che mi affascinava e mi interessava moltissimo. Gli anni della guerra civile, non a caso, hanno anche coinciso con un rinascimento della letteratura in Libano. Ciò a cui si assisteva quotidianamente, questo processo di racconto e ri-racconto della realtà, è qualcosa che ha influenzato e formato moltissimo la produzione letteraria libanese.
Tutti i personaggi nei tuoi romanzi sono, in qualche modo, borderline. Appartengono ai margini. Hanno lasciato la loro patria diventando migranti, divisi tra esilio, appartenenza ed espropriazione. Per la tua esperienza come scrittore, qual è il rapporto tra diaspora e la letteratura?
Credo che il punto centrale, per quanto riguarda il rapporto tra diaspora e letteratura, sia la relazione tra appartenenza e non appartenenza. Credo anche che, sia per quanto riguarda la scrittura sia per quanto riguarda la pittura – direi per l’esperienza creativa in generale – trovare un artista che davvero appartenga a un luogo sia molto raro. Sono scettico e non amo gli scrittori o gli artisti che si definiscono o vengono definiti “scrittore della nazione”/”artista della nazione” etc… Per me è un discorso che non ha alcun senso.
Così come credo sia davvero difficile trovare uno scrittore che viva completamente all’interno alla sua comunità. Tutti i veri scrittori, o almeno quelli che amo, vivono ai margini, o come dici tu on the edge. Io, in qualche modo, mi sento alienato ovunque. Per descrivere questa condizione uso il termine dislocation. Credo che ogni scrittore viva questa condizione di dislocazione. Che ovviamente è collegata con l’esperienza della diaspora ma non è necessariamente collegata con l’esperienza del vivere altrove. Anche Pessoa, che è uno degli scrittori che amo di più, senza dubbio viveva questa condizione pur non essendosi mai allontanato da Lisbona. Credo che uno scrittore, per essere tale, viva sempre ai margini della società che deve indagare. Non totalmente fuori né totalmente all’interno. Per scrivere di qualcosa è necessaria questa distanza. Non si può comprendere qualcosa da cui si è completamente fuori così come non si può scrivere di qualcosa se si è troppo immersi in quella realtà.
Può il processo letterario, o la lingua in cui uno scrittore sceglie di scrivere, diventare la patria che non si ha più? Molti libanesi si formano e possono parlare almeno in tre lingue, che sono l’arabo, l’inglese e il francese. C’è una lingua in cui si sente a casa?
Mi chiedi se c’è una lingua in cui mi sento a casa ma io credo di non sentirmi realmente a casa in nessun luogo, per il discorso che facevamo prima. Crescere in una società multilingue però è sicuramente un’esperienza che porta ricchezza alla percezione della realtà. Formarsi in un luogo in cui si parlano diverse lingue, ed essere in grado di muoversi all’interno di diverse lingue, influisce enormemente sulla capacità di scrivere e di pensare. Di vedere. Quando penso in arabo sono una persona diversa da quando lo faccio in inglese. Per esempio, se devo litigare con la persona che amo solitamente è in arabo che lo faccio perché questa lingua riflette la mia dimensione emotiva e interiore. Mentre l’inglese rappresenta più la mia sfera razionale, logica.
Aaliya, la settantenne beirutina protagonista di La traduttrice, è uno dei personaggi letterari più complessi che mi sia capitato di incontrare da tempo. Come è nata l’ispirazione per questa storia?
È sempre difficile per me rispondere a questa domanda perché, se devo essere onesto, non lo so da dove Aaliya sia arrivata fin dentro alla mia mente. Quello che so è che inizialmente volevo scrivere una storia molto, molto, diversa da quella che poi ho scritto. Quando ho iniziato a scrivere il personaggio principale era una donna molto diversa da Aaliya. In primo luogo era una donna irachena, sposata, con figli. Poi, mentre scrivevo, mi sono reso conto che non mi interessava più quella storia, che c’era qualcosa che non funzionava. L’unica cosa che volevo tenere della storia iniziale era la condizione di questo personaggio che non riesce a stare dentro le regole sociali, che non riesce a stare all’interno del mondo, se così vogliamo dire. Mi sono reso conto che l’unica cosa che volevo era raccontare l’esperienza di questa donna e la sua solitudine. Una solitudine scelta e voluta. L’Iraq è poi diventato Beirut, la donna non aveva più figli e non era sposata ma divorziata.
Il mondo di Aaliya è fatto di letteratura. In un passaggio del romanzo è lei stessa ad ammettere la letteratura mi da la vita e la vita mi uccide. Anche lei è un outsider che ha infranto tutte le regole della società libanese. Trova un suo luogo di appartenenza solo nel processo solitario della lettura e della traduzione. Attraverso questa separazione dalla realtà riesce a riappropriarsi in qualche modo della sua umanità alla ricerca del senso della sua esperienza umana. Riesce a ridare dignità alla sua vita solo attraverso un’azione solitaria, della quale nessuno sa nulla e che non vedrà mai una pubblicazione. È una lettura corretta?
Quello che amo del personaggio di Aalyia è il suo desiderio di vivere la sua vita come vuole, senza curarsi di quello che la società o le persone attorno a lei pensano. Lei vuole semplicemente vivere a modo suo. Ama la sua solitudine, l’ha scelta e la vive a pieno. In un certo senso incarna ciò che anche io vorrei riuscire ad essere. Una persona che non si cura del giudizio degli altri e che vive la propria esperienza di vita come vuole. Anche io vorrei avere la sua forza, non curarmi di ciò che le persone possano pensare o dire di me, non curarmi di ciò che le persone pensano dei miei romanzi. Aalyia vive un’esperienza solitaria ma ricca, piena.
La scrittura e la lettura sono entrambe esperienze solitarie, avventure che nascono e si costruiscono nella solitudine. Allo stesso tempo però non lo sono fino in fondo.
Certo, ed è questa dimensione di processo solitario che mi interessava indagare. Molta parte delle interazioni umane deriva dal fatto di non riuscire, o non volere più, stare soli. Aalyia può farlo. Lei ama il processo solitario della lettura e della traduzione. Anche se è una donna sola ha un’esperienza di vita piena. Anche se legge e traduce libri che nessuno ha mai visto o pubblicato la sua è un’esperienza vissuta a fondo. Mi capita spesso di leggere recensioni o commenti al libro, spesso i lettori scrivono che l’esperienza di Aalyia è così triste. Allora io mi dico “Ma no. No! Perché? Aalyia non è una persona triste! Vive una vita piena! Vive nel modo in cui ha scelto di vivere!”
Trovo molto interessante considerare come si stia vivendo in un mondo in cui siamo sempre più soli e allo stesso stesso tempo sempre più invasi. Come se la società volesse rimuovere ogni tipo di dimensione collegata alla solitudine. Insomma, è come se non fossimo più in grando di accettare l’idea che qualcuno possa scegliere di vivere una solitudine reale e possa amare questa condizione. Credo che sia la solitudine il grande taboo delle società contemporanee.
Aalyia è un personaggio meraviglioso. La prima volta che ho letto il romanzo mi trovavo a Beirut e avevo la sensazione che se fossi uscita di casa e avessi iniziato a camminare per il mio quartiere avrei potuto incontrarla. Ora che sto rileggendo il romanzo ho la stessa sensazione. Qualcosa di veramente tangibile, di così umano…
Sì, capisco. Io sono innamorato di lei. Per me è una persona reale.
Beirut ha uno spazio di rilievo in tutta la sua opera. Se dovessi chiederle una sorta di “topografia interiore” di Beirut, quali luoghi mi indicherebbe? Se dovesse accompagnarmi per una passeggiata quale sarebbe il percorso?
La Beirut dei miei libri è immaginaria. Mi fa sempre paura quando qualcuno mi scrive: “Grazie al suo romanzo ho finalmente capito Beirut!”. Ogni volta penso “Che cosa? Oh no, per favore! Nessuno può capire Beirut! ”
Quando sono a Beirut cammino tutto il tempo. Non prendo mai service o altri mezzi di trasporto. Cammino a piedi per i quartieri della città; attraverso il quartiere: il quartiere armeno, la Corniche ricca, quella povera… A Beirut ci sono luoghi che ti fanno sentire in Europa o in qualche capitale occidentale e poi, poche centinaia di metri più avanti, sembra di essere in Pakistan. Questa è Beirut. Tutte queste dimensioni diverse sono Beirut. Se fossimo insieme a Beirut credo che cammineremmo per la città senza una vera meta. Cammineremmo dentro i suoi quartieri.
Beirut è una città di diaspore e migrazioni. Solo nel Novecento il paese ha dato rifugio a diverse comunità in fuga da guerre e persecuzioni. Durante la Guerra civile in Libano un grande numero di civili è stato costretto a sua volta a lasciare un Paese senza più fare ritorno. Con lo scoppio della guerra in Siria nel 2011, più di 1 milione e duecentomila civili sono entrati in Libano come rifugiati. È in qualche modo un luogo che è diventato un topos della Alterità ma che rimane nello stesso tempo un paese rigidamente diviso in un sistema confessionale più tradizionalista di quanto possa apparire. Un paesaggio complesso che riassume aspetti chiave del mondo contemporaneo. Come vede il rapporto tra alterità e identità nelle società occidentali e medio orientali contemporanee? È possibile affrontare il tema da una prospettiva de-orientalizzata?
Beirut è un luogo in cui le persone sono sempre andate e venute. Ha sempre dato rifugio a comunità che fuggivano conflitti e persecuzioni nei Paesi vicini. Penso alla comunità armena che arrivò a Beirut in seguito al genocidio perpetrato in Turchia nel 1915. Penso ai palestinesi, agli iracheni. Durante le guerra civile libanese poi in molti furono costretti a lasciare a loro volta il Paese. Insomma Beirut, e più in generale il Libano, è sempre stato un crocevia di genti, lingue, culture diverse. Qui torniamo all’annosa questione dell’identità. La domanda che ci affligge da decenni:
“Che cosa significa essere libanese?”
Siamo musulmani? Siamo cristiani? Siamo europei? Siamo arabi? E via dicendo.
Per quanto mi riguarda, credo che la cosa più interessante della società libanese sia proprio la complessità della sua composizione. Il fatto di non essere una società omogenea. Se lo diventasse perderebbe ciò che la rende viva. Il fatto che in Libano ci siano state sempre comunità che sono arrivate da fuori ha portato la società libanese a reinventarsi costantemente. Questo è l’aspetto più importante. Mentre il discorso occidentale sul concetto di alterità rimane sostanzialmente bloccato all’idea che l’altro sia una minaccia che viene dall’esterno. Le società però non possono essere organismi fissi o bloccati in una forma originaria. Sono organismi in continua evoluzione, devono necessariamente cambiare, evolvere, trasformarsi. In questa ottica gli influssi che arrivano dall’esterno sono fattori fondamentali. Ti faccio un esempio. In tutto il mondo, se ti capita di andare in un ristorante armeno, la proposta di cibo che riceverai non si discosterà tanto dalla cucina libanese. Le due culture, in questo senso, è come se si fossero fuse. Hanno preso l’una gli influssi dell’altra creando un mix che rappresenta una ricchezza.
Un bellissimo mix…
Sì, bellissimo.
In questi ultimi mesi una delle grandi preoccupazioni dei governi occidentali è collegata all’esodo dei rifugiati siriani, iracheni, pakistani sulla rotta balcanica e sulla tratta libica. Come se ci si accorgesse solo ora di una tragedia che va avanti da anni. Molti media mainstream continuano a parlare con toni a dir poco allarmistici di questa “invasione”, strumentalizzando l’informazione per evidenti disegni politici. Un discorso demagogico che a volte spaventa.
Certo. Sono d’accordo. Si parla di invasione in Europa quando in un Paese come il Libano, che ha 4 milioni di abitanti, solo i rifugiati siriani sono un milione e mezzo. Ma di cosa stiamo parlando?
Il Libano è il paese al mondo con il più alto tasso di rifugiati per abitante e questo rende la sua società estremamente complessa e interessante da indagare. Un mosaico di molteplici livelli di lettura, linguaggi, culture, religioni differenti.
Sì, è così. E per questo, per quanto ami moltissimo l’Italia e la sua cultura, forse non sarebbe male iniziare a pensare che prendere qualcosa dalla cultura dei rifugiati siriani, per esempio, creare questo incontro invece che continuare a considerare chi arriva da altrove solo come una minaccia, potrebbe dare vita un mix molto interessante.
La sua scrittura è un processo costante di ri-evocazione di fantasmi in cui l’indagine sulla morte ha un ruolo fondante. Gli scomparsi sono la spina dorsale della sua narrativa. Forse, semplicemente, perché questo vuoto è l’unico paese a cui la letteratura possa appartenere. Sbaglio?
No, non sbagli. Hai perfettamente ragione. Tutta la mia scrittura riguarda la perdita e la scomparsa. Tutto nell’esperienza umana riguarda il sesso e la morte. La morte è l’eterna condizione umana. Non c’è altro di cui parlare. Quando ci si innamora si prende una piccola pausa dalla morte che, per quanto mi riguarda, rimane l’unico soggetto della letteratura. Ciò che ci fa esseri umani.