Confini in crisi: due prospettive letterarie
È possibile che l’idea di confine sia strettamente collegata alla condizione dell’essere umano? Riflettendo intorno a questa domanda si possono provare a interpretare alcuni problemi che affliggono il mondo contemporaneo. Il confine ha infatti assunto un significato prevalentemente conflittuale, che genera divisione, contrasto e rifiuto. Tuttavia, c’è anche dell’altro: i confini limitano il nostro campo di esperienza, permettono di distinguere, di riconoscere e riconoscersi, ma non sono barriere, perché indicano qualcosa che sta oltre, profilano delle possibilità da indagare o da cogliere. Anzi, la distinzione essenziale fra realtà e possibilità è dovuta al continuo oltrepassamento di un limite costitutivo di cui, di solito, non ci avvediamo.
Due opere letterarie edite recentemente da Minimum Fax, Dov’è casa mia. Storie oltre i confini di Davide Coltri e Solo un fiume a separarci di Francisco Cantù, consentono di riflettere ancora una volta intorno al concetto di confine e alla sua crisi. Le due prospettive rappresentate, pur rivolte alla medesima matassa inestricabile, sono opposte ma complementari nella necessità e forse nell’impellenza di trovare un’espressione letteraria adeguata ad un’esperienza fondamentale nella vita degli individui e della società.
Il libro di Davide Coltri è una raccolta di brevi racconti che fotografa da diverse angolazioni un evento di fondo: l’affermazione dei confini nell’epoca della loro dissoluzione. Quando il senso della realtà vissuta comincia a sbriciolarsi, i confini che danno forma al nostro mondo si fanno più evidenti, divenendo barriere.
Coltri narra il disagio della faticosa dissolvenza di situazioni, personaggi e luoghi, giocando sulla soglia della verosimiglianza delle vicende raccontate. In corrispondenza dei diversi racconti le polarità guerra/pace, normale/anormale, malattia/salute, montagna/pianura, abuso/giustizia, tradizione/distruzione, felicità/turbamento si sfaldano. I volontari e i professionisti delle ONG, i profughi, le rivalità fra la gente di pianura e quella di montagna, le violenze psichiche e fisiche, la barbarie incipiente, la guerra, il terrorismo, i sogni, le illusioni, la normalità e la malattia divengono entità fantasmatiche che sembrano non essere, ma che tuttavia resistono ancora abbattendo il primo confine fra realtà e finzione.
Una battuta nel racconto Scoramenti (sentimento centrale della raccolta) rivela obliquamente il senso che attraversa il libro. Un predicatore della grande moschea domanda:
Perché tanti si uniscono all’Isis? Perché hanno dimenticato il limite.
I guerriglieri e i terroristi vivono in questa amnesia, nella superbia di proclamarsi giudici della vita e della morte altrui in un mondo appiattito, desertificato, luccicante di fanatismo, sostituendosi al Dio che pretendono di servire. Mentre le sfaccettature dei protagonisti dei racconti si profilano nella luce digradante dell’oblio, poiché affrontano le incertezze e lo sfasamento di un mondo che minaccia di crollare sotto i loro occhi (gli attentati, le rivalità, le tradizioni in pericolo, le ansie delle fughe, l’incombenza di un prossimo assedio) o che è già naufragato.
Nel primo racconto, Khalat, la giovane protagonista da un’aula dell’università dove comincia a studiare letteratura francese si ritrova rapidamente, in un susseguirsi sconvolgente di eventi a senso unico, in mezzo al silenzio tombale del Mar Mediterraneo, al largo delle isole della Grecia, su una barca momentaneamente in avaria. Il desiderio di un mondo intriso di lirismo, come suggerito dalla poesia di Prevert che fa da perno alla narrazione, è una forma di evasione dalla tradizione cui il padre vorrebbe legarla e la guerra, invece, inchiodarla. Ma la leggerezza speranzosa della poesia e il fardello della tradizione sono già privi di senso perché cannibalizzati dall’incontrollato espandersi del conflitto in Siria. Il lieto fine – davvero lieto? – è l’arrivo in Germania, dove la giovane ricomincia, un’altra volta, una nuova vita. Quando gli operatori tedeschi le chiedono che cosa facesse prima, tutto ciò che riguarda il suo passato – il fratello Muhsen morto durante il conflitto, la casa, il Paese d’origine, la poesia (il mondo delle possibilità irrealizzate), l’identità personale – è ridotto a niente.
Tuttavia, le forme dei confini e le loro demolizioni sono mutevoli ed intorno ad esse si modellano i racconti, come accade in Solo attentati, che apre una breccia all’interno dell’idea di normalità. In seguito ad un attentato con due autobombe in città, un venditore ambulante di semi percorre le strade massacrate richiamando l’attenzione per vendere i propri prodotti. L’episodio mostra lo scandalo di una nuova normalità costruita fra le macerie, l’indecenza dell’ordine quotidiano nello sconquasso della guerra; ma rivela anche la riduzione della guerra ad attentato e la nuova normalità dell’attentato che esorcizza lo spettro della guerra.
Dalla finestra una donna si scaglia contro il disgraziato ambulante ripetendo ossessivamente delle esclamazioni indecifrabili. Si spiegherà che:
la vecchia era arrabbiata con l’ambulante. Gli urlava che era uno stupido, se pensava di fregarla così […]
Fregarla in che senso? Fingendo che non stia succedendo niente, andando in giro a vendere noccioline, nel bel mezzo della guerra.
Ma la vecchia non lo sa che qui la guerra non c’è? Questi sono attentati, l’ho interrotto. (p. 104)
Ma il turbamento dell’idea di confine per come siamo abituati ad intenderla sta anche nella continua attività degli operatori umanitari che giungono nei luoghi devastati dalla miseria e dal terrore per essere sempre trasferiti altrove o per tornare a casa scossi, a causa della permanenza del vuoto, in un continuo processo di sconnessioni. L’esperienza positiva di Happiness report, che si snoda nell’ordinarietà del compito limitato e regolare di preparare pacchi di materiali per la scuola o scambiarsi fotografie con amici lontani, si alterna agli scoramenti dovuti al sentimento di inutilità del proprio ruolo in contesti di vita in cui manca tutto.
Ancora superamento dei confini, inversione delle parti, alternanza di pienezza di senso e prosciugamento, tentativi di compensazione per vincere il vuoto – i limiti si impongono per mettere ordine, ma anche per indicare, per converso, la scintillante follia dell’illimitato. Il titolo del libro non è una domanda, ma per volere di Coltri alla fine lo diventa: “Dov’è casa mia?. Qui.” (p. 171). Da nessuna parte.
Se Coltri adotta una forma centrifuga, moltiplicando i punti di vista, i protagonisti e gli ambienti delle narrazioni, Francisco Cantù, invece, adotta un’impostazione centripeta, centralizzando una narrazione disomogenea sotto l’occhio vigile del soggetto raziocinante ed indagando la dissoluzione dei confini nell’epoca della loro affermazione. Il celebre muro fra gli Stati Uniti e il Messico è lì e la sua evocazione ne rinforza la presenza, nonostante ciò, è oggetto di continui tentativi simbolici e reali di oltrepassamento.
Da coscienzioso ranger di confine del Texas, Cantù fa esperienza diretta di cosa significhi confine, sceglie di viverlo senza intermediari, tentando anche di prepararsi attraverso lo studio per coglierne l’essenza: da chi è frequentato, quali dinamiche si creano intorno ad esso, da quali problemi sorge e, infine, quali sono le soluzioni? Nonostante le apparenze, quella di Cantù è un’esperienza di vita organizzata e controllata ma in un contesto disordinato, drammatico, anche straziante sia per la violenza che esprime sia per il dolore che si trascina in mezzo al deserto. I dispacci dal confine dell’autore procedono in forma irregolare, come episodi frammentari seppur razionalizzati, di pattugliamenti e di incontri con i migranti messicani. Alle narrazioni si alternano brevi intermezzi dedicati a diverse interpretazioni storiche, sociologiche, psicoanalitiche, persino biologiche, che innescano il fenomeno migratorio e, più in profondità, il superamento del confine. Tuttavia, l’impressione che viene data non è tanto quella della diffusione di chiarezza quanto piuttosto della confusione, dell’affastellamento di opinioni su un tema generale mescolato a casi particolari, a occasioni umane di comprensione reciproca ma anche di inumana discordia.
La farraginosa burocrazia dello Stato – il modo anch’esso brutale, ma legale, di trattare gli immigrati – è seguita in tutta la terza parte del libro, che narra la separazione di una famiglia messicana dal padre. Un’immagine del confine come limbo: l’uomo è rimpatriato in Messico in una zona liminare, in attesa che il ricorso alla giustizia americana possa legalmente riunirlo ai familiari. Una sosta forzata, al limite dell’oblio, la cui estensione è continuamente dilatata dai rimandi amministrativi e procedurali. Una volta abbandonata la professione di poliziotto di confine, Cantù tenta di dare supporto alla famiglia dilaniata e riflette a distanza sul suo ruolo di guardiano: non presidiava il confine, era lui il confine, passando così dall’esperienza diretta all’identificazione.
Nel libro il deserto appare dominante in un senso che non è solo fisico; c’è anche la desertificazione dei sentimenti cui Cantù, analogamente allo scoramento raccontato da Coltri, tenta di resistere con una buona dose di ingenuità e di idealismo vagamente scettico, quasi fosse sovrastato da una potenza – quella della realtà – che rimane in larga misura fuori controllo. I suoi tentativi di trovare una ragione al fenomeno del confine sono come manciate di sabbia lanciate controvento. Ma l’immagine del deserto si trova in una significativa opposizione con quella evocata nelle prime pagine del libro, il mare (accostamento ripreso anche in un episodio in chiusura). Poco prima di prendere servizio, Cantù visita il Texas occidentale assieme alla madre, che lì lavorava come ranger nel Parco nazionale:
Guardammo a nord, verso Guadalupe, i resti torreggianti di una barriera corallina risalente al Permiano, un tempo sommersa dalle acque interne dalla Pangea (p. 9).
Dove ora ci sono un confine e il deserto, con tutto il loro portato di senso, in un’era geologica passata (dai 300 ai 250 milioni di anni fa) c’era solo il mare che non conosce limiti definiti, ma che nondimeno è un altro luogo dell’oblio, che inghiotte e dimentica. Quel deserto che ora appare come simbolo della divisione, milioni di anni addietro non esisteva, era il proprio opposto: la proliferazione della vita ormai pietrificata.
Due ambienti privi di confini, illimitati e inumani, che offrono la suggestione di ciò che permane immobile nello scorrere del tempo, a suggerire, forse, per converso, che nella condizione finita e problematica dell’uomo ciò che ha senso si manifesta solo nella posizione e nel travalicamento costante dei limiti.