Rebecca libri

Gli scrittori stranieri adottano la nostra lingua

 

Gennaro Rega traccia una essenziale e schematica cornice storica del fenomeno della cosiddetta letteratura migrante italiana, analoga al movimento denominato Black Britain, nei paesi anglosassoni, e alla Littérature Beur, in Francia; suggerendo qualcuno dei più recenti e interessanti testi di questo segmento culturale.

Gli esordi della letteratura “migrante” 

I primi libri scritti in italiano da migranti presero spunto da un fatto di cronaca nera, che aveva profondamente colpito l’opinione pubblica. Si trattò della morte di Jerry Masslo (agosto 1989), giovane sudafricano derubato e ucciso in provincia di Caserta, dove come decine di altri provenienti soprattutto dal Nord-Africa raccoglieva pomodori, lavorando in nero. I magrebini Tahar Ben Jelloun con Dove lo stato non c’è, e Salah Methnani, autore di Immigrato, sollecitarono le coscienze dei loro connazionali e degli italiani a reagire con fermezza a tali crimini. Questa prima fase della scrittura migrante, definita “autobiografica”, ebbe inizio fra il 1990 e il 1991 con il libro di Pap Khouma, Io venditore di elefanti. Una vita per forza tra Dakar, Parigi e Milano (1990), quello di Saidou Moussa Ba, La promessa di Hamadi e infine quello di Mohamed Bouchane, Chiamatemi Alì.
Sono scrittori che prendono, per così dire, “in affitto” la lingua italiana perché quasi sempre le loro opere sono elaborate a quattro mani assieme a un coautore o giornalista italiano (infatti è definita anche la fase della coautorialità”).

I temi di questa prima produzione testimoniano la condizione difficile dei migranti, le difficoltà a inserirsi nella società italiana, poco abituata a ricevere i flussi migratori e per antica tradizione invece propensa a farne parte in ogni angolo del mondo, il bisogno disperato di comunicare la propria esistenza e di affermare il diritto a essere considerati uomini e donne con uno spirito, una mente, degli usi e costumi, una cultura, una lingua diverse e non solo come manodopera, per giunta di seconda classe. I protagonisti di questi libri sono individui che vivono ancora in terre di mezzo, consapevoli di aver rinunciato alla loro identità originaria, ma di non averne ancora acquisita una nuova.
«Da quel momento la nostra lingua, così antica e piena di tante vite, cominciò a lavorare anche come mediazione e traduzione e addirittura come cooperazione narrativa», afferma Armando Gnisci, dell’Università “La Sapienza”, che per primo, in ambito accademico, si accorse che questi libri costituivano l’inizio di quella che lui chiamò allora «la nascente letteratura italiana della migrazione».
Ma dopo una fugace notorietà, la letteratura migrante conobbe un momento di appannamento. L’attenzione mediatica su questi temi andò scemando e le grandi case editrici avevano ridotto il loro interesse a pubblicarli.

Le novità degli anni Novanta 

Tuttavia a metà degli anni Novanta, grazie ad alcune iniziative lungimiranti e ancora attive, come il premio letterario Exs&tra, e alle prime riviste dedicate a tali autori, come «El-Ghibli», e all’impegno di piccole case editrici specializzate, come Edizioni dell’Arco, Fara, Tracce diverse, vengono date nuove opportunità a questo straordinario serbatoio creativo. Si avvia, così, una seconda fase, definita della scrittura solista.

Questa fase è più innovativa per quel che riguarda l’uso della lingua italiana da parte di molti scrittori migranti. Infatti essi non solo applicano più cura per averne il pieno possesso, ma anche creano sempre più spesso una lingua meticcia, che porta con sé i suoni, i colori, le immagini, gli archetipi del proprio paese di origine fusi con la cultura e quindi la lingua adottiva. L’italiano d’altronde si presenta spesso come una lingua amica e neutra rispetto all’inglese, al francese, allo spagnolo o al portoghese, che sono stati gli idiomi dei colonizzatori.

Si sono coniati nuovi termini letterari, come il portulano (miscuglio di portoghese e italiano) per i testi di Christiana De Caldas Brito oppure l’itaniolo (miscuglio di sudamericano e italiano), documentato nei testi di Sabatino Annecchiarico e di Milton Fernàndez. Inoltre un tratto comune a gran parte di questa produzione è l’importanza dell’oralità. Il racconto scaturisce come fosse espressione di cantastorie (griot) venuti da lontano. Sono significativi in questo senso i testi dei senegalesi Mohamed Ba e Mbacke Gadji.

Le nuove generazioni di autori 

La terza fase è quella della letteratura di seconda e terza generazione. E’ costituita dai testi dei figli o dei nipoti di immigrati arrivati in Italia durante gli anni settanta e ottanta del secolo scorso; è realizzata quindi per la maggior parte da autori e autrici nati nel nostro paese, o che hanno frequentato scuole italiane, hanno vissuto stabilmente in un contesto italiano, assimilandone appieno la cultura. Essi oggi hanno a disposizione anche il web per far conoscere più diffusamente il loro storytelling in italiano: un esempio fra tanti è la rivista online diretta da Silvia Morgana dell’Università degli Studi di Milano (Italiano lingua due).

Come nel settore dei prodotti multietnici di un ben fornito ipermercato dei nostri tempi, il lettore potrà farsi allettare dalle movimentate, spesso divertenti trame da romanzo giallo dell’algerino Amara Lakhous (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, 2006; Divorzio all’islamica a viale Marconi, 2010; Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, 2013; La zingarata della verginella di Ormea, 2014; tutti editi da e/o). Quest’autore rappresenta l’incontro/scontro di due mondi: quello italiano che è come se si potesse vedere in uno specchio lievemente deformante e buffo e non soltanto narcisistico; quello degli stranieri che si specchia per mettere a nudo le proprie speranze, ma anche le proprie ansie e preoccupazioni.

Oppure si potranno ritrovare i profumi intensi e accattivanti del sengibil (zenzero) somalo nello stile forte e visionario dell’ultimo romanzo di Igiaba Scego (Adua, 2015, edito da Giunti). Il libro parte da quello che è stato il colonialismo italiano e la Somalia dagli anni ’30 agli anni ’70 e arriva a tratteggiare la condizione del migrante dei nostri giorni. L’autrice in un’intervista dice di essersi interrogata su cosa succede ai corpi quando vengono attraversati da una storia, anche violenta, come può essere il colonialismo, ma anche tutta la parte post-coloniale, e quindi su tutti quegli stereotipi e quei razzismi che non sono stati ancora disinnescati.

Amiche per la pelle (edito nel 2007 da e/o) dell’indiana Laila Wadia, trapiantata, ventenne, a Trieste, ha la sottigliezza e delicatezza del chapati. La scrittura è a tratti ironica e autoironica e fa riflettere sull’integrazione possibile anzi necessaria fra italiani e stranieri. Lo stile della Wadia si nutre di esperienze, di conoscenze e di tradizioni derivate dal suo passato ma filtrate attraverso la nuova vita e cultura che ha scelto di sperimentare pienamente come residente in Italia (suggerisco, a questo proposito, anche il suo gustoso Come diventare italiani in 24 ore); è in grado così di dar voce a un coro soprattutto di personaggi femminili nella sua stessa condizione, che si sforzano di integrarsi senza però rinunciare del tutto alle proprie origini.

Infine le saghe familiari di Anilda Ibrahimi (Rosso come una sposa, 2008; L’amore e gli stracci del tempo, 2009; Non c’è dolcezza, 2012; tutte pubblicate da Einaudi) hanno il sapore evocativo e provocatorio del raki albanese. La narrazione attinge a valori sociologici e antropologici per noi inediti, permettendoci di accostare una cultura e un popolo ai nostri confini al di fuori degli schemi correnti.

Leggere l’immigrazione con occhi diversi 

Dunque già con queste poche note si dovrebbe riuscire ad avere dell’immigrazione una prospettiva del tutto nuova. Essa non consiste soltanto nell’emergenza continua con cui ci assillano i mass media, martellandoci con la cronaca di carrette del mare alla deriva, di scafisti senza scrupoli, o di fatti di sangue efferati.

Anche nel nostro paese, terra di continui sbarchi e di approdi disperati, ponte di transito verso l’Europa, ha attecchito una letteratura meticcia (del métissage, come si usa definirla Oltralpe), una narrativa cosiddetta migrante che porta una ventata di novità e di freschezza nel nostro panorama di lettori: una narrativa, ripeto, prodotta da autori stranieri trapiantati in Italia che hanno voluto cimentarsi, amandola, nella lingua di Dante.

Scrittori e scrittrici che, anche con la penna, vogliono dimostrare che l’immigrato non offre solamente braccia per pulire case, assistere anziani o costruire palazzi, ma può anche con quelle stesse mani consegnarci storie che vengono da lontano, storie di marginalità, di sofferenza, di rivolta, di amicizia, di oppressione che ci aiutano a capire una realtà multietnica a cui spesso dedichiamo uno sguardo distratto.