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Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca (Annette Dumbach, Jud Newborn, Lindau, 2019)

Diciannove

Venerdì, il giorno dopo l’arresto, la famiglia Scholl ricevette la terribile notizia. Furono tre amici a chiamare, Traute Lafrenz, Otl Aicher e Jürgen Wittenstein; non c’era alcun dubbio su quanto fosse grave la situazione. Werner, il figlio più giovane, si trovava per caso in licenza dai suoi genitori. Gli Scholl scoprirono che non erano ammessi visitatori al quartier generale della Gestapo durante il fine settimana; avrebbero dovuto resistere sabato e domenica a casa a Ulm. Progettarono, allora, di partire per Monaco lunedì mattina di buon ora.

Lunedì, 22 febbraio, alle sette, i tre detenuti furono prelevati nelle celle. Else Gebel riuscì a stento a controllarsi mentre diceva addio a Sophie, che invece restò calma. Più tardi Else tornò nella cella vuota per raccogliere le sue cose; sul letto ben rifatto di Sophie c’era un foglio di carta: era l’atto di incriminazione. Sul retro, Sophie aveva scritto una sola parola: «Libertà!».

Sulle bianche pareti nude della cella di Hans furono trovate invece delle parole scritte a matita: «Sempre resistere / alle forze contrarie / mai piegarsi», la citazione di Goethe preferita da suo padre.

Intorno alle nove, gli ufficiali della Gestapo portarono i tre prigionieri al palazzo di Giustizia, un enorme edificio grigio situato a diversi isolati dalla stazione centrale di Monaco, terribile alla sola
vista.

Che un processo si tenesse così presto dopo l’arrresto e gli interrogatori degli imputati era un fatto eccezionale, ma d’altra parte non si trattava di un caso locale. Himmler in persona, a Berlino, aveva deciso le modalità del procedimento giudiziario. Il primo obiettivo era quello di intimidire tutti gli studenti affinché si tenessero lontani dalla resistenza; erano state prese in considerazione varie opzioni su come far arrivare questo messaggio in modo crudo e clamoroso. Il gauleiter di Monaco voleva che i tre studenti fossero impiccati pubblicamente a Marienplatz, la piazza centrale di Monaco. Un’altra idea era quella di impiccarli di fronte all’università. Himmler rifiutò entrambe le proposte, temendo che un’esecuzione pubblica sarebbe stata inutilmente provocatoria e avrebbe dato luogo a ulteriori dimostrazioni. Le esecuzioni avrebbero avuto luogo entro poco tempo e non in pubblico.

Il processo, presso il Tribunale del Popolo, doveva seguire tutte le procedure previste dalla legge, ma sull’esito non v’era alcun dubbio.

L’aula era piena di persone, ma erano solo «invitati», quasi tutti in uniformi nere o marroni. Non c’era nessun membro delle famiglie dei processati; non erano stati informati ufficialmente né degli arresti né del processo.

Il giudice che presiedeva la corte, Roland Freisler, apparve con una toga scarlatta, luccicante e svolazzante. Gli altri giudici presero posto su una lunga panca ai lati di Freisler; rappresentavano il ministero della Giustizia bavarese, le SS e le SA. Appeso al muro alle loro spalle c’era un ritratto di Adolf Hitler.

Roland Freisler, nella storia disgustosa del Terzo Reich, è una delle figure più ripugnanti. La sua vicenda personale è alquanto bizzarra ed è difficile capire se i suoi ondeggiamenti ideologici fossero di natura opportunistica o se fossero motivati, almeno parzialmente, da quei bruschi mutamenti di opinione spesso tipici di chi crede veramente in qualcosa. Da giovane, durante la prima guerra mondiale, Freisler era stato prigioniero di guerra in Russia. Lì aveva imparato a parlare correntemente il russo e, a quanto pare, divenne un convinto bolscevico. Fece ritorno in Germania dopo la fine della guerra e nel 1925 era un fanatico sostenitore del nazionalsocialismo. Rimase però un grande ammiratore del terroe staliniano e studiò le strategie che Andrei Vishinsky usava nel suo lavoro di pubblico ministero nei famigerati processi che si svolsero a Mosca negli anni ’30. Hitler definiva Freisler «il nostro Vishinsky», ma si sbagliava. Freisler non mise mai in ginocchio i cospiratori sotto accusa – generali, studenti, professori, avvocati –, essi non confessavano mai la loro «colpevolezza», non pregavano di essere reintegrati nella comunità del Volk. Nella Germania nazista, la «riabilitazione» non precedeva l’esecuzione. In confronto a quella di Vishinsky, la tecnica di Freisler era un fallimento totale.

Quel lunedì mattina i tre studenti incriminati sedevano a lato dello scranno del giudice, affiancati ognuno da due guardie. Erano pallidi ed esausti, ma stavano ben dritti sulle sedie.

Il processo iniziò alle dieci. Hans, Sophie e Christoph furono accusati di favoreggiamento e istigazione del nemico nonché di alto tradimento. La pubblica accusa chiese la morte.

Sembrava impossibile credere alla serie di accuse, imprecazioni, attacchi e insulti che Freisler lanciò violentemente contro di loro. Sembrava aver perso il controllo di sé ma questo era il suo stile da quando era diventato il «giudice boia» di Hitler. Era come se provasse piacere a dar sfogo a quella sorta di demenza, che si accendeva e si spegneva senza preavviso. Silenzio e terrore dominavano l’aula; quell’uomo folle vestito di rosso sgargiante poteva fare tutto quello che voleva – e tutti lo sapevano.

Gridava, sbraitava, faceva con le braccia avvolte nelle ampie maniche della toga gesti inconsulti nell’aria; difensori e accusatori rimanevano ammutoliti. Furono introdotte le prove: i volantini, il ciclostile, la vernice e le matrici per i graffiti sui muri. Tre testimoni per l’accusa erano pronti e aspettavano di essere chiamati: gli agenti degli interrogatori, Mohr e Mahler, nonché l’eroe del giorno, Jakob Schmid, che aveva già ricevuto una ricompensa di 3.000 marchi e una promozione.

Tuttavia non furono chiamati: non ce n’era bisogno. I tre imputati avevano già confessato. Freisler andò avanti con la sua invettiva. Una giovane voce cercò di contestarlo. Era Sophie Scholl. «Qualcuno doveva farlo. Ciò che abbiamo detto e scritto è quello che pensano molte persone; solo non osano dirlo a voce alta!»

Il procedimento andava verso la sua conclusione. A ogni prigioniero fu permesso – in conformità con la procedura – di fare un’utlima dichiarazione. Sophie e Hans scelsero il silenzio.

Christoph Probst si alzò in piedi e spiegò che quello che aveva fatto lo aveva fatto per il bene del suo paese. Il suo unico desiderio era di porre fine allo spargimento di sangue e di risparmiare alla Germania l’agonia di nuove Stalingrado. Il pubblico gli urlò la sua indignazione; gli piombarono addosso ingiurie e offese da tutte le parti. Freisler sbottò violentemente alla proposta di Christoph di rivolgersi al presidente Roosevelt; quel nome fu sufficiente a provocare un altro scoppio di ira e urla anche tra i presenti. Christoph rimase calmo e guardò dritto di fronte a sé finché quel tumulto non si placò.

Poi chiese clemenza, per la sua vita, per sua moglie, che era malata, e per i suoi tre bambini.

Le sue parole furono accolte da un silenzio di tomba. All’improvviso, Hans prese la parola: disse che Christoph non aveva nulla a che fare con i volantini, e che avrebbe dovuto essere trattato con indulgenza.

Freisler gli gridò contro: «Se non ha nulla da dire riguardo alla sua situazione, allora tenga la bocca chiusa!».

Era giunta l’ora del verdetto. Ci fu un tramestio improvviso all’ingresso dell’aula, si udì un vociferare, delle urla, della confusione.

Robert e Magdalena Scholl erano arrivati insieme a Werner. Avevano preso il primo treno da Ulm ed erano stati accolti alla stazione da un disperato Jürgen Wittenstein, che disse loro che il processo era già in corso.

La signora Scholl guardò Jürgen in faccia e chiese: «Moriranno?».

Jürgen fece cenno di sì col capo, quasi piangendo. «Se avessi una tanica di benzina», gridò, «darei fuoco al tribunale e porterei i ragazzi al confine!».

Corsero tutti al palazzo di Giustizia.

Robert Scholl si fece strada con la forza tra le guardie all’ingresso e si precipitò lungo il corridoio, mentre gli altri lo seguivano. In qualche modo riuscì a raggiungere l’avvocato difensore dei suoi figli. Gli disse sottovoce, ma duramente, nell’orecchio: «Vada dal presidente e gli dica che il padre degli imputati è qui per difendere i suoi figli!».

L’avvocato rimase sbalordito e fece come il signor Scholl gli aveva detto. Nell’aula la gente bisbigliava e faceva confusione. Freisler sembrava perplesso; aspettava una spiegazione. L’avvocato della difesa si fece strada verso il palco e sussurrò la richiesta di Scholl nel suo orecchio.

Il giudice fece un ampio e teatrale gesto di rifiuto, gridando con quanto fiato aveva in corpo, e poi, indicando Robert Scholl, ordinò che fosse cacciato via dall’aula. Le guardie circondarono tutta la famiglia e la trascinarono fuori. La signora Scholl ebbe un momento di cedimento, ma riuscì a riprendersi.

Robert Scholl gridò: «Esiste una giustizia più alta!». E, mentre le porte venivano richiuse, aggiunse: «Quei ragazzi passeranno alla storia!».

Il signore e la signora Scholl, insieme al figlio Werner, furono lasciati soli, in un cortile interno nei pressi dell’aula.

Poco tempo dopo i presenti uscirono a fiotti dall’aula; Freisler e i suoi colleghi si erano ritirati per decidere il verdetto. Gli Scholl si sedettero su una panchina, ad aspettare; gli altri si comportavano come se loro fossero invisibili – tranne un giovane studente di legge: Leo Samberger. Questi aveva ricevuto i volantini della Rosa Bianca nella posta, era riuscito a entrare in tribunale e aveva assistito al processo con crescente orrore. Si avvicinò alla famiglia, si presentò e consigliò agli Scholl di presentare una richiesta ufficiale di clemenza. Era l’ultima possibilità che avevano.

La folla rientrò in aula per la lettura della sentenza. Gli Scholl aspettarono fuori. Pochi minuti dopo le porte si riaprirono. Lo lessero sul volto di tutti: i loro figli erano stati condannati a morte. Hans non aveva detto nulla in sua difesa durante il processo, ma quando Freisler aveva letto la sentenza di morte, gridò: «Presto ci sarete voi dove siamo noi ora!». Fu ammanettato, insieme a Sophie e Christoph, e scortato fuori dall’aula. Werner Scholl, che era in uniforme, riuscì a farsi largo tra la folla. Voleva stringere loro le mani, con gli occhi pieni di lacrime. Hans riuscì ad allungare una mano e a toccarlo, e gli disse in un sussurrro: «Sii forte, nessun compromesso».

I condannati furono fatti salire su un furgone della polizia e portati alla prigione di Stadelheim, dove aveva luogo la maggior parte delle esecuzioni decise a Monaco. Procedeva tutto velocemente, troppo velocemente, per poter essere compreso fino in fondo.

Insieme a Leo Samberger, gli Scholl andarono nell’ufficio del pubblico ministero e presentarono una richiesta di clemenza per i loro figli e per Christoph. Poi si diressero a Stadelheim il più in fretta possibile: Monaco era una città che non conoscevano bene.

Robert Scholl riuscì a ottenere il permesso di entrare nella prigione insieme alla sua famiglia. Forse fu la prima e unica eccezione fatta a Stadelheim: ai condannati non era consentito ricevere visite. A
quanto pare, in prigione s’era sparsa la voce su come si erano comportati i giovani studenti nelle mani della Gestapo e durante quel processo infame. Il personale del carcere li ammirava; gli impiegati non erano membri delle SS o della Gestapo; si consideravano «normali funzionari statali» che eseguivano compiti sgradevoli, a prescindere da quale regime fosse al potere.

Considerando quello che il personale di Stadelheim aveva visto e fatto nel corso degli anni, è quasi un miracolo che i membri della Rosa Bianca fossero riusciti a toccare il loro cuore. Le guardie infransero le regole: fecero uscire Hans dalla sua cella e lo portarono nella sala delle visite dove l’attendeva la sua famiglia. Gli avevano già fatto indossare l’uniforme a strisce da carcerato; il suo viso era smunto e scarno. Strinse le mani a tutti oltre la sbarra che li separava, e rassicurò i genitori dicendo loro che non provava odio, che s’era lasciato «tutto» alle spalle. Suo padre lo abbracciò, dicendogli che sarebbe passato alla storia e che c’era ancora giustizia nel mondo. Hans doveva essere portato via, disse di salutargli gli amici. Quando pronunciò un nome, gli occhi gli si riempirono di lacrime; si voltò tentando di controllarsi.

Lasciò che le guardie lo portassero via.

Poi arrivò Sophie. Indossava ancora i suoi abiti – giaccia, camicetta e gonna. Sorrideva. Sembrava più piccola, ma aveva la pelle fresca e luminosa. Accettò i dolci che la madre aveva portato – Hans li aveva rifiutati – dicendo che aveva fame, che non aveva mangiato nulla.

«Sophie, Sophie», disse la signora Scholl, «ora, dunque, non entrerai mai più da quella porta».

«Oh, mamma»», rispose, sorridendo, «che cosa sono pochi anni».

«Penserai a Gesù, vero Sophie?», chiese la madre.

«Sì, fallo anche tu», replicò lei. Poi venne portata via.

Robert Mohr la trovò che piangeva nella sala dei visitatori.

Christoph Probst era diventato cattolico con gli anni. Non era mai stato battezzato, e ora, nella cella della morte, chiese di vedere un prete. Quando il sacerdote arrivò, parlarono per un po’ e pregarono insieme; poi si inginocchiarono davanti a un tavolino che fungeva da altare. Christoph Probst ricevette la sua prima comunione.

Hans e Sophie pregarono con il cappellano protestante e lessero alcuni dei loro salmi preferiti nelle loro celle. Entrambi ricevettero la comunione.

All’improvviso le porte delle loro celle vennero aperte. Furono ammanettati e portati fuori. Nell’atrio, vicino a una porta che conduceva nel cortile, si ritrovarono tutti insieme, senza alcuna guardia tra loro. Ancora una volta furono infrante le regole. «Prendete, fumatevi una sigaretta», disse qualcuno sottovoce.

Rimasero lì in piedi a fumare in silenzio. Poi Christoph disse: «Non pensavo che potesse essere così facile morire».

La porta che dava sul cortile venne aperta. Dall’altra parte c’era una piccola costruzione, al cui interno c’era la ghigliottina. Sophie fu la prima. Camminò eretta attraverso il cortile, scortata dalle guardie.

Entrò. Erano le cinque del pomeriggio. Erano trascorse tre ore dalla conclusione del processo. Si udì un rumore sordo. Era finita.

Quando toccò a lui, Hans attraversò il cortile a passo svelto e, prima di arrivare alla porta, si voltò e gridò in modo che la sua voce potesse raggiungere le finestre sprangate: «Evviva la libertà!».