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Piero Gelli, testimone dell’editoria italiana

Credo che Piero Gelli fosse rimasto il solo, al di fuori della famiglia, a vedere ancora in vita Livio Garzanti: “Capitava che mi affacciassi. Vede questo galletto nel piatto? Si era ridotto così. Ristretto. Stranamente mitopoietico nel suo modo di volgersi al passato. Sospettavo che fosse perfino diventato buono. L’ultima volta che lo incontrai con la voce ormai spenta disse: ma lei perché ha tanti amici e io nessuno? E ho ripensato alla sua vita. Al suo carattere sgradevole, asociale, dissonante. Mi veniva in mente André Gide, un uomo animato da pulsioni contrarie”.

Nel ristorante romano dove sediamo le voci e i rumori creano un sottofondo di distrazione. Gelli socchiude gli occhi e la voce, intimamente fiorentina, lancia qualche amo nel passato: “Non distante da qui c’era un tempo l’Augustea. Un giorno con Garzanti vi incontrammo Pasolini. Nessuno poteva immaginare che di lì a poco sarebbe morto”.

Perché vi vedeste?

“Fu una specie di chiarimento. Tutto ebbe origine da un telegramma nel quale Pasolini chiedeva spiegazioni su uno scrittore che la casa editrice aveva deciso di pubblicare. Il tono sembrava ultimativo: mi dica se è vero che ha preso un autore a me inviso”.

Chi era?

“Alberto Bevilacqua. Organizzai il pranzo all’Augustea per smussare le posizioni. Per nulla preoccupato Garzanti sembrava un felino pronto ad attaccare. Pasolini parlò dello stile di una casa editrice, delle scelte coerenti e degli autori che la compongono. Garzanti ascoltava. Poi, improvvisamente lo interruppe: “Lei ora è diventato soprattutto un cineasta. Non faccio film, ma libri. Ci lasci l’opportunità di pubblicare anche altro. Anche ciò che non le piace”. Poi restò in silenzio. Capii che il divorzio si stava consumando. Era consumato. E a quel punto avrebbero parlato le carte, i documenti, i contratti. Ma c’era una cosa che non potevamo prevedere”.

La morte di Pasolini?

“Sì, sarebbe avvenuta due mesi dopo quell’incontro. Era il 1975. Chi poteva immaginare che da quella morte violenta la casa editrice avrebbe ristampato non so quante volte i suoi libri. Ricavandone profitti impensabili. Le racconto questo non per qualche forma di cinismo. Ma perché sono sempre più convinto che la nostra vita è governata dal caso. Fin dalle origini, dal posto in cui nasci”.

Dove è nato?

“A Sesto Fiorentino. L’ottanta per cento della popolazione era composta di comunisti tosti. Mio padre apparteneva al rimanente venti per cento. Era segretario della Democrazia cristiana di Sesto. Nel 1948 ci fu l’attentato a Togliatti. Vennero a centinaia sotto casa nostra. Minacciosi. Urlanti. Non ho mai visto mio padre così terrorizzato”.

A parte occuparsi di politica cosa faceva?

“Avevamo una piccola industria. Erano gli anni a ridosso del boom. Le fabbrichette crescevano tutte intorno alla Richard-Ginori e all’Arrigoni. C’era un teatro ottocentesco e una biblioteca circolante che apriva il giovedì e la domenica. Qui, fino a quindici anni, ho sperimentato le prime passioni: Dostoevskij, Tolstoj, ovvio, il Proust telato dell’Einaudi, Pirandello, Moravia, e tutti gli altri, ma soprattutto Gide. Questa biblioteca esiste ancor oggi, è bellissima rinnovata e intitolata a Ernesto Ragionieri che fu mio professore di Storia contemporanea alla facoltà di lettere”.

Si respirava ancora l’aria pratoliniana?

“Pratolini, in quegli anni, era diventato demodé, Metello suonava già barlaccio anche presso i più irriducibili neorealisti-marxisti”.

“Barlaccio”?

“Sì, stantio, marcio, alterato nella forma come nella sostanza “.

I romanzi degenerano rapidamente?

“Dipende. Se sono protetti dallo scudo ideologico è facile coglierne i limiti. La grande letteratura non ammette scorciatoie”.

Lei ha studiato filologia?

“Ho fatto l’università a Firenze. Fu una stagione forse irripetibile. Vi insegnavano Cantimori, Contini, Garin. Ma devo dire che il terreno fu fecondato già prima. Quando ormai quindicenne le mie giornate e nottate divennero fiorentine. Fu la scoperta del cinema e della musica a segnare quel periodo”.

Cosa vedeva?

“Tanti film, quasi tutti i giorni: i primi Fellini, i Visconti, Hitchcock, i francesi, Clouzot, Autant-Lara, Clement. E poi l’opera, la Callas ancora grassa, ne I Puritani, diretta da Tullio Serafin. La fanciulla del West diretta da Mitropoulos e regia di Curzio Malaparte, spettacoli memorabili sul duro marmo delle gradinate del Comunale. Molti pomeriggi al Gabinetto Vieusseux, accogliente, piacevole tra la riservatezza e l’umanità di Alessandro Bonsanti: lì capitavano sempre Luzi, Betocchi, Dallapiccola, Bilenchi, prima ancora dell’Università”.

E poi una laurea in filologia?

“Mi sono laureato con Giovanni Nencioni su Carlo Emilio Gadda, che poi ho conosciuto grazie all’amicizia di Giuseppe Bertolucci, ma soprattutto di suo padre Attilio. Furono anni intensi. Ricordo Giacomo Devoto con la sua faccia orientale. Un giorno da una porta della biblioteca di facoltà, allora in piazza San Marco, uscì un vecchietto azzimato con tanto di farfallino; e io: “Ma lei è Umberto D!” E infatti era il glottologo Carlo Battisti, ormai pensionato anche lì come nel film, ma felicissimo che l’avessi riconosciuto. Andavo a trovarlo spesso, in quel primo anno di università. Mi era talmente grato che mi regalò i cinque volumi del suo Dizionario Etimologico Italiano che conservo ancora adesso. Da qui è nato il mio interesse per la glottologia e filologia, poi lo strutturalismo, e anche il mio amore per Gadda”.

Che ha conosciuto bene?

“Direi di sì. Venni a Roma, abitava in via Blumenstihl. Mi fermai alcuni giorni. Discutemmo di tutto. A pranzo si andava in una trattoria non lontano dall’abitazione. Gadda era visibilmente preoccupato che io mi accollassi le spese del soggiorno. Pretese di passarmi del contante con mi sarei pagato il soggiorno di quella straordinaria settimana”.

Si è molto insistito sulla sua timidezza, al limite del patologico.

“Era imbranato e profondamente convinto che un gesto poco convenzionale avrebbe prodotto catastrofi ingovernabili. Esigeva che il suo ordine mentale fosse al riparo dall’imprevisto. Tanto la sua lingua era ricca di invenzione e vitalità quanto la sua vita doveva essere povera di eventi”.

In fondo non gli si riconoscono passioni e storie.

“Si è molto malignato sulla sessualità di Gadda. Sandro Penna si spinse a dire che insieme si appostavano nei vespasiani in attesa dei militari. Falso. Semmai era Penna aduso a queste pratiche. Sono convinto che Gadda per tutta la vita restò vergine. Non mi chieda perché. Ma non lo vedo lasciarsi coinvolgere da una donna né tanto meno da un uomo. Fu un personaggio straordinario dotato di una disciplina nevrotica e divorato dai limiti mentali che seppe imporsi”.

In che misura questi limiti agirono sulla sua scrittura?

“La grandezza di Gadda è stata di aggirare in letteratura quei limiti. O servirsene come fondo oscuro di nevrosi capace di alimentare la sua creatività. Ma a un certo punto la vena si inaridì”.

Ossia?

“L’ultima grande cosa fu la riscrittura del Pasticciaccio. Il suo dramma, secondo me, è che quando divenne famoso esaurì la sua forza creativa”.

Si è chiesto perché accade?

“È una questione irrisolvibile. Perché Verdi a ottant’anni scrive il Falstaff e Rossini a 35 è un artista finito, un sopravvissuto? Non ho risposte convincenti”.

Fu Gadda ad aprirle le porte della Garzanti?

“Sì, gli devo anche questo: aver orientato la mia vita nell’editoria. Come giovane esperto di Gadda fui convocato in casa editrice a studiare alcuni inediti dello scrittore. Per tre giorni, era il 14 dicembre del 1969, mi chiusi negli archivi di via Spiga. E scoprii tra le varie cose l’inedito de La Meccanica. Garzanti mi assunse e con qualche intervallo sono rimasto per circa vent’anni al suo fianco”.

Quando dice intervallo a cosa allude?

“Ho trascorso un periodo alla Rizzoli. Tutt’altro che glorioso. Si era in piena P2. Tassan Din ero il vero capo, il referente di Licio Gelli. Con il cognome che avevo molti pensavano a una parentela. Ovviamente inesistente. Ricordo che all’Excelsior il barman mi serviva un intruglio dentro una flute: lo beva, piace molto a suo zio! Stetti alla Rizzoli dal 1980 all’83. Pubblicavo Ortese, Manganelli. Libri belli che non vendevano. Alla fine mi misero al fianco di Oriana Fallaci”.

Come fu il rapporto?

“Ero un po’ a mezzo servizio. La seguivo nei suoi spostamenti. Andai con lei a Mosca. Voleva assolutamente intervistare Breznev. Non ci riuscì. E per tutto il viaggio di ritorno fu insopportabile. Era odiatissima. A volte da Roma l’accompagnavo nella sua casa in Chianti. Dove c’era il padre ad attenderla. “Babbino caro, come stai?”, chiedeva. Ma anche il padre non la sopportava. Però era una donna straordinaria. Tenace come poche. L’ho amata nonostante la sua villania. Ma non avrei mai più potuto lavorare con lei”.

Perché?

“Troppo stress, troppi ripensamenti, troppi insulti. Quando a un certo punto tornai in Garzanti mi fu, dopo un po’ di tempo, offerta la possibilità di andare a lavorare da Einaudi o tornare alla Rizzoli. Oriana mi telefonò chiedendomi di tornare. Stava scrivendo Insciallah. Non avevo alcuna voglia di seguirla in questa nuova e faticosa avventura. Scelsi Einaudi”.

Chi l’aveva chiamata?

“Alessandro Dalai che era il direttore amministrativo e nipote di Oreste Del Buono”.

Che clima trovò?

“Non buono. C’era in atto uno scontro tra Giulio Einaudi e Dalai. Tra due concezioni. Una ancora legata al passato, al suo editore e alla figura di Roberto Cerati e l’altra che tentava il fatidico svecchiamento. Da direttore editoriale il mio ruolo divenne sempre più marginale. Compresi due cose: l’inutilità dei cosiddetti mercoledì; e il fatto che tutte le vere decisioni venivano prese durante le cene. Alle quali non andavo. Sono stato a Torino dal 1989 al 1993. Realizzai Petrolio di Pasolini. Mi sembrava che quell’autore così importante negli anni di Garzanti tornasse a nuova vita con un romanzo misterioso e incompiuto “.

Che ricordo ha di Sandro Penna?

“Un grande poeta. Lamentoso e malevolo. Si nutriva delle confezioni della Nipiol. Pensavo: ecco un modo curioso di tornare all’infanzia”.

Nel suo mondo tra Firenze e Milano una figura di rilievo fu Franco Fortini. Cosa le fa venire in mente?

“Era coltissimo, vanaglorioso, sospettoso, maldicente, anche divertente per tante sue ubbie. In realtà un uomo insopportabile. Ricordo che una volta gli ho proposto la prefazione, sempre per i grandi libri Garzanti, di un romanzo di Solgenitsyn appena tradotto dalla Olsufieva (che viveva a Firenze), Divisione Cancro. Lui sospettò un tiro mancino politico e al telefono inveì contro la mia ipocrisia. Non ho mai capito però in che cosa sarebbe consistito questo tiro mancino. Una volta mi disse che solo al cattivo gusto dei fiorentini, come Baldacci e me, si deve la fama immeritata di un pessimo scrittore come Tozzi”.

Ha mai pensato di essere scrittore in proprio?

“Mai, soprattutto da quando ho cominciato a lavorare in casa editrice e a leggere inediti o novità estere. Ho pensato talvolta di scrivere sotto pseudonimo un thriller, ma non ne sarei stato capace, non so mantenere un segreto. Forse, se mi resta qualche anno da vivere, prima che la memoria svanisca nella demenza senile, scriverò delle memorie, di persone che vorrei ricordare come le ho conosciute, stimate, amate, come mi sono divertito con loro, un cimitero di nomi ormai, a Firenze, Roma, Milano. Evitando tante sbrodolature vanitose e sentimentaloidi di certi miei colleghi”.

È possibile oggi una definizione dello scrittore?

“Per me, dico per me, uno scrittore vero, non un bellettrista, un autore di narrativa di genere, sta a metà strada tra un profeta o un missionario e un matto”.

Cos’è un intellettuale?

“Nonostante il discredito odierno del termine, un professionista irrequieto, curioso e vago, anzi vagolo o vagotonico “.

Quanto ha pesato in lei la vanità?

“Abbastanza ma non troppo; sono stato per lungo tempo un partigiano delle cose futili”.

Cosa le piace e cosa rifiuta del suo carattere?

“Mi piace di aver scelto la mia strada da solo e di aver trovato in ogni situazione di lavoro e di carriera, anche la più rognosa, la capacità di divertirmi, di vedere anche il lato comico di ciò che accadeva. Di me detesto la trascuratezza, la vaghezza, l’incostanza. Negli altri, tante cose, il rumore, lo sporco, la musica dovunque. Nei colleghi, negli scrittori, nei giornalisti, nei politici, insomma nei cosiddetti intellettuali: la presunzione e l’ignoranza”.

Sono i nostri tempi più veloci o mediocri?

“Più veloci senz’altro, vorrei dirle anche più mediocri se non avessi il sospetto della laudatio temporis acti, tipica di chi sa di essere un sopravvivente”.