Rebecca libri

Tutti i muri sono ricoperti di versi

Marina Cvetaeva chiamò la prima figlia, nata nel 1912, Ariadna. Un nome non russo, come invece avrebbe voluto il padre, e non semplice, come invece avrebbe voluto il nonno. “Ariadna. Ma è un nome che comporta responsabilità”. Appunto!, rispondeva lei nelle sue conversazioni immaginarie, nei taccuini che, assieme alle lettere di tutta la vita, costruiscono un preciso e straziante romanzo del Novecento. Il romanzo autobiografico e quasi involontario di Marina Cvetaeva, poetessa, critica letteraria, madre passata attraverso la Rivoluzione russa, la guerra civile, la solitudine e la povertà: accendere il fuoco con i mobili, i grandi amori incompiuti, la morte di una figlia piccola, le fughe e i ritorni, l’incomprensione del suo genio, scrivere ogni giorno, a qualunque costo, per nessun altro oltre che per sé, e infine morire, impiccandosi a un gancio a cinquant’anni, nonostante la fame di amore e di vita. “Io, credimi, mi sento troppo degna di tutta la bellezza del mondo per sopportare con pazienza ogni destino!”, scriveva a vent’anni, appena diventata madre di Ariadna, la bambina col nome colmo di responsabilità (e l’infanzia, anche), chiamata da tutti Alja.

Marina era piena di passione, di amore per l’amore, leggeva e scriveva e si innamorava. Ma la vita dei giorni la lacerava, la fila delle ore tutte uguali la spegneva, e lei si ribellò trasfigurando quelle ore, rendendole simili alle sue poesie, ma anche versando una verità difficile da sostenere nelle pagine dei taccuini. Nessuno è stato più spietato, a parole, con Marina Cvetaeva, di quanto lo sia stata lei stessa raccontando la vita e la morte della sua seconda figlia, Irina, in un orfanatrofio di Mosca, da sola, a tre anni (“Storia della vita e della morte di Irina: A un piccolo bambino è mancato al mondo l’amore”). E’ qui dentro la vera storia della Rivoluzione, la terribile storia del Novecento, ed è anche la storia di una donna geniale, totalmente libera e folle, appassionata, moderna, rigorosa, disordinata, capace di rifiutare, sola, ogni ideologia, di odiare senza nasconderlo la disumanità violenta del comunismo. E’ il romanzo di una madre difficile, perfino spaventosa: madre giovane, figlia di una madre morta giovane (Marina le chiese chi fosse Napoleone, la madre si arrabbiò: “Hai sei anni e non sai chi è Napoleone?”, “Come potrei saperlo? Nessuno me l’ha mai detto!”, “Queste cose si sanno e basta!”), madre che si sentiva destinata a tutta la bellezza del mondo e pretendeva dalle figlie altrettanta bellezza e bravura. Voleva delle confidenti, voleva degli specchi della propria straordinarietà, voleva una minuscola interlocutrice a cui mandare lettere e versi. Voleva amare ed essere amata dai suoi figli nel modo speciale dei poeti, chiedeva loro l’adorazione, l’affinità e il sostegno dell’anima. “Che amiche io e te! / Che orfane io e te!”, scrisse in una poesia del 1918 dedicata alla prima figlia, Alja, che a quattro anni sapeva leggere, e nella mansarda sporca e gelata dove viveva con la madre e la sorella minore Irina teneva un diario e scriveva versi, cercando l’approvazione, lo stupore e la gioia di Marina: Marina in mezzo alle macerie dei mobili le spiegava la differenza tra concetto e incarnazione, e la bambina (sei anni), dopo aver ascoltato attentamente, con una vocina acuta e dolce le faceva esempi: la Musica è il Concetto, la Voce è l’Incarnazione, il Coraggio è il Concetto, l’Impresa è l’Incarnazione, “Marina – che strano, l’Impresa è il Concetto, l’Eroe l’Incarnazione”.

Queste immagini fatte di parole sconvolgenti sono arrivate qui soprattutto grazie a Serena Vitale, la più importante slavista italiana, che ha tradotto le lettere di Marina Cvetaeva, pubblicandole per Adelphi in due volumi preziosi (“Il paese dell’anima” e “Deserti luoghi”), in fondo ai quali ci sono note magnifiche che raccontano la storia, raccolgono altri punti di vista su Marina, restituiscono il personaggio, il paesaggio, il dolore e la febbre dello scrittore che Marina Cvetaeva ebbe per tutta la vita, e che talvolta le impedì di vedere le cose come erano: la fame di sua figlia Irina, ad esempio, il bisogno semplice d’amore. Marina aveva già pubblicato raccolte di poesie, a Mosca era conosciuta, ma adesso era povera e sola. “Vivo con Alja e Irina (Alja ha sei anni, Irina due anni e sette mesi) nel vicolo di Boris e Gleb, di fronte a due alberi. Niente farina, niente pane, sotto lo scrittoio 12 funt circa di patate, avanzo del pud ‘imprestato’ dai vicini – tutte le nostre scorte!”, scrive nei taccuini che Voland ha ripubblicato di recente, a cura di Pina Napolitano. Quattro anni di stenti, senza notizie del marito, vent’anni come lei, arruolato nell’Armata Bianca (“tutto in casa si è gelato, tranne l’anima”), con i vestiti logori, pozzanghere sul pavimento e polvere di segatura e la speranza che qualcuno regali un po’ di zuppa (questa è la verità dei giorni di molti, non è la trasfigurazione). Una madre di vent’anni affamata di tutta la bellezza del mondo con addosso un unico vestito marrone dentro una mansarda dove l’acqua diventava ghiaccio e dove lei e la figlia più grande scrivono versi sui muri e parlano di balli, di Incarnazione e siedono al tavolo ogni giorno, si scambiano lettere, leggono, studiano, aspettano visite, mentre l’altra bambina, più piccola, e secondo Marina ritardata, dorme o si lamenta legata alla sedia (“Ho cominciato a legarla da quando una volta, in assenza mia e di Alja, ha mangiato dalla credenza mezza testa di cavolo crudo”).

Marina Cvetaeva annota questi dettagli nel suo taccuino, e c’è qualcosa che immediatamente stride con il tentativo eroico di far sembrare bella e poetica quella povertà, con la forza pazzesca di dire, in mezzo a descrizioni di braci e bacinelle e elemosina: “Non ho annotato la cosa più importante: l’allegria, l’acutezza del pensiero, la gioia per ogni minimo successo, i progetti di lavori teatrali – tutti i muri sono ricoperti di versi”, la vita dell’anima insomma, sua e di Alja, e l’indifferenza, anzi il fastidio per l’anima di Irina, bambina piccola e affamata che nessuno prende mai in braccio, alla quale Alja getta addosso una coperta, dalla testa ai piedi, e poi grida: “Guardate, Marina! Una piramide furiosa!”, e Marina va in estasi per l’intelligenza di Alja, non corre a consolare la paura, la piccolezza spaventata di Irina. C’è una foto di Irina, nei taccuini di Voland, ed è la foto di una bambina bellissima, nel 1919, pochi mesi prima di morire di stenti, ha gli occhi scuri, non trasparenti come quelli di Marina. Lei era infastidita perché Irina non parlava bene: aveva due anni, era in ritardo, si dondolava tutto il giorno, cantilenando, nessuno la cullava, Alja la disprezzava perché sporcava sempre il letto già sporco, Marina dava ad Alja una focaccia, quando l’aveva, a Irina una patata. Per un periodo l’aveva affidata a una cognata, in campagna: “Quando l’ho portata a vivere con me era debolissima e malata, dormiva tutto il tempo, non riusciva a reggersi sulle gambine. In tre mesi era diventata irriconoscibile: parlava, camminava. Godevo della sua presenza, della sua vita, dei suoi progressi”, scrisse Lilja Efron in una lettera al marito di Marina. Avrebbe voluto tenerla con sé per sempre, ma Marina andò a riprenderla, e quello stesso inverno, sperando che avrebbero avuto pane e cioccolata e fuoco per scaldarsi, mise Irina e Alja in un orfanatrofio a Mosca.

Non si può dire che abbandonò le sue figlie per scrivere versi e “vorticare a vanvera” per la città in cerca di cibo e di innamoramenti. Si disperava per le bambine (soprattutto per “la bambina”), andò a trovarle più volte e tornò sconvolta dalle loro condizioni (le teste rasate, lo sporco, il freddo, le lacrime), scriveva lettere appassionate ad Alja, e infine la riportò a casa. Ma lasciò Irina, la bambina più piccola, che già stava molto male, e sbatteva la testa sul pavimento. Sono pagine terribili, le pagine del taccuino di quell’inverno.

Sembra che Marina, in preda all’esaltazione per quella condizione estrema, non si accorga dell’esistenza, oltre che della sofferenza, di Irina. Lei è abituata ad amare gli assenti (il marito, gli altri uomini a cui scrive lettere d’amore, Boris Pasternak, le figlie), perché l’assenza è il paese dell’anima e una poetessa vive soprattutto dentro l’anima, ma non si accorge quasi mai dell’assenza di Irina (“una creatura senza futuro”). Quando decide di mandare le bambine all’orfanatrofio, scrive di Alja: “Ha trascorso gli ultimi giorni a scrivermi una lettera sul quaderno, mentre io cercavo di farla mangiare meglio, bidonando apertamente e senza scrupolo Irina”. La mattina della partenza, dice ad Alja: “Alja, capisci, è tutto un gioco. Giochi a fare l’orfana. Capisci che cosa incredibile?”, “Oh Marina!”, “E’ un’avventura, la grande avventura della tua infanzia. Capisci, Alja?”. Alja dall’orfanatrofio scriveva lettere amorose e disperate a sua madre, aveva il terrore che le strappassero di mano il taccuino e si lamentava per il chiasso dei lamenti di Irina, che piangeva e si sporcava per una continua dissenteria. Ma questo lo capiamo noi, che leggiamo: Marina no, pensava soltanto che Irina fosse ottusa (“come se avesse la testa chiusa con un tappo”), e desiderava che anche gli altri dicessero che era ritardata, per sentirsi libera di ignorarla.

“Non pensavo minimamente alla sua morte”, scrive dopo la sua morte, e durante la sua vita scrive: “Vado a trovare Alja in orfanatrofio”, annotando soltanto che “nello stretto tramezzo tra la scala e la parete – Irina sbatte con rabbia la testa sul pavimento”. Marina Cvetaeva, che si innamorava di tutto, che si consegnava totalmente al primo che passava per strada, che scrisse: “Scusate l’Amore” e per l’amore e le parole e la bellezza visse ogni giorno (“Cosa ho amato nelle persone? – Il loro aspetto. Il resto – per lo più – lo facevo combaciare”), non riusciva ad amare sua figlia, perché sua figlia non aveva parole. “Irina non è mai stata per me una realtà, non la conoscevo, non la capivo. E ora mi torna in mente il suo sorriso pudico – così imbarazzato – così raro! – che lei si sforzava subito di reprimere. E come mi accarezzava la testa: “Uàu, uàu, uàu (cara) – e come – quando la prendevo sulle ginocchia (una decina di volte in tutta la sua vita) – rideva”. La vita e la morte di Irina sono state atroci, e Marina non è andata nemmeno al suo funerale: non poteva, l’altra figlia aveva la malaria e 40 di febbre. E’ tutto così irreale, è come se quella bambina non fosse mai davvero esistita. Magari quella bambina è esistita più per sua sorella, che l’aveva accanto in orfanatrofio, che ascoltava i suoi pianti e, lei stessa bambina, non sapeva consolarli, e li trovava fastidiosi.

“Amici miei! Ho un grande dolore: all’asilo, il 3 febbraio, quattro giorni fa, è morta Irina. E la colpa è mia”, scrive Marina in una lettera ad amici cari. Scrive: la colpa è mia, ma subito cerca di giustificarsi, dice che si torturava tutto il tempo per lei. Nei taccuini, invece, c’è la verità: “Irina! Se esiste un cielo, tu sei in cielo, comprendimi e perdonami se sono stata per te una cattiva madre, che non ha saputo superare la sua avversione per la tua natura oscura e incomprensibile”. La natura di una bambina che aveva fame di tutto (“così tanta neve, così poco pane”), come Marina, ma che non ha avuto le parole e il tempo per dirlo. E’ come se, anche nell’amore per i figli, Marina avesse bisogno della seduzione. Di essere avvinta, interessata, corteggiata, compresa. Alja per essere amata da Marina si comportò così per anni, assorbendone la scrittura, i lampi, i sentimenti, cercando di piacerle in ogni modo, elemosinando l’amore di sua madre. A un certo punto, però, verso i dieci anni, Alja si allontanò da Marina, e Marina soffrì terribilmente perché si accorse che la figlia accanto a lei era infelice, lontano da lei rifioriva: “In Alja non riconosco più nulla di me, ma so una cosa: sarà felice. Io questo (per me) non l’ho mai voluto”.

Non è così purtroppo, Alja non sarà felice e verrà anche internata in un gulag. Ma già da ragazzina aveva capito quali catene la legavano a Marina Cvetaeva: “Sì, io, il figlio della sua anima, il sostegno della sua anima, io che le avevo sostituito Sereza (il marito e padre di Alja) durante tutti gli anni della sua assenza: io, dotata del più raro dei talenti: la capacità di amarla come lei aveva bisogno di essere amata: io che da sempre capivo ciò che non avrei dovuto sapere e sapevo ciò che non mi era stato insegnato, io che sentivo il rumore dell’erba che cresceva e delle stelle che spuntano in cielo; io che indovinavo il dolore di mia madre alla sua stessa fonte; io che avevo riempito di lei i miei quaderni, io di cui lei riempiva i suoi, io ero diventata una bambina normale”. Marina si irritava per le parole che Alja imparava da altri, per i nuovi modi di fare, per tutte le cose estranee, magari sguaiate, volgari, superficiali “di cui si era riempita la mia piccola nave, che per la prima volta aveva preso il largo da sola”. Ecco che cosa Marina Cvetaeva non perdonava alle persone, nemmeno alle figlie: di essere qualcosa d’altro rispetto a lei. Agli uomini, anche: di non rispondere totalmente alla sua esaltazione, alla sua capacità di sentire l’erba che cresce, di farle cadere le braccia che lei aveva spalancato incontro a loro. Di non essere abbastanza. “Per tutti questi anni, sempre qualcuno accanto, ma un tale deserto”. Marina Cvetaeva ebbe, nel 1925 (Alja aveva già 13 anni), un figlio maschio da suo marito (ma avrebbe voluto chiamarlo Boris, per l’amore che la legava a Pasternak, per il dialogo mentale che aveva con lui). L’aveva sognato, chissà forse scherzando, diverso: “Grassottello, sano, ricciuto, comune. Senza occhi cosmici, senza un’anima cosmica! – Che sia pure un attaccabrighe e un piagnucolone!”. E davvero George sarà così: viziato, ammirato dalla madre, sgarbato, scontroso. Ma lei, Marina, aveva capito: “Non so amare nulla, veramente, fino in fondo, cioè senza fondo, a parte la mia anima”. La sua sventura più grande, la sua malattia inguaribile: il suo destino di scrittore.

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Una donna per bene non è una donna, scrisse Marina Cvetaeva nell’inverno del 1919. Fu un terribile inverno di povertà, giovinezza e dolore, lei aveva ventisette anni, frequentava poeti, scrittori, pittori, attori di teatro, si infatuava di uomini e donne mentre il marito Sergej Efron era lontano, arruolato nell’Armata bianca: lei lo aveva sposato per amore e con amore gli rimase accanto, lo amò mentre era assente (Serena Vitale, la più grande studiosa italiana di Marina Cvetaeva, non esclude che Sergej si fosse arruolato in seguito al primo tradimento di Marina con suo fratello Petja, attore), lo amò anche mentre non lo amava più e andava incontro, tutta, al primo che passava per strada. A ognuno chiedeva amore smisurato e sfrenata tenerezza e libertà, a ognuno chiedeva che le provasse, attraverso l’amore, che lei esisteva davvero. Che era in vita. Ogni indizio terrestre, ogni bacio sognato in Marina Cvetaeva era un incendio dell’anima. “Io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente”, scrisse a Aleksandr Vasil’evic Bachrach, un ragazzo di vent’anni di cui si era innamorata, o invaghita, a cui mandò molte lettere, parlò dell’anima, corresse le parole sbagliate o goffe, dedicò poesie, e a cui chiese, imperiosa: “Voglio da Voi, ragazzo, il miracolo. Il miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”.

Marina Cvetaeva chiedeva ai suoi amori, tutti, la rinuncia a una vita insieme, la comprensione profonda di quel modo di stare al mondo come in un perenne incendio che aveva al centro di ogni cosa la poesia e il bisogno di scrivere, e chiedeva la fiducia assoluta in un amore che conteneva in sé un particolare tipo di fedeltà – la fedeltà all’anima, la fedeltà a se stessi. In questo senso Marina Cvetaeva, all’inizio del secolo scorso, prima, durante e dopo la Rivoluzione, a vent’anni come a cinquanta, nella sua vita di donna innamorata e di poetessa che non poteva annientarsi per amore, per non diventare cieca di fronte agli alberi, alla neve, al mondo (“la creazione artistica e l’amore sono incompatibili”), in questo senso, con addosso quell’unico logoro vestito marrone, con i figli e un marito a cui scriveva lettere d’amore, Marina rivendicava per sé la certezza, ma anche la naturalezza, di non essere per bene. Di andare incontro agli altri con le braccia protese, e dare, e prendere, e chiedere amore, dolcezza, affetto, e cercare ogni volta una fusione.

L’amore di Marina Cvetaeva è un’arte poetica che comprende tutto, è un modo di vivere che a volte è disincarnato, costruito sopra l’assenza dei corpi, fatto soltanto di parole, a volte distrattamente erotico, ma è un amore in cui, se ci si bacia, ci si ama (“io ho questa stupida convinzione: se baci – allora vuol dire che ami!”). Lei scrisse di non amare il mare, perché era “troppo simile all’amore. Non amo l’amore (aspettare quello che mi farà)”, ma passò gli inverni e le primavere e l’esilio a ricoprire ogni cosa d’amore e a mendicare amore, come un carburante per trovare le parole, per conoscere il mondo e per sentire di esistere. Per soffrire, soprattutto: Marina diventava infelice appena l’amore si scontrava con la realtà. Già sua madre era stata infelice in amore, aveva rinunciato all’uomo che amava, sposato, per lasciare che un altro dicesse di lei “mia moglie”, aveva accettato che un professore non amato diventasse il padre delle sue figlie: Marina lo sapeva e ne era orgogliosa. Da bambina lesse di nascosto dai grandi “Eugenio Onegin”, il poema di Aleksandr Puškin  (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell’amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.

Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).

“Quello che voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra – io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Marina civettava, leggera, danzante, e raccontava compiaciuta all’amico di quanto si fosse infuriata perché, passeggiando per il Cremlino con un uomo, un amante, un poeta, “una persona incantevole”, quest’uomo le parlava incessantemente di lei. “Come potete non capire che il cielo – alzate la testa e guardate! – è mille volte più grande di me, come potete pensare che in una simile giornata io possa pensare al Vostro amore, all’amore di chicchessia!”. Era fiera di essere così, libera, anticonformista (avrebbe odiato questa parola), interessata più al cielo che all’uomo ardente d’amore per lei. Totalmente estranea all’idea di dover essere, negli anni Venti, una ragazza per bene. “Non è facile amare una cosa difficile come me”, scriveva più tardi, con gli anni che le avevano lasciato addosso segni e lutti e dolore e solitudine, e non era facile per gli uomini a cui protendeva le braccia e le parole tenere vivo quell’amore, o almeno corrispondervi pienamente. Marina non si occupava dei pettegolezzi e non aveva pensieri meschini (“Non baciarsi mai con nessuno – lo capisco – cioè non lo capisco, ma non irrimediabilmente – ma se ci si bacia –, con quale pretesto non andare oltre? Buonsenso? – Una bassezza! mi disprezzerei. Poi lo ami di meno? Non si sa, forse di meno, forse di più. Fedeltà? – Allora non baciare”), ma davanti a questa sfrenatezza, a questa dismisura di sentimenti e di parole e di attese, davanti all’attesa di un miracolo (“vi stringo affettuosamente la mano e attendo da Voi prodigi”) gli uomini dentro la vita dei giorni di Marina spesso fuggivano, impauriti, oppure le davano appuntamenti a cui lei mancava per volontà, perché preferiva “amare gli assenti” dentro il paese della sua anima, e attribuire loro anche le qualità che non possedevano: far combaciare l’amore con l’idea dell’amore.

Sapeva che avrebbe rovinato l’amore con gli inciampi dei corpi, con l’incapacità dell’amato del momento di essere all’altezza di uno slancio, di un’esaltazione che comunque lo scavalcava e lo faceva rimpicciolire, sbiadire, e infine sovrapporsi a un altro. E poiché lui rimpiccioliva, Marina stessa si sentiva rimpicciolire, le cadevano le braccia che aveva proteso, soffriva per i silenzi, per il pallore del sentimento che riceveva indietro, magari si annoiava, smaniava, si svuotava: “Posso portare avanti dieci rapporti (che orrore: ‘rapporti’), insieme e convincere ognuno e subito, dalla più profonda profondità, che è l’unico. Ma non tollero che mi si voltino le spalle, neanche appena appena. Mi fa MALE, capito? Io sono una creatura scorticata a nudo, e tutti voi portate la corazza”. Marina era carne viva, e nonostante la fame di vita non era fatta per la vita. Pretendeva una “irrimediabile tenerezza” da ogni uomo che incontrava, chiedeva loro di essere spalancati, di diventare vivi per lei, e in cambio offriva un amore “di identità”, un amore diverso, specialissimo, difficile, forse impossibile, troppo moderno, ma autentico. “Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno più forte. Tutte – di più. Nessuna – così”. Non accettava di essere amata per ciò che non era o nonostante ciò che era, e certo non per la donna per bene che avrebbe dovuto essere. Non chiedeva perdono di essere così: ossessiva, altrove, infedele, mutevole, totalmente libera, presuntuosa, selvatica, a volte materna con esseri fragili e vanitosi, capace di dedicare le stesse poesie a uomini diversi, e di dire ogni volta: è la prima volta. A uno di questi amori un giorno scrisse: “Qualcosa è finito. Amo un altro – non si potrebbe dire in modo più semplice, brutale, sincero. Ho smesso di amarvi? No. Voi non siete cambiato e io non sono cambiata. E’ cambiata una cosa soltanto: la mia dolorosa concentrazione su Voi”. Era sincera, era libera, era precisa e spietata anche nell’individuare il nonamore e nel dire addio. “Com’è successo? Oh, amico, come succedono queste cose?! Io mi sono slanciata, l’altro ha risposto, ho ascoltato parole grandi, parole come non ce n’è di più semplici e che forse sentivo per la prima volta in vita mia. E’ un ‘legame’? Non lo so. Io sono legata anche dal vento tra i rami. Dalle mani fino alle labbra – e dov’è il confine? E c’è – un confine?!”.

Ecco, Marina Cvetaeva non aveva confini e amava senza confini. Era trafelata, sola, isolata, continuamente abbandonata e, una volta superata la giovinezza, sempre più costretta a rinunciare a tutto, tranne che a scrivere. A prendere la distanza da tutto e a sentire, sempre di più, l’impossibilità di vivere. Ma l’amore in lei era proprio questo: un modo per andare più vicina alle cose. “L’amore è innanzitutto la nostra lontananza dalle cose, nel migliore dei casi – annullamento di questa distanza, cioè fusione”. Stava stretta in ogni persona, in ogni sentimento, come in una gabbia, e soffriva di avere accanto persone così ragionevoli, così rispettabili, così attente ai confini e alla vita esteriore, che le chiedevano di “sistemare le cose” oppure si dileguavano, sopraffatti dalla sfrenatezza. A lei non importava di essere né ragionevole né rispettabile, per tutta la vita oppose una coraggiosa resistenza alla rispettabilità. Una donna per bene non è una donna. Una donna per bene non è una poetessa. E quando la poetessa Marina Cvetaeva incontrò, per lettera, il poeta, lo scrittore Boris Pasternak, s’innamorò completamente. Era il 1922, lei aveva trent’anni, lui trentadue: diventarono indispensabili l’uno per l’altra. Affini, vicini, irragionevoli, lontanissimi. Forse lui solo riuscì davvero ad amarla come lei chiedeva di essere amata: “Oh, Marina, come vi amo! Con quanta libertà, naturalezza, con quanta preziosa chiarezza! Come vorrei la Vita con voi! E prima di tutto quella parte della vita che si chiama lavoro, crescita, ispirazione, conoscenza”. Lei gli rispondeva: non posso. “Come vivere con un’anima – in una casa? Nel bosco – forse – sì”. Ma lo amava in modo totale, dedito, ininterrotto, lo costringeva a vivere, a scrivere, gli intimava di essere vivo, e voleva, nelle lettere, un figlio da lui. Avrebbe voluto chiamare il proprio figlio, il terzo figlio maschio avuto da suo marito, Boris (“è stato Boris finché nessuno lo sapeva. Dopo che ho pronunciato il suo nome, ho provato gelosia del suono”). Marina Cvetaeva e Boris Pasternak si scrissero per quattordici anni, si sostennero, furono gelosi l’uno dell’altra, furono travolti l’uno dall’altra, essenziali l’uno per l’altra. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa – senza asilo, come le montagne. (Non è una dichiarazione d’amore: di destino)”. Lui la aspettava, lei non andava, lei lo aspettava, lui lasciava la moglie per un’altra donna. Come Onegin e Tatiana, come nella “libertà puskiniana” che a loro veniva data in cambio della felicità, dell’incapacità di una vita insieme, ma nella certezza di due vite simili. Marina diceva che Boris era come un lampione per strada, inaggirabile: ovunque si voltasse a qualunque cosa pensasse, lui sorgeva, era lì, dentro i pensieri, nelle poesie, nei libri, nella musica, nelle notti sveglia a scrivere, nella solitudine, insomma in tutta la sua vita non felice e mai abbastanza piena d’amore. “E sempre, sempre, sempre, Pasternak, in tutte le stazioni della mia vita, accanto a tutti i lampioni dei miei destini, lungo tutti gli asfalti, sotto tutti gli ‘sghembi acquazzoni’ – sarà sempre la stessa cosa: il mio appello, il Vostro arrivo”. E non fu mai un tradimento, fu sempre e soltanto: l’amore.

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Mia madre è molto strana. Mia madre non somiglia affatto a una madre, scriveva nel 1918, a sei anni, Ariadna Efron. Un piccolo componimento su Marina Cvetaeva, il ritratto preciso, innamorato ma anche spietato di una ragazza con gli occhi verdi e la figura slanciata che “scrive poesie”, non ama i bambini piccoli e non loda i loro primi disegni (“un uomo? Questo sarebbe un uomo? No, Alja, non ci siamo, questo per ora è un mostro, devi fare ancora ta-a-nti disegni e riprovare mo-o-lto a lungo”).

La vita di una donna che per prima cosa ogni mattina, mettendo da parte tutte le faccende e le urgenze, a mente fresca, e pancia vuota, scrive. “Si versava una tazzina di caffè bollente e la posava sullo scrittoio, al quale andava ogni giorno della sua vita, come un operaio alla macchina: con lo stesso senso di responsabilità, ineluttabilità, impossibilità di fare altrimenti”.

L’impossibilità di non scrivere ha segnato la vita di Marina Cvetaeva, nella povertà, nell’esilio, nella mancata pubblicazione dei versi, durante la Rivoluzione, durante la morte della sua figlia più piccola, nella sparizione degli amici, degli amori, e nella solitudine più dolorosa. Anche nella giovinezza allegra, quando le serviva molto poco per essere felice: “A Dio io chiedo / una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – / un posto – per me! – / quattro pareti per / il silenzio”.

“Il suo giorno preferito è l’Annunciazione – scrive Ariadna Efron nel libro di memorie sulla madre, pubblicato in Italia una decina d’anni fa nella collana La Tartaruga di Baldini&Castoldi – È malinconica, svelta, ama la Poesia e la Musica. È paziente, sopporta sempre a più non posso. Si arrabbia e ama. Deve sempre correre da qualche parte. Ha un cuore grande così. La voce dolce. Il passo rapido. Marina di notte legge. Ha quasi sempre gli occhi che prendono in giro. Non le piace essere tormentata con domande stupide, allora si arrabbia molto. Qualche volta va in giro come persa, ma all’improvviso pare che si svegli e comincia a parlare, e poi di nuovo sembra che parta per chissà dove”.

Marina Cvetaeva, che aveva pubblicato la prima raccolta di poesie a diciott’anni, scriveva come gli altri respirano, per restare viva. “Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra”. Osservare e descrivere, cercare la verità, contemplare, scolpire. Per fare questo aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (“trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi”), si innamorava di tutti, tendeva le braccia, inondava le persone e chiedeva loro di inondarla. Cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite.

Una volta, in Francia, in casa di amici, Marina conversò per ore con una signora di cui, a fine giornata, lodò le sottili capacità di comprensione. Questa signora era finlandese e conosceva soltanto poche parole di russo: Marina aveva parlato per tutto il tempo con sé, per sé e di sé. Come nelle lettere, sterminate, meticolose, vegliate con l’attenzione e la cura che aveva per le poesie, e che fissano la nascita di un linguaggio, la scelta delle parole (l’ossessione per le parole) e testimoniano lo sfrenato bisogno di ascoltare e di essere ascoltata. Serena Vitale lo chiama “l’orecchio assoluto”. Marina Cvetaeva era un poeta, assediato dalle voci (degli alberi, degli uccelli, della crudeltà, del cielo, del vento), e aveva perciò bisogno di udire anche la propria voce: “Nell’altro a me servono la fronte e il petto. Al cuore posso rinunciare – non al petto. Ho bisogno di una volta sonora. Io non penso, ascolto. Poi cerco un’esatta incarnazione della parola”.

Quando nel 1922, a trent’anni, lasciò la Russia, portò con sé, tra le sue pochissime cose (“Il mio senso di possesso si limita ai miei figli e ai miei quaderni”), i diari degli anni 1917-1919, gli anni terribili della Rivoluzione, anni che lei aveva vissuto, osservato, incarnato nelle parole dei taccuini: la fame, il Cremlino, la vita quotidiana, i sogni, le persone. Aveva già scelto il titolo: “Indizi terrestri”. Ma l’editore, che pure aveva già pubblicato le poesie di Marina, pretendeva troppi tagli per ragioni politiche. Per Marina Cvetaeva era inaccettabile: “Mosca 1917-1919 – cosa crede, che mi sia dondolata in una culla? Avevo ventiquattro-ventisei anni, avevo occhi, orecchie, piedi, mani: con questi occhi ho visto, con queste orecchie ho sentito, e con queste mani ho spaccato legna (e scritto i diari!), con queste gambe da mattina a sera sono andata per mercati e posti di blocco – dovunque mi portassero!… Nel libro non c’è politica: c’è la cocente verità, la cocentissima verità del gelo, della fame, della rabbia, dell’Anno! Ah! Esteti! Che non si vogliono sporcare le manine!… Non è un libro politico, neanche per un attimo. È un’anima vera: in un cappio mortale – eppure viva. Lo sfondo è tetro, eppure non sono stata certo io a inventarlo…”, scrisse Marina Cvetaeva in una lettera a un amico.

Nei taccuini aveva scritto la storia più vera, quella delle persone e dei loro giorni, gli indizi terrestri di un’esistenza appunto, e non sopportava l’idea che questo lavoro andasse sprecato, non per i soldi che ne avrebbe forse ricavato (“sarebbe una bassezza”) e nemmeno per la gloria: ma per l’opera in sé. “Scrivere per qualsiasi cosa che non sia l’opera stessa è condannare l’opera a un giorno e basta. Così si scrivono, e così devono essere scritti, gli articoli di fondo. Gloria, denaro, trionfo, questa o quell’idea – qualsiasi obiettivo estraneo all’opera è la sua fine”. Marina Cvetaeva non scrisse mai articoli di fondo, non scrisse per brillare, per essere ammirata, per ricevere elogi o contratti: scrisse perché non poteva non scrivere.

“Dopo avere scritto delle poesie posso leggerle da un palcoscenico e acquistare la gloria o la morte. Ma se è a questo che penso mentre mi metto al lavoro, non le scriverò, oppure le scriverò in un modo tale che non meriteranno né gloria né morte”. Le piacevano le cose belle, i bei vestiti che non poteva avere, le sigarette, il caffè, la bellezza nei volti e nei corpi, le piacevano le feste, l’allegria, la giovinezza negli altri, le persone felici da cui viene felicità. Non disprezzava il denaro: “I soldi sono la mia possibilità di continuare a scrivere. I soldi sono le mie poesie di domani. I soldi sono il mio riscatto da editori, redattori, padroni di casa, bottegai, mecenati: la mia libertà e il mio tavolo di lavoro”.

E la gloria? Marina Cvetaeva conosceva il proprio valore, i meriti, la potenza del talento, il senso del dovere e la brama incontenibile di esprimersi, e quando Boris Pasternak le scrisse per la prima volta un fiume di parole entusiastiche per le sue poesie, nel 1922, riconobbe la voce di un’anima simile alla sua, credette fosse un’allucinazione, riuscì a rispondere quasi soltanto: “Vi attendo”. “Ma cosa c’è di bello nella gloria? Il suono della parola”. Non aveva bisogno di gloria, ma cercava comprensione, e non ne era mai sazia. Qualcuno che capisse nel profondo quella non-vita, e la lodasse, la mettesse in salvo. Lui lo fece. La calmò. La nutrì. Le scrisse: “Tu sei oggettiva, ma soprattutto molto dotata: geniale. Quest’ultima parola cancellala, per favore. Per uso personale è una parola leziosa, da bellimbusto. Incontrandola mi sentivo a disagio, come forse capiterà anche a te. Un giorno o l’altro la diranno sul tuo conto. Poco importa. L’importante è ciò di cui ti occupi. L’importante è che stai costruendo un mondo incoronato dal mistero della genialità”. L’importante era continuare a scrivere.

Perché, nonostante la fame e il bisogno di ascoltare e ricevere i giorni e l’amore degli altri, nonostante il senso dell’umorismo e la natura allegra, sfrenata, che era certa di avere posseduto almeno in giovinezza, la vita di Marina Cvetaeva nel mondo reale fu devastata, forse alla fine distrutta, dalla condizione creativa: “La condizione creativa è quella dell’ossessione. Finché non cominci – obsession, finché non finisci – possession. Qualcosa, qualcuno, si insedia in te, la tua mano è solo strumento – non di te, di un altro. Di chi si tratta? Di ciò che attraverso te vuole essere”.

Questa ossessione le rese impossibile un amore compiuto e non infelice, le rese impossibile smettere di scrivere anche mentre la figlia piccola moriva in orfanotrofio, mentre l’altra bambina, più grande, aveva la malaria, mentre la soffitta in cui viveva si trasformava in un tugurio dove tutto era ricoperto di cenere e spazzatura. È come una febbre, come un tormento: lo senti addosso, dà i brividi, una sensazione di malessere e distrazione che scompare solo mentre Marina, come la descrive la figlia Ariadna, “spingeva da parte tutto ciò che in quel momento non le serviva sul tavolo, facendo spazio, con un gesto ormai meccanico, ai quaderni e ai gomiti.

Appoggiava la fronte su una mano cacciando le dita tra i capelli e si concentrava all’istante. Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava con la punta della penna e l’acume del pensiero”. Ogni tanto si accendeva una sigaretta e beveva un sorso di caffè. Parlottava per sentire come suonavano le parole, restava seduta al tavolo, come inchiodata, qualunque cosa accadesse intorno a lei, e ricopiava i manoscritti da mandare in tipografia in stampatello. “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto”, scrive nella seconda raccolta di lettere pubblicata da Adelphi, Deserti luoghi.

Cvetaeva era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere, e il resto dell’esistenza, la vita dei giorni, le sfuggiva di mano, la faceva sentire “una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre”. Così, mentre gli altri stanno in vacanza, si divertono, si riposano dopo un lavoro che forse non amano, o non amano abbastanza, o comunque non amano più della vita stessa, Marina soffre: “La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo”.

Non è possibile tenere bene insieme la vita esteriore quando si vive soprattutto dentro di sé, in uno spazio esiguo e assediato da ogni parte, come ha scritto Serena Vitale nel saggio intitolato: Le voci di Marina: “In una sottilissima striscia di terra che non confina con nessun luogo e in cui regna un’ora sconosciuta ai quadranti terrestri vive il poeta, cieco a tutte le apparenze con cui il mondo reale vorrebbe sopraffare i suoi sensi”. Marina visse quasi sempre su quella sottilissima striscia di terra senza confini e senza orologi (“la mia libertà interiore”), e verso il mondo reale fu volubile, incostante, appassionata e poi subito indifferente, e nonostante un cuore buono non riuscì a essere una buona madre (“Al lavoro era capace di posporre qualunque altra cosa. Insisto: qualunque”, scrive la figlia Ariadna). “Mia madre non somiglia affatto a una madre”: è di nuovo tutto nella frase di una bambina di sei anni che non veniva elogiata per il suo essere bambina, ma che doveva essere un poeta per attirare a sé l’amore della madre.

Marina non somigliava a niente, ma ascoltava tutto: “Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge – ubbidisco”. Fino a restare completamente sola, di nuovo in Russia dove accettò l’ineluttabilità del ritorno, fino a non sopportare più la vita reale e la sua misera felicità (“mi vergogno: di essere ancora viva”), fino a desiderare il gancio e la sparizione assoluta. “Ma se esiste l’Ultimo Giudizio della parola – davanti ad esso sono pura”.