Against all borders
Siamo i custodi di un’isola verdissima e feconda, per sua natura infinita e senza confini. Siamo i custodi dell’isola delle parole, del sapere, della conoscenza, delle lingue, delle scritture e delle tradizioni. Poter leggere nella nostra lingua madre un testo scritto in una lingua che non conosciamo è un atto magico, che non conosce limiti. Ogni giorno editori, traduttori, librai, grafici, giornalisti, operatori culturali lavorano per rendere possibili atti senza confini, per diffondere parole che vengono da ovunque nel mondo, per accorciare le distanze, avvicinarci e permetterci di imparare gli uni dagli altri. Per questo abbiamo pensato di chiedere alle persone che Grafias ha incontrato durante il suo percorso di ricerca di consigliarci e raccontarci un libro, una lettura oggi più che mai necessaria per contrastare la montante nebbia dello spirito, permeata di paura e diffidenza, odio e rifiuto che vediamo ogni giorno avanzare. Un libro che venga da ovunque nel mondo, da indirizzare idealmente a coloro che alzano muri e recinzioni, che hanno paura dei colori e delle loro stesse parole pronunciate in lingue che non conoscono, che scacciano e respingono, che separano e non danno accoglienza, che si voltano e non comprendono. Una lettura che ci ricordi ancora una volta che quelle linee tracciate sulle carte geografiche servono a indicarci i limiti della nostra conoscenza e i territori che dobbiamo ancora esplorare e non ciò da cui ci dovremmo guardare e difendere. Un’opera che possa aiutarci a ricordare che il mondo è uno e indivisibile, in un momento storico in cui uomini di potere, politici, esseri miopi e scellerati vogliono creare nuove barriere invece che abbattere quelle già esistenti, rendere invalicabili confini e frontiere, negare la parola, il riconoscimento e dunque la vita altrui invece di lavorare per una nuova società universale, fonte di sviluppo e benessere per chiunque voglia farne parte.
* L’illustrazione originale creata per Grafias | A Reading List Against All Borders è di Julia Isidori
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia
Don Chisciotte! vorrei dire, naturalmente… E non importa la traduzione, se quella di Jean Canavaggio (Folio) o Aline Schulman (Points). La nostra epoca ha crudelmente bisogno di antieroi di tale tempra e di questa qualità di utopie e sogni. Non è certo stato il primo a condurci all’autoconsapevolezza, ma Cervantes è il solo ad averlo fatto con questa potenza comica, in un’odissea sotto forma di parodia, a meno che non si tratti di una parodia sotto forma di odissea. Per quanto mi riguarda, quello che ho fatto mio di tutto questo è l’ironia devastante, il distacco, e anche la morale del fallimento, giacché in essa vi è un qualcosa di fecondo, ma prima di ogni altra cosa la lezione di libertà che ancora oggi Cervantes dona agli scrittori. È lui che osa e che non si sente legittimato che da sé stesso, mentre noi siamo così rigidi, intrappolati nei nostri canoni, nelle nostre citazioni e nei nostri criteri, lui ci dice di andare e noi ci inoltriamo anche se il donchisciottismo è diventato una sorta di “locanda tipica spagnola”. Devo ammetterlo, mi lusingo di leggerlo e rileggerlo (impossibile da dimenticare l’orgoglio di Borges: “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; / io sono orgoglioso di quelle che ho letto”), perché è un classico senza naftalina, un’opera che non ha mai smesso di dirci ciò che ha da dire. Don Chisciotte ci parla ancora e per questo piacere che permane e si rinnova nel tempo la nostra gratitudine è eterna. Tuttavia, in spagnolo il suffisso “te” suona beffardo. Povero Quijote! Ma in francese suona anche peggio: Chisciotte suona come “Chochotte”. Sono stufo! Di questo nome proprio diventato di senso comune, i francesi ne hanno fatto un sinonimo di cavaliere errante, stravagante se non un pazzo. Ma è così difficile essere chisciotteschi al giorno d’oggi, in un’epoca allergica alla grandezza, in cui non si osa essere più grandi di sé stessi. Non ha cambiato il mondo, come avrebbe voluto, ma ha cambiato la sua rappresentazione e ciò non ha prezzo. E tutto questo sarebbe basato solo su un’illusione che egli creava mentre era impegnato nelle sue peregrinazioni? E dire che io ancora oggi non so se la Spagna è nata con Don Chisciotte, o se è stato lui a inventarla… Pierre Assouline
Andrea Anastasio, Fingerprint, Tara Books 2009
Fingerprint è un libro d’artista di Andrea Anastasio che fa parte della collezione dei libri fatti a mano di Tara Books. Fare un libro a mano è già di per sé una sorta di impegno nei confronti del progetto del libro. E volontariamente ripeto tante volte la parola “libro”. Carta e rilegatura sono fatte a mano e la stampa è in serigrafia. Oltre a questi elementi, la stessa illustrazione viene fatta a mano perché è realizzata con le impronte digitali. Usare le impronte digitali per creare illustrazioni riflette un bisogno di creazione molto primitivo, presente in ognuno di noi. Ma non si tratta solo di questo. Le impronte digitali si riferiscono anche all’identità: quando superiamo un confine, ad esempio, la polizia ci chiede le impronte digitali. È un modo per riconoscere ciascuno di noi. Perciò il senso di questo libro si collega all’identità in modo primitivo. Le impronte digitali, inoltre, ci dimostrano ancora qualcos’altro: anche se siamo tutti diversi, viviamo tutti nello stesso mondo, e questo mondo non deve avere alcun tipo di confine per le nostre identità. La lezione che ci dà questo libro è che dovremmo provare a vivere insieme nonostante tutti i limiti e le differenze. Anaïs Beaulieu e Alexis Coulais
Jane Hirshfield, Nine Gates: Entering the Mind of Poetry, Harper Collins 1997
Sebbene ora abbia quasi vent’anni, trovo questa raccolta di saggi molto confortante in questo preciso momento storico. Non c’è niente di troppo politico nel progetto della Hirshfield. Scrive di linguaggio e traduzione, e attraverso una bellissima discussione poetica ci ricorda di prestare silenziosa e prudente attenzione alle parole che condividiamo con gli altri e di lavorare diligentemente per vedere e comprendere il mondo intorno a noi e le connessioni umane che ci legano l’uno all’altro. Michelle Bailat-Jones
Albert Vigoleis Thelen, Die Insel des zweiten Gesichts, Eugen Diederichs Verlag 1953
Scelgo il romanzo Die Insel des zweiten Gesichts (L’isola del secondo volto) di Albert Vigoleis Thelen, pubblicato nel 1953, non solo perché è il grande romanzo dimenticato della storia della letteratura tedesca. Basato in gran parte sull’esperienza dell’autore, il libro narra, con grande ironia e senso dell’umorismo, le vicende e le vicissitudini di una coppia – lui scrittore e traduttore, lei (di origini in parte maya) grande lettrice e, tra le varie cose, insegnante di lingue –, che negli anni venti si trasferisce a Mallorca per motivi familiari e sceglie l’isola come luogo di esilio volontario dopo l’avvento del nazismo e fino alla guerra civile spagnola, che costringe i due a rifare le valige. In uno stile brillante, colto e raffinato Thelen descrive la vita dello straniero, dell’immigrato disoccupato, costretto a barcamenarsi tra mille lavoretti e stratagemmi per sopravvivere, ma che da questa posizione incerta e precaria dispone di una prospettiva unica sugli abitanti e sulla vita dell’isola, ricca di personaggi eccentrici e, dal 1933, anche di esuli di vario genere e provenienza. La critica della deriva politica europea della prima metà del Novecento è esplicita e univoca, e l’eccentricità (geografica e intellettuale) è forse l’unico modo per preservare la propria integrità morale. Chiara Caradonna
Predrag Matvejević, Breviario mediterraneo, Garzanti 1991
Secondo un proverbio turco Dio ha dato il mare agli infedeli. E Matvejević, che è un infedele della letteratura, se l’è preso. Di esserlo ne è consapevole fin dall’inizio del suo breviario sul sesto continente, quando precisa che il punto di partenza si fa via via meno importante, fino a essere del tutto confuso al momento dell’approdo. E così, questo fallito tentativo di afferrare compiutamente l’inafferrabile può essere tutto, romanzo, saggio, catalogo, come tutto è il Mediterraneo che racconta: porti, città-porti, moli, i suoi abitanti (per i quali parlarne è superfluo, per i quali è sempre sottinteso), isole, penisole, capitanerie di porto, parole, onde e venti, le correnti (le sue vene), le coste, i golfi che per vanità si fingono mari, quei templi che sono i suoi fari, gli odori – che si esaltano nei suoi mercati – le saline (simili un po’ ovunque), le olive reliquie e rughe, mestieri, cordame. I suoi cimiteri, quando non è esso stesso tomba d’acqua. Addirittura le boe, che dimostrano quanto la narrazione sia essenziale, quanto l’inafferrabile abbia bisogno di mimi o di scrittori, gli unici che possono coglierlo persino in una boa. Poi le carte, perché ai nostri occhi e appunti si aggiungano quelli degli altri; e infine un glossario, per ricordarci che mediterraneus vuol dire circondato dalla terra, mare della vicinanza, mare diverso dall’illimite che sono gli oceani, i mari delle distanze. E se tutte le narrazioni del Mediterraneo rischiano di rendere malattia la sua mitologia, Matvejević combina il lirismo con il rigore compilativo, senza sapere nemmeno quale sia il motivo che lo spinge a “ricomporre continuamente il mosaico mediterraneo”. Ma il suo tentativo non può che essere parziale, ha bisogno di essere costantemente ampliato, di nuove edizioni, di ricerca e pazienza, di uno sforzo inesauribile che si sfinisce sempre in uno dei più bei fallimenti che, infedeli della lettura, ci è possibile leggere: un libro senza confini su un mare che, di confini, ne ha troppi. Gianluca Cataldo
Ryszard Kapuściński, Ebano, Feltrinelli 2000
Un reportage fondamentale per capire qualcosa in più di quel continente di cui tanto si parla senza saperne nulla, l’Africa, e dei suoi legami con l’Europa. Attraverso il resoconto di alcuni degli eventi che hanno caratterizzato la storia postcoloniale dell’Africa subsahariana, Kapuściński, con umiltà e umanità, guida il lettore in un mondo complesso, solo parzialmente conosciuto dagli osservatori esterni e quasi sempre tramite l’occhio di un’Europa (o, più in generale, di un “Occidente”) che non solo ne distorce l’immagine ma che ne ha inesorabilmente alterato le fondamenta e l’anima. Daniela Esposito
Nicolas Bourriaud, Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, Postmedia Books 2014
L’identità del soggetto non è il risultato di un’origine ma di una traiettoria: le nostre radici non sono fisse, al contrario, crescono mano a mano che avanziamo. L’individualità del soggetto è il risultato di un’installazione precaria su un suolo che riceve, dove si realizzano atti di traduzione. Siamo tutti radicanti, tutti semionauti: migranti fra i segni che traduciamo per negoziare la nostra identità, mai fissa poiché l’essere è errante. Giorgia Esposito
Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi 2003
Chi, nel 2018, continua ad alzare muri, a stabilire un prima e un dopo storici e geografici, a chiudere i porti evidentemente non ha mai letto neppure un verso dell’Odissea. Se l’avesse fatto, saprebbe senz’altro che il nostro europeissimo antenato Odisseo (o Ulisse o chi per lui) è stato, più che un astuto guerriero, un pellegrino, un nomade… un migrante. Lo stesso Odisseo che, secondo il visionario Franco Farinelli, avrebbe creato la prima carta geografica, riducendo – primo fra gli uomini – “il mondo a spazio”. Come? Accecando il selvaggio Polifemo. Lo stesso Odisseo che avrebbe solcato in lungo e in largo quel grande mare, il Mediterraneo, che tanto grande poi non è: “nient’altro che una grande ingolfatura oceanica individuata da un profilo al cui interno la terraferma prevale sull’elemento liquido”. Il nomadismo (da nomos, “legge”: niente di più lecito e ordinato al mondo) è quindi nelle nostre radici, oltre ogni nostra consapevolezza. Mettere in discussione la ragione cartografica, la prevalenza della mappa sul mondo, delle nostre rappresentazioni sulla realtà materiale e concreta può aiutarci a farne memoria. Innocenzo Falgarini
Zygmunt Bauman, Stranieri alle porte, Laterza 2016
È un libro molto intenso che affronta il fenomeno delle ondate migratorie da un punto di vista profondo e inquadrato storicamente. Julia Isidori
Antero Pietila, Not in My Neighborhood: How Bigotry Shaped a Great American City, Ivan R. Dee 2010
Questo libro non è un balsamo, scritto per curare e rimarginare, ma è necessario se vogliamo muoverci verso un mondo di pace e giustizia. La storia di Baltimora è la storia di due città – bianca e nera/ricca e povera – ed evidenzia come la legge e le regole vengano usate per segregare e per costruire un sistema in cui possa esistere legalmente una società di stampo dickensiano. Questa analisi dell’America urbana è un passo necessario per muoversi in direzione di una “più perfetta unione”. Not in My Neighborhood è un libro di riferimento nel piano di lezioni Black Lives Matter di “Mosaic Magazine”, progettato dall’educatore originario di Baltimora Eisa Nefertari Ulen. Ron Kavanaugh
Haniel Long, La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca, Adelphi 2006
Haniel Long ci dona, con questo suo prezioso racconto, una delle più luminose storie di redenzione umana: quella dello sventurato Alvar Núñez Cabeza de Vaca. È la parabola di un predone spagnolo che, partito in mare alla volta del Nuovo Mondo per conquistare immaginarie ricchezze nascoste nelle foreste della Florida, alla fine del 1528 approda, con rovinoso naufragio, sul litorale del Golfo del Messico. Insieme a poche decine di sopravvissuti, Cabeza de Vaca si mette nuovamente in viaggio, affrontando difficoltà di ogni tipo: la fame, gli stenti e una natura selvaggia che, ben presto, avrà la meglio sulla maggior parte di quella umanità derelitta. Uno a uno, vede morire tutti i suoi compagni, restando, infine, alla guida di tre soli uomini. È qui che inizia per lui un altro tipo di viaggio: un viaggio che porterà l’uomo europeo a contatto con la solitudine, la sofferenza, la mancanza, l’umiliazione, la paura, ma anche con una civiltà diversa, quella degli indios del villaggio che li ha accolti, nutriti e consolati. Spogliati di ogni bene materiale e di “tutti quei pensieri che vestono l’anima di un europeo, e anzitutto dell’idea che l’uomo tragga forza da daga e pugnale”, attraverso un percorso che li vede inoltrarsi sempre più nel nuovo continente e all’interno della loro stessa anima, Cabeza de Vaca e i suoi compagni, spezzati nel corpo, esausti nello spirito, approdano a una condizione personale nuova ed estrema, una condizione che li mette a diretto contatto con l’umano e con l’altro da sé (“Fu allora, mi par di ricordare, che presi a pensare agli indios come a essere umani simili a noi”), una condizione che, infine, arriva a donargli la capacità di raggiungere il vero potere divino, quello che non ha bisogno di nessuna mediazione, di nessuna chiesa (“Essendo solo in quella natura selvaggia, nessun tessuto del corpo ostacolava il misterioso potere”). Così, quando gli Indios gli impongono di guarire i loro malati, ecco che Cabeza de Vaca e i suoi compagni compiono un inatteso miracolo, donando la vita a chi la perdeva. La storia raccontata da Haniel Long è una storia realmente accaduta. Lo scrittore americano si basa sulla relazione che Cabeza de Vaca scrisse al suo re quando, riuscito a tornare a Città del Messico dopo otto anni di peregrinazioni e guarigioni donate di villaggio in villaggio a quegli indios che ormai considerava suoi fratelli e sorelle, infine rientrò in seno alla civiltà europea. L’edizione italiana pubblicata da Adelphi si impreziosisce dell’introduzione scritta da Henry Miller, ed è con le sue parole che voglio chiudere questa mio suggerimento di lettura, perché esse sono ancora terribilmente attuali e significative, specchio del nostro momento storico. Scrive Miller: “Credo, ed è il motivo per cui non cesserò mai di parlare di questo piccolo libro, che l’esperienza di questo spagnolo solitario e derelitto nelle regioni selvagge d’America vanifichi tutto l’esperimento democratico dei tempi moderni. Credo che se egli rivivesse oggi, e vedesse i prodigi e gli orrori del nostro tempo, tornerebbe senza indugio al semplice ed efficace modo di vivere da lui scelto quattro secoli fa. Così farebbe San Francesco, e Gesù, e il Buddha, e tutti coloro che hanno visto la luce. Nemmeno per un attimo posso pensare che avrebbero qualcosa da imparare dal nostro modo di vivere”. Quello che ci dona Long con il suo racconto è un apologo folgorante e impeccabile di una delle più indissolubili tragedie dell’animo occidentale: quell’animo che purtroppo ci induce ad avere sempre “una certa riluttanza a fare del bene al prossimo” e che, però, può diventare davvero umano solo quando incontra, riconosce e cede al prossimo. Veronica Leffe
John Steinbeck, Vicolo Cannery, Bompiani 2012
John Steinbeck è un autore che si legge a scuola, qui in Nord America, o almeno lo era – non posso dire con certezza quali siano i libri che si leggono oggi alle superiori. Questa è, o era, tutto sommato una bella cosa, avere Uomini e topi o Furore come pietre miliari tra le proprie letture di ragazzi. Steinbeck era uno scrittore profondamente umano, generoso e paziente. Perciò fa un certo effetto prendere in considerazione la sua visione del mondo in un momento in cui il termine “populista” ha, giustamente, assunto le dimensioni di un’offesa, visto che il suo era un immaginario populista. Ma non sono le nozioni da aula di scuola americana che mi interessano, adesso. Vicolo Cannery non è mai stato oggetto della stessa devozione dimostrata agli altri romanzi più moralisti. Non c’è da stupirsi. Il libro è incentrato su un biologo marino, un grande bevitore stupidamente generoso chiamato Doc, e su un gruppo di cinque disadattati (Mack e i ragazzi) che vivono ai margini della California del nord, a cavallo tra gli anni trenta e quaranta. Il fruttivendolo immigrato di nome Lee Chong – vi prego di perdonare gli errori di Steinbeck nel riportare la sua cultura – è centrale non solo per il benessere del gruppetto di disadattati di Steinbeck (li lascia vivere in un vecchio magazzino, da loro battezzato palazzo Flophouse), ma per tutta la comunità. Lo stesso si potrebbe dire, su basi differenti, del bordello di Dora (altrimenti noto come Dora’s Bear Flag Restaurant – “il ristorante della bandiera con l’orso”, in onore della bandiera della California). La trama, per sua natura, prima porta Mack e i ragazzi a voler architettare qualcosa di carino per Doc, e poi provoca i vari, inevitabili e involontari, passi falsi ed errori di valutazione che finiranno per intralciare il progetto. Ma è il fatto che Vicolo Cannery sia un libro sulla gioia e sulla nostalgia, sui modi duraturi e profondi in cui le nostre sorti sono collegate, che lo rende così irresistibile. È un promemoria dell’ingombrante valore dei moltissimi, piccoli e semplici modi in cui arricchiamo ognuno la vita degli altri. John McIntyre
Can Graphic Design Save Your Life, a cura di Sarah Schrauwen, Lucienne Roberts e Rebecca Wright, GraphicDesign&, 2017
Penso che questo sia un libro che mostra come esista già un linguaggio universale tra di noi: è il linguaggio visuale. Un modo universale di comunicare, che tutti capiamo. Se esiste un linguaggio che può fare questo, perché siamo così ostinati nel distinguerci l’uno dall’altro? Sebbene questo libro non parli di discriminazioni, leggendo tra le righe ci si rende conto che, con il linguaggio visuale, siamo tutti uno.
Yuval Noaḥ Harari, Sapiens: da animali a dèi, Bompiani 2014
Questo libro permette di capire gli esseri umani e di non dimenticare la storia del genere umano, che è raccontata in un modo facile da capire e molto comunicativo. Zinnia Nizar
Frances Hodgson Burnett, Il giardino segreto, Feltrinelli 2017
Questo libro contiene una storia tenera e molto umana. Ci dice che è importante prestare attenzione ai bisogni delle persone che sono intorno a noi e ci spiega come: dando attenzione agli altri, diamo attenzione anche a noi stessi. Piccoli gesti e sacrifici portano grandi risultati nelle relazioni con gli altri. Piccoli oggetti o piccole vite, come il pettirosso, o Dickon, o le rose nel giardino, ci suggeriscono cosa ogni giorno è importante nelle nostre vite e nelle vite degli altri. Ogni cosa intorno a noi è parte di un tutto al quale dovremmo partecipare con generosità e speranza, e che dovremmo impegnarci a non trascurare. Miquel Rayó
Jolán Földes, A halászó macska utcája, Athenaeum Kiadás 1936
A halászó macska utcája (La via del gatto che pesca) è il più popolare titolo della scrittrice ungherese Jolán Földes (1903-1963) che con questo libro nel 1936 ha vinto il concorso internazionale All Nations Prize (il premio consisteva in 20.000 dollari di allora, una cifra esorbitante). Tradotto in 12 lingue, nel giro di un anno dalla pubblicazione il libro aveva venduto già un milione di copie. Si tratta della storia di una famiglia di proletari ungheresi emigrati a Parigi subito dopo la prima guerra mondiale: vivono nel vicolo più stretto di Parigi insieme ad altre curiose figure dell’emigrazione europea. La storia dei loro primi quindici anni a Parigi si intreccia con la storia dell’Europa tra le due guerre e racconta senza enfasi il destino dei senza patria, il processo di integrazione. Lo stile ricorda quello di Erich Maria Remarque, i contenuti sono molto originali e il libro, che è stato ripubblicato in ungherese nel 1989 e poi nel 2007, sul risvolto di copertina cita il breve commento entusiasta di Eleanor Roosevelt. In Rue du chat qui pèche, vicolo strettissimo fra la Senna e Rue de la Huchette, si trova l’albergo dove approda la famiglia dell’acconciatore di pellami Barabás. Seguiamo il loro destino, soprattutto quello dei tre figli: della sensibile Anna, dell’ironica Klára e dello studioso, diligente János. I Barabás frequentano gli altri emigrati, fra essi ci sono aristocratici russi, esuli lituani, rifugiati greci e monarchici spagnoli, una famiglia italiana antifascista, un tedesco antinazista. E in questo vicolo vive anche il grande amore di Anna, il proletario russo disamorato della rivoluzione sovietica. Barabás trova lavoro, ma il salario non è sufficiente per mantenere cinque persone e presto anche sua moglie dovrà lavorare, farà la lavandaia, per poter mantenere i figli agli studi. In questo vicolo parigino nascono amicizie, amori, legami molto forti tra diseredati che si aiutano fra loro, indipendentemente dal loro paese d’origine, dalla loro visione ideologica e dalla loro origine sociale. Un’isola di solidarietà e di affetto fra le diversità, un autentico melting pot nell’Europa appena uscita dalla tragedia di una guerra mondiale, ma che sente già nel sottofondo l’arrivare di un nuovo conflitto. Andrea Rényi
Dominique Olmi, Bakhita, Piemme 2018
Bakhita è una storia straordinaria. Tratto dalle memorie della suora santificata da Giovanni Paolo II, scritte da lei con fatica e dolore, il romanzo di Dominique Olmi rielabora la storia di una bambina del sud del Sudan che viene rapita dai razziatori di schiavi, attraversa il Sahara con i negrieri, viene riscattata da un console italiano e approda in Italia, dove arriverà a scegliere di entrare nell’ordine delle canossiane. Un romanzo che racconta la schiavitù, il suo orrore e anche la possibilità del riscatto in ogni persona.Da leggere, soprattutto in questi giorni infausti. Laura Strappa
Eva Hoffman, Come si dice, Donzelli 1996
Questo libro è uno dei testi più belli e più preziosi riguardo ai cambiamenti linguistici e all’importanza del linguaggio. George Szirtes
Shaun Tan, L’approdo, Tunué 2016
In un mondo di odio piatto nel quale le parole perdono il loro significato profondo, scelgo un libro che di parole non ha bisogno per trasmettere un messaggio universale. Perché la storia di ciascuno di noi è la storia di un approdo. Gabriella Tonoli
Troche, Dibujos Invisibles, Sudamericana 2013
L’arte di Troche non si serve delle parole, ma riesce a tramettere messaggi potenti e profondi attraverso metafore visive. Cecilia Arbolave e João Varella
Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, Garzanti 1984
Il libro che mi è subito venuto in mente (su cui tanti anni fa scrissi la mia tesi di laurea) è I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, romanzo che ha segnato un punto di svolta per la narrativa post-coloniale in lingua inglese e che è pervaso da una profonda inclusività, per la sfrenata ibridazione dei generi e dei riferimenti letterari a cui attinge, per la visione della storia dell’India, della grande ferita della Partizione con il Pakistan e delle migrazioni di massa che questa ha comportato, per l’impareggiabile esuberanza linguistica. “Ma chi sono io? La mia risposta: sono la somma di tutto ciò che è accaduto prima di me, di tutto ciò che mi si è visto fare, di tutto ciò che mi è stato fatto. Sono ogni persona e ogni cosa il cui essere al mondo è stato toccato dal mio. Sono tutto quello che accade dopo che me ne sono andato e che non sarebbe accaduto se io non fossi venuto. E ciò non mi rende particolarmente eccezionale; ogni ‘io’, ognuno di noi che siamo ora più di seicento milioni, contiene una simile moltitudine. Lo ripeto per l’ultima volta: se volete capirmi, dovrete inghiottire un mondo”. Chiara Veltri
Saša Stojanović, Var, Ensemble 2015
Non ho dubbi sulla mia scelta, Var, di Saša Stojanović, pubblicato da Ensemble nel 2015. Perché è un mosaico potente, una critica dall’interno contro i pregiudizi più diversi, un monumento contro la guerra nella stessa misura in cui, oserei dire, Il cacciatore di Michael Cimino (dove la guerra non è mai inquadrata direttamente, ma resta piuttosto una cornice) è considerato uno dei massimi capolavori del cinema mondiale. Passando l’odio a setaccio, questo libro folle è duro, brutale, poetico, tutto allo stesso tempo. Non offre nessuna falsa sensazione di pacificazione con sé stessi a chi vorrebbe dare alla guerra la “colpa” di tutto, la colpa di come, in una situazione tanto estrema, le persone diventano. Le persone sono già quello che sono, bestie, tutti i giorni, nessuno escluso. Le situazioni limite permettono soltanto che ciò si riveli. Non scelgo questo libro perché è una mia traduzione, ma viceversa: è diventato una mia traduzione perché l’ho scelto. Anita Vuco
Valeria Luiselli, Dimmi come va a finire: Un libro in quaranta domande, La Nuova Frontiera 2017
Se vi preoccupa il trattamento che gli Stati Uniti riservano a immigrati e rifugiati, ma anche, più in generale, l’ordine mondiale, Dimmi come va a finire è una lettura obbligatoria. Valeria Luiselli descrive l’esperienza di traduttrice giudiziaria per i bambini dell’America centrale che vogliono ottenere il riconoscimento di uno status legale a New York, dopo essere scappati dalla violenza delle guerre tra gang in Honduras, El Salvador e Guatemala. L’autrice inoltre dà alla narrativa dell’“immigrazione illegale” un nuovo inquadramento come crisi di un emisfero, crisi riguardo alla quale i nostri governi dovrebbero condividere le responsabilità. Non sa dare risposte certe, ma offre una riflessione personale su una delle questioni politiche più pressanti del nostro tempo, mentre ci incoraggia a passare all’azione nelle nostre comunità. Monika Zaleska