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Il libro fra religione e ricerca di senso: i codici della fede

Il nostro lavoro si è speso nella ricerca di come l’uomo che abbiamo definito “post-moderno” faccia emergere quella domanda di senso che assume volti plurali ed eterogenei, che si può riconoscere in molta letteratura moderna. Abbiamo osservato come questo percorso proceda spesso dalla sofferenza per le ferite e le fragilità che la post-modernità produce nei vissuti esistenziali. Benché la nostra domanda non emerga sempre in modo esplicito, tuttavia quando questo avviene assume la forma dell’invocazione.

La ricerca a volte raggiunge punte più avanzate, arrivando ad assumere contenuti religiosi specifici (nelle tappe precedenti abbiamo incontrato solo un linguaggio prestato dalla fede). Qui proviamo ad analizzare alcuni testi che si riconoscono in questa modalità.

Emmanel Carrére: Il Regno segnato dalla resurrezione

Il primo libro è quello di Emmanuel Carrére, Il Regno, pubblicato da Adelphi (2015, pp. 428). II nostro Autore si presenta come una figura eclettica rispetto al mondo della fede. Il primo capitolo del libro (ben 100 pagine delle 400 totali) è una ricostruzione dei brevi anni della sua adolescenza in cui ha professato la fede cristiana, durante i quali ha annotato una serie di quaderni con meditazioni che ora costituiscono il punto di partenza della sua ricerca. Se l’esito di quegli anni è stato l’abbandono della fede, a distanza di tempo l’Autore ammette una sospensione di quella ricerca, riconosciuta nell’ultima frase degli stessi quaderni: “Ti abbandono Signore. Tu non abbandonarmi”. Potremmo riconoscere il profilo di un agnostico fluttuante, ma è lui stesso a definirsi “Uno scettico. Un agnostico nemmeno abbastanza credente da essere ateo”.

Il genere letterario di Carrére è quello della “narrazione”, che fa però emergere una lunga e intensa frequentazione della saggistica religiosa. L’esito è una commistione di stili: storia, arte, racconto e anche altro; in certi passaggi tutto questo ci sconcerta, ma – non lo neghiamo – abbiamo trovato essere la forza convincente dell’opera. Questa commistione ci aiuta a non dover verificare continuamente la verità delle sue affermazioni, concedendo al testo una grande libertà di espressione e di ricostruzione degli eventi.

Un ricercatore di senso

Tutta la vita del nostro Autore non ha mai abbandonato una ricerca di senso che, pur negandola in modo riflessivo, rimane una delle sue aspirazioni più intense:

“La mia posizione è, in soldoni, che la ricerca del senso della vita, di ciò che sta dietro le quinte, della realtà ultima spesso indicata con il nome di Dio è, se non un’illusione, quanto meno un’aspirazione a cui alcuni sono sensibili e altri no. (pag. 279).

… Da più di vent’anni faccio meditazione, leggo testi mistici, bazzico il vangelo (…) ma per quanto nel nostro dialogo io interpreti la parte di relativista, per quanto sia narcisista, vanesio, non posso negare che questo cammino io lo sto percorrendo (pag. 281)”.

La centralità della figura di Gesù

In questa ricerca “fra le righe” il riferimento alla figura di Cristo è molto intenso: “Gesù è una figura che, se non illumina, acceca” (pag. 105). E su questa figura, che è il cuore del cristianesimo, il libro intende compiere un’indagine esplorativa. L’intento non ci sorprende, infatti sono molti gli autori che nel professare la loro “laicità” ammettono un interesse per la persona di Gesù; tuttavia nel nostro caso la rotta approda ad aspetti inattesi.

Il primo dato che stupisce è il ricorso alle fonti. Ci parrebbe scontato il riferimento ai testi dei vangeli (anche quelli apocrifi). In realtà Carrére afferma che “appena bisogna passare al Vangelo, sono in difficoltà. Perché ci sono troppe immagini nate dalla fantasia, troppa devozione, troppi visi che non hanno un modello reale?” (pag. 275). C’è troppa diffidenza verso quella “sovrastruttura” di pensiero che ha coperto la figura di Gesù. Così la sua ricerca preferisce prendere in considerazione la figura di Paolo, con la sua missione, così come viene raccontata da Luca negli Atti degli apostoli e dalle sue lettere. Non può non sorprenderci questa decisione, visto che proprio la lettura “laica” della figura di Paolo lo accusa di avere inventato il cristianesimo, deturpando la limpidezza originaria di Gesù.

Va riconosciuto che sia il quadro storico dell’evangelizzazione paolina, con i suoi viaggi, i suoi rapporti con Gerusalemme, il dibattito sui cristiani di origine pagana, le scelte di vita di Paolo, sia il percorso che Luca ha compiuto per conoscere Gesù (non è stato un suo contemporaneo), ci hanno convinto, sempre nella libertà di un’esposizione narrativa.

La resurrezione come evento chiave del cristianesimo

La ricerca di Carrére ammette, con riconoscente coraggio, che il profilo qualificante di Gesù è la sua resurrezione: è questo il cuore della vicenda terrena di Cristo alla quale i cristiani vengono invitati a confrontare la loro autenticità.

“La storia della resurrezione, quando i discepoli di Gesù l’hanno raccontata in giro tre giorni dopo la sua morte, quando Paolo l’ha ripresa nelle prediche ai greci giudaizzanti, non era proprio un’idea pia che poteva venire in mente per consolarsi di una perdita crudele, era un’aberrazione e una bestemmia (pag. 16) […] È un’aberrazione, è una bestemmia, ma – risponde Paolo – è il cuore del suo messaggio. Tutto il reso viene dopo (pag. 148) […] Tutta la dottrina di Paolo, se si può chiamare dottrina qualcosa che viene vissuta con tanta intensità, si basa su un concetto: la resurrezione è impossibile, eppure un uomo è risorto. In un punto preciso dello spazio e del tempo si è verificato questo evento impossibile che spacca la storia del mondo in due, un prima e un dopo, e spacca anche l’umanità in due, quelli che non ci credono e quelli che ci credono (pag. 194)”.

Un esito inaspettato e una forza nella sua proclamazione (seppur agnostica) che non possono non stupirci positivamente, proprio perché anomali rispetto ad altre ricerche “laiche” sulla figura di Gesù. Soprattutto perché questo esito coinvolge la vicenda umana dello stesso autore come si riconosce nella citazione che riteniamo sia la più intensa di tutto il libro: “Non credo che Gesù sia risorto. Non credo che un uomo sia tornato dal mondo dei morti. Ma il fatto che lo si possa credere, e che io stesso l’abbia creduto, mi intriga, mi affascina, mi turba, mi sconvolge. Scrivo questo libro per non pensare, ora che non ci credo più, di saperne più di quelli che ci credono e di me stesso quando ci credevo. Scrivo questo libro per cercare di non essere troppo d’accordo con me stesso” (pag. 244).

Siamo di fronte a un testo che non è fine a se stesso, ma coinvolge dimensioni più ampie dell’essere umano, raggiungendo quella che abbiamo chiamato “la domanda di senso” Ecco perché le ultime parole posso essere le seguenti: “Il libro che termino ora l’ho scritto in buonafede, ma cerca di avvicinarsi a qualcosa di tanto più grande di me da far sembrare questa buonafede ben poca cosa, lo so. L’ho scritto portandomi dietro il peso di ciò che sono: un uomo intelligente, ricco, con una posizione: altrettanti handicap per chi vuole entrare nel Regno. Comunque ci ho provato. E nel momento di lasciarlo mi chiedo se questo libro tradisca il giovane che sono stato, e il Signore in cui quel giovane ha creduto, o se invece vi sia rimasto, a suo modo, fedele. Non lo so”.

Sandro Veronesi e la domanda sull’identità di Gesù

Suscita stupore che l’Autore di Caos calmo possa scrivere un libro sul vangelo di Marco (Non dirlo. Il vangelo di Marco, Bompiani 2015, pp. 242) con uno stile che dimostra competenza e dopo una ricerca che ha impegnato l’Autore ad alti livelli. In realtà questa osservazione rafforza la nostra tesi sulla sempre maggiore rilevanza dell’interesse sul “religioso”. Il genere di scrittura è narrativo e procede con uno stile veloce e convincente, al modo di una sceneggiatura cinematografica (caratteristica che Veronesi riconosce allo stesso vangelo di Marco). Le letture dei miracoli, delle Parole, delle azioni di Gesù appaiono frutto di una ricerca accurata e approfondita

Insieme a tutto questo traspare tra le righe anche un coinvolgimento personale che lo stile breve ed essenziale del testo spesso nasconde. Non può essere diversamente quando l’Autore espone le ragioni che lo hanno spinto a scrivere un libro sul vangelo di Marco.

“Il Vangelo Marco è un testo letteralmente entusiasmante: è l’invenzione stessa del vangelo, un raggio di luce gettato a intensità crescente sul personaggio di Gesù, che costringe il lettore, ora come duemila anni fa, a mantenere lo sguardo fisso su di lui, impegnando tutta la propria intelligenza sull’evento della morte e della resurrezione” (pag. 7).

“… La seconda ragione si chiama Dei verbum, cioè il documento più autenticamente rivoluzionario prodotto dal Concilio vaticano II, che rappresenta l’apertura della tradizione cristiana a chiunque senta di avere qualcosa da aggiungervi, indipendentemente dai titoli che possiede, dal ruolo che ricopre e addirittura dal fatto che creda o no in Dio” (pagg. 7-8).

Il lavoro di Veronesi non è solo una ricerca letteraria, ma è un fascino, un’attrazione entusiasmante del nostro Autore verso la “buona notizia” di Marco. La citazione della Dei Verbum rivela una corretta interpretazione del “canone biblico”, che spesso non viene riconosciuta dai cristiani: un canone che riguarda l’uomo e ogni uomo che riflette sull’esistenza. Un “laico” come Veronesi non aveva bisogno dello stimolo di un documento conciliare e, se lo riconosce invece come uno dei motivo che lo hanno spinto alla scrittura, lascia intendere una corretta visione di quanto il testo biblico si propone di rappresentare.

Il fascino della ricerca viene individuato da quello che è l’intento dell’evangelista Marco: la domanda sull’identità di Gesù: “Chi sei Gesù?”. L’interrogativo che accompagna tutto il vangelo e che ha coinvolto i contemporanei di Gesù. Marco la ricostruisce nell’episodio della sinagoga, di sabato, di Cafarnao. Gesù vi entra insieme ai discepoli e insegna. Chi lo ascolta è colto da stupore: “Che cos’è questa? Una nuova dottrina? Chi è costui?” (pag. 39).

La risposta non si trova su una via “breve” o devozionale. Gesù non vuole fraintendimenti, serve un cammino lungo, pensato e costruito nel silenzio (pag. 44). Questo è il senso di quell’inaspettato invito che Gesù impone a quanti sono stati miracolati: “Non dite nulla” (che diventa il titolo del libro e segna tutto il paradigma della ricerca). Questo comando lo ritroviamo a Gerusalemme, alla vigilia dei “fatti ultimi” di Gesù, quando alla risposta di Pietro sull’identità di Gesù, pronunciata con molta enfasi (“Tu sei il cristo!”) ritorna il “Non dirlo”. Vi è una costante tensione fra segreto e manifestazione. Il nostro Autore è convinto (come del resto è per Marco) che la vera risposta debba avvenire dopo la sua morte e resurrezione: solo dopo questo evento si potrà rispondere attraverso una conversione radicale (pag. 97).

Torna la centralità inaspettata del tema della resurrezione – già emerso in Carrére – che diventa centrale nella comprensione della figura di Gesù. Ed è su questo tema che si chiude il nostro testo, rivelando ancora una volta (assumendoci tutto il peso di questa lettura) un coinvolgimento personale.

“Lo svelamento dell’identità di Gesù, quel “Chi dice che io sia”, che si avvera solo nella resurrezione, è da ben duemila anni che cerchiamo di comprendere”. Una compito quindi sempre aperto e da svolgere.”

Ricerca di senso e religione

Sulla scia dei testi citati si potrebbero ricordare altri lavori frutto di una ricerca appropriata e convincente, quali la traduzione dell’Antico testamento di Silvia Giacomini (La nuova Bibbia, Salani 2004 pp. 756, sempre ristampato a cadenza annuale), una “ritrascrizione narrativa” dei libri veterotestamentari, e il testo di Pietro Citati, I Vangeli (Mondadori 2014, pp. 152), dove il testo evangelico assume la forza di un codice epico.

Rimanendo nello stretto ambito delle nostre letture chiudiamo con due osservazioni.

La prima è che, se la domanda di senso può nascere dalla semplice ricerca all’interno dell’umano, la ricerca della sua risposta non può non transitare nell’area religiosa, da sempre impegnata sulla ricerca intorno al quesito originario. Si tratta di un esito non casuale: l’umano è al centro di ogni riflessione religiosa, non può essere altrimenti, e questo ancora con più forza nel cristianesimo.

La seconda è l’apprezzamento per avere spinto il confronto con Gesù sul tema della resurrezione, cosa non sempre scontata neppure nel mondo di quanti professano la fede cristiana. Riconosciamo qui una frattura rispetto al passato, quando le coscienze “laiche” erano attratte solo da un Gesù maestro esemplare di morale, senza alcun riferimento alla sua missione divina.

L’esito è certo scontato: rafforzare la coscienza laica attraverso il dialogo con i canoni delle religioni, senza per questo approdare a una professione di fede. Un vero “orgoglio” di maturità laicale che non può lasciare inoperosa la riflessione di quanti invece questa fede la professano.