Tempo fa commisi l’errore di procurarmi un libro che s’intitolava più o meno La letteratura cattolica nel Novecento. Dico “più o meno” perché l’ho poi dato via, e non mi torna in mente il nome dell’autore. L’ho dato via perché in quel libro si identificava la “letteratura cattolica” con (a) narrazioni in prosa, romanzi o racconti, aventi per protagonisti preti o suore; (b) componimenti poetici assimilabili al genere letterario della preghiera. La prima proposta, dunque, è: fare della letteratura cattolica che, se in prosa, non consista di narrazioni aventi per protagonisti preti o suore; se in versi, non consista di componimenti assimilabili al genere letterario della preghiera.
Nel 1999 Giovanni Paolo II scrisse una Lettera agli artisti. Vi si parla di arti figurative, di architettura, di musica, di poesia, di teatro, fors’anche di giocoleria e di pirotecnica, ma di romanzi no. I romanzieri, insomma, per la massima autorità dell’organizzazione ecclesiastica cattolica, non esistono. D’altra parte, mi ricordo, più o meno in quel periodo ebbi occasione, dopo la registrazione di un programma di Sat2000, di fare due chiacchiere con il cardinal Paul Poupard, allora presidente del Consiglio pontificio per la cultura: e Poupard mi disse che l’ultimo romanzo che lo aveva veramente colpito era il Diario di un curato di campagna di George Bernanos: un romanzo (molto bello, per carità) con protagonista un prete, per l’appunto, e comunque del 1936. La seconda proposta, dunque, è mandare romanzi in omaggio al papa e ai cardinali. Chissà, magari leggono. (Ve lo vedete, Bergoglio che ogni sera, a letto, prima di spegnere la luce, si legge un capitolo di Infinite Jest? Io sì).
Peraltro: Antonio Spadaro ventisette anni fa era un giovane gesuita (ancora novizio, se non ricordo male, quando lo conobbi) molto interessato alla letteratura (fondò nel 1998 Bombacarta, scrisse e pubblicò su Tondelli, Carver, Flanney O’ Connor…) e probabilmente mandato “in missione” dal suo ordine presso la letteratura; fece poi – meritatamente, credo – carriera; entrò in redazione alla Civiltà cattolica, rivista prestigiosissima, dove continuò a occuparsi di letteratura; ne divenne il direttore; si allargò alla ciberteologia (Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Milano, Vita e Pensiero, 2012); e da quando il suo collega Bergoglio (per l’appunto gesuita) è diventato papa col nome d’arte di Francesco, gli sta sempre appresso (almeno a giudicare dai tweet). La terza proposta è dunque: stare appresso ad Antonio Spadaro, che oltre tutto è un ragazzo simpatico. Potrebbe essere una quinta colonna. Magari lo è già.
Circa mezzo millennio fa (ma per le organizzazioni religiose, si sa, il tempo è un dettaglio) un capo dell’Inquisizione (oggi diremmo: un prefetto della Congregazione per la difesa della fede) poi diventato papa, nel compilare alcune lettere di istruzioni per gli inquisitori suoi sottoposti, invitava a prestare particolare attenzione ai libri stampati, allora di recente invenzione, in quanto dotati di una capacità di moltiplicazione e circolazione enorme. Ma invitava anche a concentrarsi sui libri di contenuto concettuale, lasciando perdere quelli di “favole”: che tanto son favole, e non fanno male a nessuno. La quarta proposta, dunque, è: riflettere, meditare, scrivere, produrre ponderose opere che indaghino che cosa diavolo (ops!) siano esattamente, in una prospettiva cattolica, le “favole”, e quale sia il loro rapporto con il mondo dei concetti e con quello delle realtà (materiali e metafisiche). Perché se la cultura laica sostiene, più o meno, che “il romanzo è la coscienza dell’Europa” (sono parole, da tanti ripetute, di Milan Kundera), bisognerà pur capire che cosa è il romanzo in rapporto alla cristianità o almeno alla cattolicità.
Qualche anno fa lo scrittore Federico Platania, dichiaratamente cattolico, pubblicò nel proprio blog una serie di brevi interviste a scrittori dichiaratamente cattolici. Alla prima domanda, “Ti riconosci nella definizione di ‘scrittore cattolico’? E più in generale, cosa pensi di questa classificazione?”, le risposte sono state per lo più evitanti: “Sarà che le etichette mi fanno venire i brividi, ma preferisco tenere i due ambiti separati” (Francesco Longo), “Non mi riconosco in questa classificazione. Credo che, dal punto di vista letterario, non sia particolarmente significativa” (Eraldo Affinati), “Credo nei ruoli, non nelle classificazioni e meno ancora nelle definizioni” (Simonetta Scandivasci), “Eviterei la definizione di scrittore cattolico” (Maurizio Cotrona), “Mi si addicono entrambi: sostantivo e aggettivo. Ma non li salderei per farne una classificazione o un manifesto” (Alberto Bellini), “No. Per uno che detesta le etichette, gli steccati e le classificazioni l’espressione scrittore cattolico non significa nulla” (Giovanni Cocco), “Non mi riconosco. Scrivo e in quel che scrivo passa l’ascolto della vita così come mi appartiene, da persona che crede. Come capita allo scrittore che non crede o che è agnostico” (Mariapia Veladiano), “Non sono mai riuscito a capire cosa significhi scrittore cattolico. Per me è un’informazione puramente aneddotica, se non addirittura un nonsense, come scrittore longilineo” (Luca Doninelli), “Non significa granché. Come nessuna classificazione a priori” (Davide Rondoni). Questa ritrosia è impressionante. La quinta proposta, quindi è: riflettere su questa ritrosia, se non altro per capire se (per esempio) l’errore non stia nella domanda, cioè se effettivamente non abbia senso parlare di “letteratura cattolica”.
Nella medesima serie di interviste, così rispondeva Walter Binaghi: “Intanto è sicuro che esistono dei cattolici. Cominciamo a definire quelli. Cattolico è colui che, oltre a credere ed affermare che Cristo è il principio e il fine dell’umanità, Colui nel quale l’umanità è chiamata alla comunione con Dio, crede che l’unità della fede cristiana sia garantita dallo Spirito Santo nella Chiesa nata dalla tradizione apostolica, la quale non è etnia né ideologia né cultura ma è fatta per ospitare ogni uomo che viene a questo mondo. In secondo luogo è sicuro che esistono degli scrittori. Definisco scrittore colui che si assume la responsabilità di una comunicazione pubblica non nella labilità della forma orale o radiotelevisiva ma nella scrittura che è garanzia di ponderatezza e di storicità (scripta manent). Dunque esistono degli scrittori cattolici solo nella misura in cui la pienezza dell’umanità in Cristo è il presupposto implicito o esplicito della loro comunicazione e l’universalità è il loro orizzonte, nel senso che nessun aspetto della condizione umana è escluso dalla loro indagine”. La sesta proposta è dunque: riflettere sull’ultima frase di questa risposta.
Nella medesima serie di interviste, così rispondeva Gabriele Dadati: “Sono un essere umano cattolico, nel senso di: mi emoziono a immaginare la creazione del mondo, mi terrorizzo a immaginare la verità dell’ostia come corpo vivo, trovo nutritivo immaginare la vita dei miei morti e così via. Poi so bene che i testi sacri sono nel tempo e corrotti dal tempo, che la gerarchia ecclesiastica è quel che è, che non è facile capire cosa ci dica ancora oggi la tradizione e così via. Ma posso dire che le mie immaginazioni restano vere durante l’intera mia giornata, quando mangio e quando passeggio, quando lavoro e quando pago il bollo della macchina. Sicché sì, restan vere anche quando scrivo. Per me questo è l’unico significato di “scrittore cattolico” nella mia vita”. La risposta sarebbe identica a quella di Walter Binaghi, se Dadati non parlasse di “immaginazioni”. E Veronica Tomassini rispondeva: “Alla questione non ho mai pensato in questi termini. E tuttavia in questi termini è stato scritto il romanzo Sangue di cane. Qualcuno lo ha definito uno dei pochi testi cristologici di questi anni. Non lo so, l’esperienza personale attiene alla scrittura e viceversa, senza Dio non sarei in grado di rileggere la mia vita, e quel che ho prodotto fino ad oggi attiene essenzialmente ad essa”. La settima proposta, dunque, è: interrogarsi sul senso dell’immaginario religioso in quanto immaginario e in quanto “strumento di lettura della vita” (il presupposto della proposta è che gli immaginari altro non siano che “strumenti di lettura della vita”).
Mi toccò di essere il primo di quella serie di interviste, e – come è mio solito – risposi mettendo in questione la domanda: “La domanda è, per me: in quali contesti diventa rilevante l’accostamento dell’aggettivo cattolico al sostantivo scrittore? Un altro modo per porre la stessa domanda è: quando di uno scrittore si dice che è cattolico, che cosa si dice di lui? Nella mia esperienza, nei contesti della critica letteraria, della discussione culturale et similia, quando di uno scrittore si dice che è cattolico, si intende dire che ci ha qualcosa di misterioso. Che è una persona ragionevole, magari, ma che in lui c’è un luogo nel quale, anche a guardarci bene, non si vede niente”. L’ottava proposta è dunque: prendere coscienza che non tutto può essere illuminato, e che una letteratura cattolica – posto che sia possibile – non ha come mestiere quello di tranquillizzare e rassicurare, ma casomai quello di inquietare: mostrando, appunto, l’esistenza di di luoghi oscuri nei quali, anche a guardarci bene, non si vede niente.
Uno dei problemi delle “religioni del libro” è che, in genere, la scrittura del libro al quale fanno riferimento – e che talvolta qualificano schiettamente come parola di Dio – sembra essere terminata da tempo; anzi, dirò di più, sembra essersi arrestata da tempo. Come se fino a un certo giorno il Signore avesse parlato in certi modi, confidando agli uomini la sua Parola, e poi basta. Questa interruzione era, è inspiegabile. Certo: i motivi organizzativi, politici, eccetera, che stanno dietro a questa idea di interruzione – sono evidenti. Un canone mobile non è funzionale a nessun potere. La nona proposta, dunque, è: lavoriamo per riaprire il canone. O almeno, come minimo, per rileggerlo, riscriverlo, ritradurlo. L’esempio di Mario Pomilio col suo Quinto evangelio, di Giuseppe Berto col suo La Gloria, di Diego Fabbri col suo Processo a Gesù, di Carlo Coccioli col suo Davide, eccetera, tanto per restare in Italia, sono lì a indicare delle possibilità. Ma l’ambizione suprema resterà quella di aggiungere un libro al Libro (come voleva fare quel baciapile di Nietzsche, in fondo, col suo Zarathustra).
Per finire: non va trascurato il fatto che gli scrittori cattolici e le scrittrici cattoliche riescono in genere a far parlare di sé solo quando pubblicano con editori non cattolici, scrivono su giornali non cattolici, partecipano a programmi televisivi non cattolici di televisioni non cattoliche, eccetera. La decima proposta è dunque: l’abolizione dell’editoria cattolica, in quanto inutile (più esattamente: il riconoscimento dell’editoria cattolica come “sistema chiuso”, e quindi tendenzialmente precipitante su sé stesso).