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C’è qualcosa di sbagliato nel mondo?

Cosa c’è di sbagliato nel mondo, secondo Chesterton? Come mai trova qualcosa di sbagliato, lui che era così inguaribilmente positivo rispetto al mondo?

A dire il vero Chesterton ebbe da ridire sul titolo, che, a quanto pare, fu modificato dall’editore e lui non ebbe l’accortezza di controllare prima che il testo venisse mandato a stampa. L’idea originale del titolo doveva essere meno lapidaria, qualcosa tipo Quel che è sbagliato. Per questo, pochi mesi dopo l’uscita di Cosa c’è di sbagliato nel mondo, Chesterton fu felice di accogliere la proposta di un altro editore che gli chiese di scrivere Cosa c’è di giusto nel mondo. In quest’ultimo testo Chesterton dichiara che non c’è proprio nulla di sbagliato nel mondo. Paradossalmente, ciò che è sbagliato è proprio questo: noi, nel nostro vivere quotidiano, non siamo così sicuri che il mondo sia una cosa bella e buona e che l’uomo sia una cosa bella e buona. Siamo dei brontoloni, tutti perfettamente d’accordo nel rovesciarci addosso l’un l’altro quanto vanno male le cose. Anche con gente che non conosciamo; siamo in fila al supermercato e di cosa parliamo? La crisi, il guazzabuglio della politica, e così via. Contro questo modo di pensare interviene Chesterton: non è una vera comunità umana quella che, semplicemente, si basa sul fatto che concordiamo su quanto l’uomo sia capace di sbagliare. Proviamo, dice Chesterton, a mettere a tema cosa per noi è giusto. Cominceremmo a scannarci l’un l’altro e, afferma sempre Chesterton, sarebbe anche ora! È scomparso il coraggio di partire da un ideale umano che sia vigorosamente radicato sulle nostre attese più grandi e vere, ecco un passaggio significativo: “Nessun uomo domanda più ciò che desidera, ogni uomo chiede quello che si figura di poter ottenere. E rapidamente la gente si dimentica ciò che l’uomo voleva davvero in principio; […]. Il tutto diventa uno stravagante tumulto di seconde scelte, un pandemonio di ripieghi”. Ecco quel che c’è di sbagliato, non nel mondo, ma nella vista dell’uomo che si è appannata.

Spesso si attribuiscono virtù “profetiche” a Chesterton: pare che molte sue opere abbiano non solo colto nel segno i problemi che poi il trascorrere del tempo ha rivelato in tutta la sua interezza. Questa raccolta di saggi è su questo filone?

Appena ho cominciato a tradurre i primi paragrafi di questo testo ho avuto proprio questa impressione. Mi dicevo: “Ma guarda, ha scritto queste cose nel 1910 e adesso è tutto esattamente come lui aveva previsto”. Poi, nel corso della traduzione, ci ho pensato sopra e non credo che Chesterton avesse quelle che noi in modo semplicistico definiamo “virtù profetiche”. Noi guardiamo al futuro, pensiamo tutto in termini di progresso e per questo, quando constatiamo che certe cose scritte nel passato, in qualche modo, trovano risposta negli eventi futuri, parliamo di profezia. Nel caso di Chesterton forse è vero, ma nel senso più autentico possibile; la profezia che si può attribuire a lui non è certo quella di vedere le cose in una sfera di cristallo. Penso che, se vogliamo definirlo profeta, dobbiamo intendere questa parola come sinonimo di rivoluzionario: la sua vista era così chiara sul presente (e di conseguenza sul futuro) perché egli teneva l’occhio fisso sull’Origine, su cosa da sempre e per sempre significa la presenza viva e creativa dell’uomo dentro il mondo. Per rivoluzionario intendo non un semplice sovversivo, ma quello che lui spiega benissimo così: “Per qualche strana ragione l’uomo deve sempre piantare i suoi alberi da frutto in un cimitero. L’uomo può trovare la vita solo tra i morti. L’uomo è un mostro deforme, con i piedi rivolti in avanti e il volto girato all’indietro. Può costruire un futuro lussureggiante e maestoso fintanto che continua a pensare al passato. […]. Il nostro moderno idealismo profetico è meschino perché ha subìto un incessante processo di eliminazione. Dobbiamo andare in cerca di cose nuove perché non ci è permesso indagare le cose antiche. Ciò di cui abbiamo bisogno è una libertà assoluta di restaurazione così come di rivoluzione”.

Il distributista Chesterton dove voleva arrivare?

Mi verrebbe da dire, con ironia, che voleva finalmente svelarci la soluzione di quell’annoso dilemma sull’uovo e la gallina. Da questo esempio comincia l’intero saggio Cosa c’è di sbagliato nel mondo. La risposta è tanto evidente, quanto il fatto che a nessuno è mai venuto in mente di vedere le cose in questo modo: Chesterton osserva che, a differenza dell’uovo (che serve solo a dar vita alla gallina), la gallina non serve solo a fare un altro uovo. La gallina esiste per fare tantissime cose, anche per divertirsi e godersi l’aria del campo in cui becca. L’ideale di Chesterton è quello di difendere l’immagine di un uomo che sia tutto intero e questa idea di uomo non è vera solo nei romanzi o nelle fiction televisive; ogni disegno politico, economico e sociale dovrebbe partire dalla semplice, quanto evidente, constatazione che la gallina (cioè l’uomo), non è solo una “fabbrica-uova”. Chesterton attacca la mera idolatria dell’«efficienza», quella per cui tutto l’indaffarato sistema sociale ed economico si regge sull’idea che il progresso sia frutto del «meglio» di ogni uomo. Se sei eccellente nel suonare il violino, al mondo servi solo come violinista. Se, poi, sai anche giocare discretamente a carte e non te la cavi male a fare il giardiniere, queste tue capacità meno eccellenti non «sono utili» all’economia e alla politica. È questo l’errore, secondo Chesterton. Il più intraprendente, aggiornato, visionario manager o capo di Stato non avrà mai quell’audace spregiudicatezza e serietà che ha il bambino quando, giocando, dà tutto se stesso. L’idea di distributismo credo abbia il senso di dar credito a quella capacità creativa che è propria del bambino e che l’uomo adulto deve dimenticarsi il meno possibile: “Un uomo nel suo pezzo di terra si gusta l’eternità o, in altre parole, lavora dieci minuti in più di quello che gli sarebbe richiesto”. L’uomo è creativo, cioè spontaneamente partecipa a modo suo della bellezza che vede in un tramonto, in un campo di fiori; forse non saprà tradurla nella bellezza di cui era capace Van Gogh nei suoi dipinti, ma ci prova con tutto se stesso, quando è indaffarato a dipingere le pareti di casa sua o a sistemare le piante nel suo giardino. L’idea di proprietà che Chesterton aveva in mente partiva da questo spinta creativa che mette l’uomo all’opera, al lavoro. È una visione democratica, fondata però non sull’appiattimento di tutti gli individui in una massa indistinta di esseri che per definizione hanno gli stessi diritti; ecco un altro passaggio bellissimo: “La proprietà è semplicemente l’arte della democrazia. Significa che ogni uomo dovrebbe avere qualcosa a cui dar forma a sua immagine, come egli è fatto a immagine del cielo.[…] Un uomo che ama il suo piccolo campo triangolare, lo ama perché è di forma triangolare; chiunque distrugge quella forma, dando più terra a quell’uomo, è un ladro che ha rubato un triangolo. […] Egli non può vedere la forma della sua terra finché non vede le siepi del vicino”.

Ritiene ancora utili oggi gli insegnamenti chestertoniani su famiglia, economia e società?

Mi è impossibile non citare a rovescio uno slogan che sentiamo in questi giorni. Si grida alle donne di uscire di casa, di scendere in piazza per far vedere di cosa sono capaci. Quando Chesterton scrisse questo saggio era l’epoca delle Suffragette: le donne scendevano in piazza e reclamavano il diritto di voto. A loro Chesterton suggeriva che, forse, era meglio stare a casa; penso lo direbbe anche alle donne di oggi. Una cosa del genere può far venire i brividi all’avanzato XXI secolo, in cui la donna, dopo una lotta secolare, ha guadagnato a caro prezzo una presunta libertà ed uguaglianza di diritti. Il senso della provocazione di Chesterton, anche in questo caso, era quello di cominciare ogni discussione sempre a partire dall’ideale giusto e ultimo, senza escluderlo a prescindere solo perché sappiamo che non sarà raggiungibile. La famiglia come luogo di vera libertà è l’ideale, la rivoluzione di sguardo che Chesterton riteneva fosse la necessità più urgente per il nostro mondo. Lo è ancora.

I tragici fatti di cronaca che ascoltiamo quotidianamente sono un grido che noi stessi continuiamo a fraintendere: non abbiamo bisogno di criminologi, psicologi o di qualsiasi altro tipo di specialisti per renderci conto che siamo capaci di commettere il male. Abbiamo bisogno di non dimenticare che l’uomo, per quanto male possa commettere, è in origine una cosa buona. La donna, per Chesterton, doveva essere la combattente paladina di questo spazio libero per l’uomo, regina dell’impero domestico e non casalinga disperata. Non si tratta qui di azzerare l’intoccabile verità che una donna può essere capo d’azienda tanto quanto un uomo, ma di spostare lo sguardo su un orizzonte più complessivo, in cui uomo e donna e bambino sono davvero la radice viva che regge il mondo. Ma mi spiego meglio, ricordando l’esempio più commovente che Chesterton fa nel libro di cui stiamo parlando: se in un asilo si verificava un’epidemia di pidocchi, la legge imponeva che si tagliassero subito i capelli ai bambini. Una madre, invece e istintivamente, ama i capelli di sua figlia e si metterebbe a toglierle i pidocchi, non a tagliarle i capelli. La famiglia è quella roccaforte chiamata a difendere l’uomo libero e tutto intero, a non ridurlo al peso delle sue colpe o all’uso delle sue qualità migliori: “Quella piccola monella con i capelli ramati, che ho appena visto trotterellare davanti a casa mia, non dovrà essere rasata o azzoppata o alterata in qualche modo; i suoi capelli non dovranno essere tagliati corti come quelli di un carcerato; no, tutti i regni della terra dovranno essere modellati e mutilati per adattarsi a lei. Lei è la sacra immagine dell’uomo; attorno a lei la fabbrica sociale vacillerà, si spaccherà e crollerà; le colonne della società tremeranno e le volte della storia si sgretoleranno, e non uno dei suoi capelli sarà toccato”.

Lei è la traduttrice del volume. Che mondo apre Chesterton agli occhi di un traduttore?

Mi è stato insegnato che tradurre è una questione di ospitalità: è un po’ come quando un amico entra in casa tua; tu lo accogli, cerchi di farlo accomodare al meglio e lui, contemporaneamente, abita i tuoi spazi, si mette a suo agio. Chesterton è uno di quegli ospiti che entra in casa e mette a soqquadro tutto, al punto che non riconosci più casa tua. O meglio, la guardi con occhi nuovi e la trovi decisamente più bella di come credevi di conoscerla. Io ho avuto il privilegio di tradurre questo libro mentre aspettavo il mio secondo figlio; posso dire che Chesterton mi ha accompagnato a farlo nascere. Vedevo le altre future mamme leggere i classici manuali sulla maternità, mentre aspettavamo di cominciare il corso pre-parto. Io avevo in mano i miei fogli intitolati Cosa c’è di sbagliato nel mondo. Non c’era una differenza sostanziale tra questi due tipi di letture: tutte ci preoccupavamo di essere pronte ad accogliere una nuova vita, ma io avevo un compagno di viaggio che non mi ha dato regole. Mi ha preparato a non perdermi quella spaventosa meraviglia che è “venire al mondo”. E mi ha insegnato che è questa spaventosa meraviglia ciò che rende l’essere umano un presenza davvero portentosa: “Questa è la sola ed eterna educazione: essere così sicuri che qualcosa è vero da avere il coraggio di dirlo a un bambino”.