I
Ci siamo ancora
l ragazzino si guarda intorno, inebetito, le orecchie che fischiano. Le urla di concitazione, i clacson impazziti e la sirena dell’ambulanza giungono attutiti, quasi che il mon- do non stia crollando lì, ma a centinaia di metri di distanza.
Eppure tutto questo non c’era, nelle fiabe che la madre gli raccontava da piccolo. Il boato che scuote la terra e squassa il torace, le fiamme e il sibilo delle schegge incandescenti. Il muro di polvere che si alza fino al cielo e avvolge ogni cosa, come un sudario. La pioggia sorda di detriti. Il puzzo di bruciato e nafta che entra nei polmoni, in profondità, facendoti tossire così forte che pensi di sputarli fuori da un momento all’altro.
«Ahmad! » grida, sforzandosi di isolare i rumori. Tutto questo non c’era, nelle fiabe che la madre gli raccontava da piccolo. La nube di cenere che si dirada, sve- lando cumuli di carne informe e pozze di sangue scuro. Corpi smembrati, mutilati, disarticolati. Persone agonizzanti che strisciano invocando aiuto, che tendono la mano verso di lui, non si capisce se per essere salvate o per tra- scinarlo con sé, nel loro incubo.
Il ragazzino si guarda le mani e le gambe. Si tasta il vi- so. C’è ancora. Per qualche strana ragione, c’è ancora. È stato sbalzato contro il muro di un edificio, a diversi metri dal luogo in cui si trovava pochi istanti prima; dove c’era il negozio del calzolaio c’è un grosso buco nero.
«Ahmad! » torna a gridare.
Cerca di alzarsi, puntando la schiena sulla parete. Si sente indolenzito.
«Ahmad! » grida per la terza volta.
Come attratto da una forza invisibile, comincia a vagare fra le macerie, scivolando fra i mille fantasmi che popolano quell’inferno. Chiama a gran voce un nome che gli rimbomba dentro, al ritmo accelerato del suo cuore. A poco a poco, l’udito torna normale. Suoni, sirene, urla: è tutto così confuso. Tutto così caotico.
Scavalca i resti di un divano precipitato da chissà dove e aggira la carcassa in fiamme di un’automobile, facendosi strada verso ciò che rimane del negozio del calzolaio. Mentre si avvicina, il fetore di bruciato e morte si fa più intenso. Sta entrando nella bocca del drago: la creatura più mostruosa che riesca a ricordare, delle fiabe che gli raccontava la madre.
Un uomo corre in direzione opposta; tra le braccia, il corpo esanime di una giovane donna, che oscilla come una bambola. Singhiozza disperato e continua a ripetere:
«Alla¯ hu akbar»1.
Ora il ragazzino si trova proprio nel punto in cui, solo pochi minuti prima, stava con il fratello, intento a osserva- re il ciabattino che sistemava la suola di uno scarpone. Dal- la bottega escono alte lingue di fuoco. Cerca di non guar- dare all’interno. S’impone di non farlo. Occhi bassi, ha già visto troppo.
All’improvviso gli sembra di riconoscere un suono: il pianto di un bambino. Il cuore sobbalza, un’esplosione di adrenalina lo scuote.
Si lancia con quanto fiato ha in gola dall’altra parte della strada ed entra in un edificio semidistrutto. Ormai la cenere si è depositata, eppure fatica a distinguere quel- lo che lo circonda: un ammasso di detriti, soprammobili in frantumi, tubature rotte e grovigli di ferro che oscilla- no nel vuoto. In un angolo della stanza, gli pare di scor- gere anche i resti di un essere umano, ma non è sicuro. È tutto così confuso. Cerca di non soffermarsi su quel det- taglio, preferisce non guardare: occhi bassi, ha già visto troppo.
«Ahmad, sei qui?»
Il pianto cresce d’intensità. Sembra provenire da sotto un pezzo di muro crollato, a un paio di metri da lui. Il ra- gazzino si avvicina, tenendosi a fatica in equilibrio sui detriti. Si china e lo vede: è lì, all’apparenza illeso. È terrorizzato, come avesse visto un drago anche lui.
« Sono qui, Ahmad». Gli tende una mano, ma il piccolo non reagisce: non fa che piangere, impietrito dalla paura. Si allunga più che può, fino quasi a slogarsi una spalla. Fino ad afferrarlo per la manica del giubbotto. Lo trascina a sé con delicatezza, un occhio alla parete in bilico sopra di lui.
« Tranquillo, sono qui» ripete.
Ci mette un po’, ma alla fine riesce a liberarlo. Lo ripulisce da polvere e frantumi e lo scuote per accertarsi, una volta di più, che sia vivo. Non si vedono segni o ferite. Sul corpo, almeno. Dentro, è un’altra storia.
Lo abbraccia stretto, con le poche energie che gli rimangono. Perché non ha più nessuno al mondo, oltre a lui. Perché è l’unica ragione che gli è rimasta per vivere. E perché loro due ci sono ancora, nonostante tutto.
«Puoi smettere di piangere, adesso. Sono qui con te».
Ma quello di Ahmad è un flusso ininterrotto di lacrime e singhiozzi, che è impossibile arginare.
« Ci siamo ancora, fratello mio. Ci siamo ancora, alh.amdulilla¯h2 ».
Lo prende in braccio ed escono, insieme, verso la luce.
1 « Dio è grande» in lingua araba.
2 « Grazie a Dio».
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